Boiler
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Boiler
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Da cronache familiari.
Sono lì che lavo i piatti, sotto uno scroscio d’acqua gelida, per via del boiler elettrico, a dir il vero il boiler non centra niente, si tratta dell’ultima bolletta, anzi del conguaglio che hanno pensato bene di farmi pervenire per raccomandata. Un’ingiunzione di pagamento, dopo l’ennesima contestazione, con minaccia d’interruzione del servizio se non provvedo al più presto a saldare tramite bollettino la modica cifra di ottocentocinquanta euro. Dico…, ottocentocinquanta euro…, sarà colpa del bestione. Il bestione è il boiler, modello originale anni cinquanta, nato insieme all’appartamento, attaccato all’angolo subito sopra il water: sembra uno di quei serbatoi supplementari per jet supersonici, e chissà quale pilota burlone l’ha sganciato giusto, giusto, sopra il mio bagno centrandolo al primo colpo pure, visto che la sua superficie corrisponde pressappoco all’intero volume del locale e nemmeno la lavatrice c’è più entrata, ed è finita nel cucinino al posto della lavastoviglie, che è rimasta in negozio. Cosicché, quando prima di andare a dormire, mi scolo le mie solite dieci birre, e mi sveglio di soprassalto nel cuore della notte, dopo sogni intensi, pieni di fontanelle, rogge straripanti, donne accovacciate che zampillano sorridenti; una mano stretta sulla patta, corro, come un centometrista inseguito da Morfeo incazzato nero, lungo e dinoccolato che sono, l’equilibrio compromesso da fumi narcotronici, immancabilmente ci sbatto certe craniate che sento la lamiera rientrare e la mia testa rinculare come un pallone sparato dritto sul palo. E lui vendicativo, il boiler, attacca subito la sua enorme resistenza; all’inizio con un lamento quasi impercettibile, basso e profondo, da mostro appena risvegliato, ma che subito dopo aumenta in un continuo crescendo, come un’idrovora che, in lontananza, dalla periferia della città, s’avvicina inesorabile aspirando ogni kilowattora residuo, e i cavi elettrici cominciano a vibrare tutti quanti insieme provocandomi un gran solletico alla pianta dei piedi. E’ allora che il mugghio diventa insopportabile, una lamento terrificante che sembra preso paro, paro dalla colonna sonora di certi film del terrore, e nel buio fitto - la luce mi dimentico sempre di accenderla - appaiono tutti quei sepolcri, i coperchi che si muovono strisciando di lato, e poi sbucano quelle teste dalle orbite scavate, a centinaia, che mi fissano: ma cosa gli costa girarsi dall’altra parte, dico, lo sanno che non riesco a farla se mi si guarda, no?.
Ma è stata mia figlia Milena, che a undici anni è decisamente più sveglia di me, a svelarmi l’arcano. La mamma sai, la mamma fa delle cose strane, mi ha confessato, però subito dopo la sua bocca è rimasta sigillata, non ha più voluto raccontarmi altro.
Così ho cominciato a porre attenzione a cosa combinava mia moglie, quando, per esempio in quelle sue bacinelle di plastica allineate sul fondo della vasca, piene di mutande reggiseni, calze e maglie, con la pistola a spruzzo immersa, completamente aperta, e l’acqua che tracimava, lavava e sciacquava la biancheria immemore dell’esistenza della lavatrice; mi sono accorto che il rubinetto a fine corsa non era quello con il cerchietto blu, ma l’altro, quello con la targhetta rossa, e il boiler nonostante la sua capacità da autocisterna, mandava ululati terrificanti, la resistenza sparata al massimo, tutta incandescente, lambita da un fiume in piena. E quando faceva la doccia poi ci rimaneva ore: ho spiato dal buco della serratura - di solito si spia qualche piaciona ancora da scoprire dal buco della serratura, ma la moglie…, è come ingollarsi interi vassoi colmi di frutta - e immersa in una nebbia padana ho visto la sua figura evanescente, in piedi su una sedia abbracciata al boiler, e questa volta, il bastardone, faceva le fusa emettendo un ronfo godurioso da gattone innamorato.
Insomma sono qui che lavo i piatti le mani ormai assiderate in preda a tutti questi miei pensieri turbinosi e finalmente ecco l’ultimo della pila lunga una settimana, e lancio l’occhio sgretolato, affetto da arsura cronica, sul bicchiere cautelativamente appoggiato qui accanto a me, pieno di whisky fino all’orlo, un brindisi per festeggiare il congedo dai piatti, - chissà com’è ma ogni occasione è diventa buona per brindare, e prima di sera, prima delle birre, finisce sempre che vedo il fondo della bottiglia - così tutto contento stringo con la destra quest’ultimo piatto sotto il risciacquo poi spavaldo lo passo al volo alla sinistra, chiudo le dita e zac il piatto non c’è più, e neanche il bicchiere di whisky, al suo posto compare questo faccione che si abbassa su di me, all’inizio un po’ sfocato, come circondato da un alone di luce intesa, poi piano, piano, sempre più nitido. Ha un brillante incastonato nella narice, le labbra scure molto ben curate ritagliate con matita e poi ripassate a pennello, un anellino pende da un sopracciglio, che sia africana? penso, no, la pelle è troppo chiara e il viso giovane, giovane, carino, da ventenne, gli occhi frastagliati da sbavature nere, così lucidi che sembrano pieni di lacrime. E quella bocca dark che s’apre e chiude.
«Papà, papà», dice ad un certo punto «oh papà è un miracolo». Continua a ripetere questa scema.
«Ma che papà e papà», urlo «papà un corno. Dov’è finito il piatto piuttosto? Non si sarà mica rotto? Chi la sente quella adesso».
«Papà, papà». Insiste la pazza con le guance tutte rigate da gocce scure che scrosciano sulla mia faccia come una pioggia metropolitana. «Spostati no brutta scema non vedi che mi stai sporcando, e smettila di chiamarmi papà che non ti conosco nemmeno, mia figlia si chiama Milena e ha undici anni».
«Ma sono Milena Papà, sono io papà, nove anni papà, nessuno ci credeva più e sei uscito dal coma, è un miracolo papà, un miracolo….».
Siamo in macchina e nonostante i sei mesi passati nel reparto riabilitazione, io che ero già lungo e dinoccolato, adesso mi tocca camminare con queste stampelle triforcute, un triciclo per disabili, un’umiliazione dentro l’umiliazione, anche le classiche stampelle a due ruote mi sono precluse, per fortuna ho smesso di pisciarmi addosso, ma le ossa che scricchiolano no, mi son rimaste tutte quante, dure e lisce, da sepolcro, e quando le braccia mi cedono e cado, quelle stronze delle stampelle triforcute sono le uniche a rimanere in piedi: le odio. Adesso mi aspettano pazienti dietro, nel bagagliaio della station wagon, mentre mia figlia azzarda un sorpasso in curva e mi sorride felice, s’è messa tutta in ghingheri, me ne accorgo solo adesso che finalmente la vedo senza camice.
«Non avrai scelto medicina per me?» Riesco finalmente a chiederle .
«Cosa centra papà, l’ho scelta perché mi piace».
«E l’internato proprio nel reparto di lungodegenza vegetativa, quello dei morti viventi, è stato un caso?».
Lei alza le spalle «Dai papà, già che c’ero ne ho approfittato per starti vicino, no? Che c’è di male?».
«Proprio uguale a tua madre».
Milena diventa tutta rossa specialmente intorno ai piercing. «Sai mamma ha detto che non se la sentiva di vederti in quello stato, che non ce l’avrebbe fatta».
«Certo vigliacca com’è, adesso scommetto che sarà chiusa nello studio tutta tremante, aspettando il ritorno dello zombi».
Milena deglutisce vistosamente. « Mamma se n’è andata».
«Ah».
«Vive con un altro».
«Ah».
«Ho un fratellastro, però mi ha lasciato l’appartamento, ma non preoccuparti mi prenderò io cura di te».
«Bene. Così almeno ha finito di consumarmi tutta quell’acqua calda». Sparo acido.
Gli occhi di mia figlia adesso sono tutti girati di lato, molto preoccupati, anche se non vuole darlo a vedere sta controllando le mie reazioni: spero che almeno le serva per la tesi».
«Tutta colpa di quel maledetto boiler». Continuo
«Cosa centra il boiler».
«Come cosa centra, con le craniate che gli ho dato, era inevitabile».
Lei scoppia a ridere «Dai papà non fare lo scemo, ormai sono cresciuta, eri alcolizzato, ecco quello che è successo».
«Alcolizzato, che paroloni, ogni tanto mi facevo un goccetto, tutto lì».
«Quando ti hanno portato in rianimazione nelle vene avevi più alcol che sangue, e la cartella clinica parla chiaro, aneurisma cerebrale causato da un’eccessiva permanenza di sostanze alcoliche nel sangue. Eccessiva permanenza, Papà, e i dottorandi studiando il tuo caso invece di gridare al miracolo, si sono sbellicati dalle risate; sostenevano che l’emorragia aveva rilasciato una quantità tale d’alcool etilico che ti ha conservato il cervello sotto spirito fino ad ora».
«Che fai la spiritosa?».
«Papà se ti vedo ancora con una bottiglia in mano te le stritolo».
«Milena! non parlare così a tuo padre, capito!?».
«E tu giurami che non berrai mai più».
«Certo che te lo giuro, come potrei ormai?» Per essere più convincente allungo due dita e le bacio prima da una parte poi dall’altra, però ho le labbra screpolate e un’arsura che mi tormenta ormai da ben sei mesi… e nove anni. E a dire il vero, a parte il giuramento, adesso avrei proprio bisogno di un goccetto, perché man mano che ci avviciniamo a casa e comincio a riconoscere i quartieri, le vie, i negozi, mi sta assalendo un terrore tremendo, una crisi di panico in piena regola, terribile, comincio a sudare copiosamente, con le gambe che tremano; mi passo una mano sul viso trattenendo un lamento. Mia figlia adesso si è girata e mi guarda tutta comprensiva come se si fosse aspettata questa reazione.
«Coraggio papà, lo so, la storia di mamma deve essere stata un brutto colpo, mi dispiace forse avrei dovuto essere meno diretta, ma certe cose le dovevi sapere prima che te le raccontasse qualcun altro, o le scoprissi da solo, vedrai papà che un poco alla volta…».
Ma io non la sto già più a sentire, adesso abbiamo parcheggiato sotto casa, guardo angosciato l’appartamento al quinto piano, poi appoggio la mano su quella di mia figlia ancora avvinghiata intorno al pomello delle marce, lei prontamente la stringe con forza, mentre con l’altra comincia a staccare ciuffi fradici dalla mia fronte.
«Dai papà ti prego non fare così, vedrai che le cose andranno a posto, sai quante donne sole conosco, ci penserò io, ancora qualche mese poi ti rifarai una vita…».
«Certo…» faccio io «un’altra donna, come no, ma non è questo il punto…ti prego Milena, dimmi ti prego…»
«Coraggio papà, cosa c’è?»
«Ma i…» Cazzo non riesco neanche a pronunciare la parola.
«ma i p…i p…i pi…»
«Si papà, dai coraggio, i pi…cosa»
«i piatti… i piatti chi li lava?».
Sono lì che lavo i piatti, sotto uno scroscio d’acqua gelida, per via del boiler elettrico, a dir il vero il boiler non centra niente, si tratta dell’ultima bolletta, anzi del conguaglio che hanno pensato bene di farmi pervenire per raccomandata. Un’ingiunzione di pagamento, dopo l’ennesima contestazione, con minaccia d’interruzione del servizio se non provvedo al più presto a saldare tramite bollettino la modica cifra di ottocentocinquanta euro. Dico…, ottocentocinquanta euro…, sarà colpa del bestione. Il bestione è il boiler, modello originale anni cinquanta, nato insieme all’appartamento, attaccato all’angolo subito sopra il water: sembra uno di quei serbatoi supplementari per jet supersonici, e chissà quale pilota burlone l’ha sganciato giusto, giusto, sopra il mio bagno centrandolo al primo colpo pure, visto che la sua superficie corrisponde pressappoco all’intero volume del locale e nemmeno la lavatrice c’è più entrata, ed è finita nel cucinino al posto della lavastoviglie, che è rimasta in negozio. Cosicché, quando prima di andare a dormire, mi scolo le mie solite dieci birre, e mi sveglio di soprassalto nel cuore della notte, dopo sogni intensi, pieni di fontanelle, rogge straripanti, donne accovacciate che zampillano sorridenti; una mano stretta sulla patta, corro, come un centometrista inseguito da Morfeo incazzato nero, lungo e dinoccolato che sono, l’equilibrio compromesso da fumi narcotronici, immancabilmente ci sbatto certe craniate che sento la lamiera rientrare e la mia testa rinculare come un pallone sparato dritto sul palo. E lui vendicativo, il boiler, attacca subito la sua enorme resistenza; all’inizio con un lamento quasi impercettibile, basso e profondo, da mostro appena risvegliato, ma che subito dopo aumenta in un continuo crescendo, come un’idrovora che, in lontananza, dalla periferia della città, s’avvicina inesorabile aspirando ogni kilowattora residuo, e i cavi elettrici cominciano a vibrare tutti quanti insieme provocandomi un gran solletico alla pianta dei piedi. E’ allora che il mugghio diventa insopportabile, una lamento terrificante che sembra preso paro, paro dalla colonna sonora di certi film del terrore, e nel buio fitto - la luce mi dimentico sempre di accenderla - appaiono tutti quei sepolcri, i coperchi che si muovono strisciando di lato, e poi sbucano quelle teste dalle orbite scavate, a centinaia, che mi fissano: ma cosa gli costa girarsi dall’altra parte, dico, lo sanno che non riesco a farla se mi si guarda, no?.
Ma è stata mia figlia Milena, che a undici anni è decisamente più sveglia di me, a svelarmi l’arcano. La mamma sai, la mamma fa delle cose strane, mi ha confessato, però subito dopo la sua bocca è rimasta sigillata, non ha più voluto raccontarmi altro.
Così ho cominciato a porre attenzione a cosa combinava mia moglie, quando, per esempio in quelle sue bacinelle di plastica allineate sul fondo della vasca, piene di mutande reggiseni, calze e maglie, con la pistola a spruzzo immersa, completamente aperta, e l’acqua che tracimava, lavava e sciacquava la biancheria immemore dell’esistenza della lavatrice; mi sono accorto che il rubinetto a fine corsa non era quello con il cerchietto blu, ma l’altro, quello con la targhetta rossa, e il boiler nonostante la sua capacità da autocisterna, mandava ululati terrificanti, la resistenza sparata al massimo, tutta incandescente, lambita da un fiume in piena. E quando faceva la doccia poi ci rimaneva ore: ho spiato dal buco della serratura - di solito si spia qualche piaciona ancora da scoprire dal buco della serratura, ma la moglie…, è come ingollarsi interi vassoi colmi di frutta - e immersa in una nebbia padana ho visto la sua figura evanescente, in piedi su una sedia abbracciata al boiler, e questa volta, il bastardone, faceva le fusa emettendo un ronfo godurioso da gattone innamorato.
Insomma sono qui che lavo i piatti le mani ormai assiderate in preda a tutti questi miei pensieri turbinosi e finalmente ecco l’ultimo della pila lunga una settimana, e lancio l’occhio sgretolato, affetto da arsura cronica, sul bicchiere cautelativamente appoggiato qui accanto a me, pieno di whisky fino all’orlo, un brindisi per festeggiare il congedo dai piatti, - chissà com’è ma ogni occasione è diventa buona per brindare, e prima di sera, prima delle birre, finisce sempre che vedo il fondo della bottiglia - così tutto contento stringo con la destra quest’ultimo piatto sotto il risciacquo poi spavaldo lo passo al volo alla sinistra, chiudo le dita e zac il piatto non c’è più, e neanche il bicchiere di whisky, al suo posto compare questo faccione che si abbassa su di me, all’inizio un po’ sfocato, come circondato da un alone di luce intesa, poi piano, piano, sempre più nitido. Ha un brillante incastonato nella narice, le labbra scure molto ben curate ritagliate con matita e poi ripassate a pennello, un anellino pende da un sopracciglio, che sia africana? penso, no, la pelle è troppo chiara e il viso giovane, giovane, carino, da ventenne, gli occhi frastagliati da sbavature nere, così lucidi che sembrano pieni di lacrime. E quella bocca dark che s’apre e chiude.
«Papà, papà», dice ad un certo punto «oh papà è un miracolo». Continua a ripetere questa scema.
«Ma che papà e papà», urlo «papà un corno. Dov’è finito il piatto piuttosto? Non si sarà mica rotto? Chi la sente quella adesso».
«Papà, papà». Insiste la pazza con le guance tutte rigate da gocce scure che scrosciano sulla mia faccia come una pioggia metropolitana. «Spostati no brutta scema non vedi che mi stai sporcando, e smettila di chiamarmi papà che non ti conosco nemmeno, mia figlia si chiama Milena e ha undici anni».
«Ma sono Milena Papà, sono io papà, nove anni papà, nessuno ci credeva più e sei uscito dal coma, è un miracolo papà, un miracolo….».
Siamo in macchina e nonostante i sei mesi passati nel reparto riabilitazione, io che ero già lungo e dinoccolato, adesso mi tocca camminare con queste stampelle triforcute, un triciclo per disabili, un’umiliazione dentro l’umiliazione, anche le classiche stampelle a due ruote mi sono precluse, per fortuna ho smesso di pisciarmi addosso, ma le ossa che scricchiolano no, mi son rimaste tutte quante, dure e lisce, da sepolcro, e quando le braccia mi cedono e cado, quelle stronze delle stampelle triforcute sono le uniche a rimanere in piedi: le odio. Adesso mi aspettano pazienti dietro, nel bagagliaio della station wagon, mentre mia figlia azzarda un sorpasso in curva e mi sorride felice, s’è messa tutta in ghingheri, me ne accorgo solo adesso che finalmente la vedo senza camice.
«Non avrai scelto medicina per me?» Riesco finalmente a chiederle .
«Cosa centra papà, l’ho scelta perché mi piace».
«E l’internato proprio nel reparto di lungodegenza vegetativa, quello dei morti viventi, è stato un caso?».
Lei alza le spalle «Dai papà, già che c’ero ne ho approfittato per starti vicino, no? Che c’è di male?».
«Proprio uguale a tua madre».
Milena diventa tutta rossa specialmente intorno ai piercing. «Sai mamma ha detto che non se la sentiva di vederti in quello stato, che non ce l’avrebbe fatta».
«Certo vigliacca com’è, adesso scommetto che sarà chiusa nello studio tutta tremante, aspettando il ritorno dello zombi».
Milena deglutisce vistosamente. « Mamma se n’è andata».
«Ah».
«Vive con un altro».
«Ah».
«Ho un fratellastro, però mi ha lasciato l’appartamento, ma non preoccuparti mi prenderò io cura di te».
«Bene. Così almeno ha finito di consumarmi tutta quell’acqua calda». Sparo acido.
Gli occhi di mia figlia adesso sono tutti girati di lato, molto preoccupati, anche se non vuole darlo a vedere sta controllando le mie reazioni: spero che almeno le serva per la tesi».
«Tutta colpa di quel maledetto boiler». Continuo
«Cosa centra il boiler».
«Come cosa centra, con le craniate che gli ho dato, era inevitabile».
Lei scoppia a ridere «Dai papà non fare lo scemo, ormai sono cresciuta, eri alcolizzato, ecco quello che è successo».
«Alcolizzato, che paroloni, ogni tanto mi facevo un goccetto, tutto lì».
«Quando ti hanno portato in rianimazione nelle vene avevi più alcol che sangue, e la cartella clinica parla chiaro, aneurisma cerebrale causato da un’eccessiva permanenza di sostanze alcoliche nel sangue. Eccessiva permanenza, Papà, e i dottorandi studiando il tuo caso invece di gridare al miracolo, si sono sbellicati dalle risate; sostenevano che l’emorragia aveva rilasciato una quantità tale d’alcool etilico che ti ha conservato il cervello sotto spirito fino ad ora».
«Che fai la spiritosa?».
«Papà se ti vedo ancora con una bottiglia in mano te le stritolo».
«Milena! non parlare così a tuo padre, capito!?».
«E tu giurami che non berrai mai più».
«Certo che te lo giuro, come potrei ormai?» Per essere più convincente allungo due dita e le bacio prima da una parte poi dall’altra, però ho le labbra screpolate e un’arsura che mi tormenta ormai da ben sei mesi… e nove anni. E a dire il vero, a parte il giuramento, adesso avrei proprio bisogno di un goccetto, perché man mano che ci avviciniamo a casa e comincio a riconoscere i quartieri, le vie, i negozi, mi sta assalendo un terrore tremendo, una crisi di panico in piena regola, terribile, comincio a sudare copiosamente, con le gambe che tremano; mi passo una mano sul viso trattenendo un lamento. Mia figlia adesso si è girata e mi guarda tutta comprensiva come se si fosse aspettata questa reazione.
«Coraggio papà, lo so, la storia di mamma deve essere stata un brutto colpo, mi dispiace forse avrei dovuto essere meno diretta, ma certe cose le dovevi sapere prima che te le raccontasse qualcun altro, o le scoprissi da solo, vedrai papà che un poco alla volta…».
Ma io non la sto già più a sentire, adesso abbiamo parcheggiato sotto casa, guardo angosciato l’appartamento al quinto piano, poi appoggio la mano su quella di mia figlia ancora avvinghiata intorno al pomello delle marce, lei prontamente la stringe con forza, mentre con l’altra comincia a staccare ciuffi fradici dalla mia fronte.
«Dai papà ti prego non fare così, vedrai che le cose andranno a posto, sai quante donne sole conosco, ci penserò io, ancora qualche mese poi ti rifarai una vita…».
«Certo…» faccio io «un’altra donna, come no, ma non è questo il punto…ti prego Milena, dimmi ti prego…»
«Coraggio papà, cosa c’è?»
«Ma i…» Cazzo non riesco neanche a pronunciare la parola.
«ma i p…i p…i pi…»
«Si papà, dai coraggio, i pi…cosa»
«i piatti… i piatti chi li lava?».
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