AMORE, o IL DONO ALLA TERRA
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AMORE, o IL DONO ALLA TERRA
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Terreno ondulato, soffice, dolci declivi e aria tersa, cristallina. Due basse colline, prospicienti alla rupe. Erba alta, fitta, spumeggiante in lente e ritmate ondate, steli che si agitano gonfiandosi ed allungandosi.
Il respiro della terra.
Al di sotto, rocce a picco, bianche, uniformi, perpendicolari alla striscia di sabbia ristretta, giù in fondo. L'oceano ceruleo discute placidamente col vento trasparente. Nessun contrasto, solo favorevoli combinazioni che interagiscono. Le differenti tonalità d'azzurro si mutano in un bianco pulito, quando le onde si frantumano sulla riva, con un rombo che non inquieta. I vapori, in alto, sono fatti di silenzio, fantasmi di nuvole. Sulla cima della scogliera l'erba si muove, curvandosi, manto fremente in perenne agitazione.
Verde, cielo, azzurro e bianco. Oceano e vento. Un rombo lontano, attutito. La purezza, diffusa e viva, dell'aria profumata, la mancanza di elementi estranianti nel paesaggio immerso nella luce.
Tra le due basse colline, c'è qualcuno.
È una giovane donna, seduta in terra, tra l'erba folta.
Il capo è chino, le ginocchia raccolte al petto, immobile nel verde, sta piangendo, in silenzio e da molto tempo.
I sussurri smorzati del vento si levano dalla scogliera, attraversano i filari di erica selvatica, le macchie cespugliose coronate da gemme rosa. Il discorso senza parole con l'oceano prosegue, indisturbato. La terra respira, il mare parla, il vento risponde.
Erba, cielo, sola con le sue lacrime, una giovane donna.
L'aria è tiepida, tutto è calmo e sembra essere molto bello.
Celati intimamente in un luogo lontano e avvicinabile da una sola persona, oltre le lacrime, oltre gli occhi scuri, stanno i pensieri. Sono incoerenti e privi di un filo logico, disordinati nella confusione di quella mente. Sono intrisi d'odio e dolore, senza freno, senza controllo. Sono frammenti aguzzi d'odio, fonte di un puro dolore distillato.
I pensieri nascondono la paura, che è lì, in attesa, pronta a prendere il sopravvento, fluida, insinuante, annichilente. Le lacrime bruciano, sulla pelle giovane, liscia. Quei pensieri sono dolore, ed erano odiati per questo. Un dolore irraggiungibile, senza speranza di poter essere lenito. E chi poteva raggiungerlo, soggiaceva ad esso.
La giovane donna soffre, in silenzio.
Quando solleva il volto, i capelli le scivolano sulle spalle, scossi dal vento. Fissa davanti a sé, dove l'oceano si fonde col cielo, sfumando. Si leva in piedi e non può più trattenere quel grido che è andata maturando fino a quel momento, deve interrompere il lungo dialogo del vento e del mare, giù nella baia, molto più antico e saggio di qualsiasi cosa lei potesse dire o pensare. L'odio viene incanalato in un flusso che le attraversa il cervello e sfocia all'esterno, modulato in inconsistenti suoni chiamati parole, subito disperse e dimenticate non appena pronunciate.
"Quale misericordia sarebbe stata, quale infinito atto di pietà! Dovevi morire, morire, cessare di esistere, uomo! Bruciare per un attimo nel buio, risplendere nella luce della tua distruzione, unica gloria che ti spetta! Sei un germe, una peste putrescente, una lebbra infetta e contagiosa! Dovevi morire, morire e liberare per sempre questo mondo che non ha colpa dalla tua presenza corrotta! Sei un morbo che arreca sangue nero, un orrore che non scompare mai, che non muore mai!"
Le parole diventano un urlo, un gemito straziante che esaurisce mente e corpo. Lo stesso urlo emesso vent'anni prima, quando la luce aveva suggellato l'inizio dell'agonia dovuto al frutto di vitali sostanze generatrici già segnate da quell'infezione letale che sarebbe esplosa nella presa di coscienza.
Il dolore è al suo culmine, perché lei sa di essere portatrice di quello stesso morbo, di essere quel male che condanna.
Le nuvole incorporee nel cielo sono bianche, si sfaldano in strisce lattiginose. Le particelle di spuma marina danzano nell'aria in spirali disordinate. L'erba fremente è verde nell'azzurro, nella grande composizione della natura, e tutto sembra essere ancora molto bello sulla rupe, nella baia.
Non rimane più molto tempo.
Lei sa ciò che la terra ignora. Lei sa che presto oceano e vento cesseranno per sempre di dialogare e il loro discorso resterà interrotto. Scenderà una notte diversa dalle altre e non si leverà più. Una notte senza luce, un nero manto funebre, tenebre inviolabili. Silenzio, nel silenzio. E null'altro accadrà, nulla più, mai. Il breve istante di purezza, temprata dal fuoco divoratore del mondo dell'uomo, sarà l'ultima grande luce ma non libererà il pianeta dalla sua mortale presenza, no.
Il pianeta se ne andrà con esso.
La peste distrugge il corpo, il fuoco porta via ciò che resta…
Le lacrime scorrono senza volontà, inutili di fronte all'inevitabile. Il dolore diventa un sordo pulsare in fondo nella mente.
Cammina a piedi nudi, tra l'erba e il vento.
Si libera dei suoi abiti, lascia che se ne volino via, come le sue lacrime. I brividi, ma non di freddo, tendono trame sulla sua pelle., Avanti, sull'orlo della scogliera, un umido velo di minutissime gocce d'acqua avvolge il suo corpo, giovane, libero, un unico grande bacio. L'azzurro sopra di lei, screziato di bianco, il verde che sussulta sotto i suoi piedi. Lascia che il vento e le particelle di oceano le vengano incontro, accarezzando le curve del suo corpo nudo. Chiude gli occhi e attende. Il capo si rovescia all'indietro, le gambe si piegano sul terreno soffice, il corpo si arcua lentamente e si offre all'amante che sta per giungere col vento. Avverte i primi tocchi leggeri sulla pelle di velluto, sul ventre, sul seno che sboccia nel massimo turgore in risposta a quelle fredde e sinuose pressioni. Le gambe e le braccia si distendono, si allungano solleticate dai fili d'erba alta che le sfiorano. Gli occhi si chiudono, le membra si rilassano, sola sull'orlo, e il vento continua a giocare su di lei, umida di rugiada marina.
Verde e azzurro intorno, brezza dell'oceano, il continuo discorso in sordina, giù sulla costa.
Il piacere comincia a pervaderla, lento, caldo, il corpo risponde sollecitato, matura, si tende. Invisibili mani immateriali, fredde, frementi, portatrici di calore, si muovono su di lei. Non oppone resistenza, agli amanti senza forma, trasparenti, agli amanti inviati dall'oceano, dal vento.
E l'amore scivola dentro di lei, l'attraversa e ne viene espulso. Il centro dell'universo, nascosto tra le sue gambe, esplode repentino in un gorgo di puro piacere sfibrante. Ansia, dolore e paura si sciolgono, si annullano, vinte da quella nuova energia. Appagata, sente l'abbraccio dei suoi teneri amanti invisibili avvolgerla nuovamente. La rilassatezza ora è dolce, lì sull'orlo, mentre vento ed oceano continuano il loro saggio discorso.
C'è molta calma, e le lacrime non bruciano più.
Ora respira lentamente, distesa tra i mille lievi tocchi dell'erba che sussurra. Nessun pensiero la turba, nulla di più percepibile del non ancora acquietato turgore dei seni. Ma la donna attende, e ascolta. Il silenzio, mitigato solo da quell'ultimo discorso, giù nella baia, tra il vento e l'oceano, che sembra affievolirsi, smorzarsi pacatamente.
L'azzurro si incupisce.
Il verde si oscura.
Il bianco si ingrigisce, perché sta calando la notte
Ma, lei lo sa, prima che il vero buio possa iniziare il suo eterno dominio, sarà la luce ad avere l'ultima parola. Bianca, accecante, divorante.
La terra è immersa e cullata dalla notte. Sussurra il vento, risponde l'oceano. Il regno delle ombre.
La donna si alza, fluida, si avvicina all'orlo, scuro nell'oscurità, siede dando le spalle all'abisso. Soffia piano su uno stelo d'erba, e da lontano, oltre l'orizzonte curvilineo, risponde un sibilo in crescendo. Si getta al suolo, lo artiglia con le unghie, perché lo ama, e ama il vento e l'oceano…
La luce la colpisce istantaneamente, nel silenzio.
Gli occhi scuri si spalancano, brucia intensamente l'ultimo istante di una vita, il più vivo, mentre si abbatte l'onda di calore, senza rumore, là dove già non esiste più un manto erboso, una rupe, un oceano, una donna.
C'è solo luce. Migliaia di soli si accendono, deflagrano, con un rumore che non può più essere sentito da nessuno, poiché non vi è più nessuno.
La luce rimane, divora, si espande. Ma non è vera luce.
Sono le tenebre finali, e resteranno.
La notte è bianca, pulita e purificata. Il tempo è morto. E con lui l'intero pianeta. Una scorza arida e butterata, lanciata in un inutile circuito orbitale.
Attorno al mondo spento, in un'orbita alta, c'è un piccolo frammento di metallo. Contiene nel suo fragile involucro un po' di vita, addormentata. Per mille anni, quell'umile oggetto ha seguito diligentemente la sua traiettoria circolare, in attesa.
Ma non accade nulla d'altro, per tanto tempo. I pianeti si rincorrono, nelle fredde correnti siderali, nel silenzio.
Nel silenzio.
Attraversa lo spazio, e non lo sa.
Attraversa il sistema solare, e non lo sa.
Attraversa il terzo pianeta, e non lo sa.
Passa oltre, lasciando segni della sua presenza sui pianeti, tracce del suo passaggio, impronte che mutano, che cambiano, che trasformano.
Si perde nell'infinito, senza meta, senza scopo, senza finalità, nel buio, nel vuoto, e non lo sa.
Si muove, scivola impalpabile, invisibile e incontra, incontra molte cose nel suo cammino, ma non le avverte, non è avvertito.
Non pensa, non vive, non percepisce. Scivola, nel cosmo, muto e cieco.
Esiste, però.
Ma non lo sa.
Lascia i semi della vita, sul terzo pianeta.
Lascia i semi della rinascita, lascia l'Alba. E le tenebre finali, nate dalla falsa luce, ora vengono dissipate. Una lunga attesa volge al termine. Un piccolo frammento di metallo che per millenni ha vegliato su un mondo morto può finalmente restringere la sua orbita e posarsi a terra, come impartito da un antico programma computerizzato nel suo interno.
Non plana su una pianura senza vita, cristallizzata nella desolazione, screziata da faglie. I suoi supporti d'atterraggio sprofondano in un manto erboso d'un verde splendente. L'atterraggio è duro ma la nave resiste. E lì resta, immobile, ancora per qualche tempo. Verde tutt'intorno, e azzurro, i colori della vita.
La morte muore. E il pianeta rinasce, con ritmi genetici di gran lunga più accelerati. I processi evolutivi si alternano velocemente. Da brullo e piagato qual era, ora il pianeta splende di bianco e azzurro, gemma d'inestimabile valore senza proprietari.
Sulla superficie, il discorso da lungo tempo interrotto riprende in sordina fino a diventare un'unica, grande sinfonia che avvolge il mondo. Di nuovo vento, ed oceano, e terra feconda, attorno all'astronave muta ed immota, già avvolta dalla vegetazione che cerca di inghiottirla.
C'è molta calma, ovunque, e tutto è molto bello.
Sembra una normale formazione rocciosa, che si allunga tra l'erba. È stata tempestata da acqua e vento, non si è mai spostata dal posto che occupa per lunghi secoli. È solo una roccia cristallina, piatta, irregolare, curvilinea, due escrescenze che si separano dal nucleo centrale, da un lato e dall'altro, una pietra scura, in mezzo al verde.
Una roccia beneficata anch'essa da quel quid misterioso che ha permesso la rinascita di un pianeta morto.
Ma non è nata come pietra, e non lo è.
Le pietre, di per sé, non possono cambiare la struttura molecolare.
Le pietre, di per sé, non si contraggono, né palpitano, né fremono.
Le pietre, di per sé, non colano liquidi interni. Questa lo fa.
E, ormai, non è più una pietra. Sul suolo al suo posto, tra i ciuffi d'erba, c'è una rossa massa spugnosa, umida, che si tende, si allunga, si modifica. Si gonfia e schizza sangue, da improvvisi squarci nel molle tessuto subito riassorbiti. Apparenti fasci muscolari in formazione si proiettano dalla roccia, avvolgono le escrescenze calcaree in cui si è ridotta la pietra, si annodano in terminazioni nervose, arterie, capillari e vene. Una grande macchia cremisi si allarga nel verde, il cui centro è un continuo pulsare di materia sussultante, sanguigna, gocciolante, viva. I rumori sono schioccanti, spesso umidi tonfi.
Le nuvole corrono nel cielo, scaricando la pioggia, aghi liquidi colpiscono scroscianti un intestino che si srotola, serpeggia impazzito prima di trovare la sua collocazione nell'interno cavo della massa sanguinolenta, mentre tessuto si tende su tessuto, si forma un braccio livido, una gamba che si contrae. Ogni tanto piccoli capillari si spezzano, e il sangue si mescola alla pioggia.
La materia viva continua a cercare una propria forma, delle connessioni vitali appropriate. Sembra avere difficoltà, in questo. Come se non ricordasse un disegno precedente e cercasse di approssimare.
Il vento e l'acqua, il sangue che scorre e si disperde. Cala la notte.
Qualcosa di essenziale è andato perduto, dopo molti tentativi si arrende.
Nell'erba ora c'è una forma pressoché umanoide, un ammasso di sangue scorticato, muscoli e nervi allo scoperto, a contatto col mondo esterno. Per tutta la notte ha cercato quella giusta connessione, sotto la pioggia dirompente, fino alla fradicia alba densa di vapori. Ha rabberciato alla meglio, ora deve suggellare il tutto.
Il terminale ultimo, all'interno dell'informe struttura quasi sferica sorta tra le spalle, il cervello. Ogni cosa deve essere connessa al cervello, ogni nervo, ogni muscolo. Spumeggiando, il cervello viene ad occupare il suo posto, comincia a ricevere i primi dati dal sensore corpo.
Esplosione!
Dolore, vivo, temprato, fuoco, ghiaccio bollente, onde, dolore, argentino, distillato, puro, caldo e freddo assieme, dolore, dolore, dolore.
Il corpo scatta tre volte, come attraversato da una scarica elettrica, reticoli di vene sottilissime si rompono, fasci nervosi si sfibrano, viluppi di muscoli si tendono, si inarcano e il sangue scorre dappertutto. È una orribile marionetta impazzita, lame incandescenti affondano tra gli organi nudi, senza difesa, scoperti e torturati dal contatto del suolo, dell'aria, del caldo, del loro stesso contatto. Il dolore s'incanala inarrestabile, tangibile nel cervello vergine, troppo piccolo e giovane per poterlo contenere.
Brucia, avvampa, crepita. La coscienza nasce, si tempera nel fuoco del dolore. L'assuefazione è lenta, graduale, discontinua. Le corde vocali ora riescono a modulare i primi gemiti, bassi, profondi, una litania lamentosa quasi ininterrotta. Ogni movimento è una sciabolata fredda e rossa attraverso i tessuti martoriati, il dolore è un cupo pulsare attraverso tutto il corpo. Il respiro si fa roco e raschiante, il cuore palpita affrettato e sordamente, quasi volesse schizzare via da ciò che è una sanguinolenta parodia di un seno. Le lacrime sono stille di sofferenza, là dove non c'è epidermide su cui scorrere ma viluppi rossastri di nervi nudi. Gli occhi, scuri, sono spalancati, privi di palpebre, ancora ciechi.
Celati intimamente in un luogo lontano e avvicinabile da una sola persona, oltre le lacrime, oltre gli occhi scuri, stanno per esserci i pensieri. L'istinto primordiale si trasforma in coscienza, la coscienza in pensiero. Ma non è questo a compiere il primo passo, nel neonato cervello provato dal dolore. Prima vengono i ricordi. Ricordi vivi, ricordi di vita. Ricordi di verde e azzurro, di vento ed oceano, di erba e cielo, di bianchi seni e gambe affusolate, di abbracci di teneri amanti inconsci, di amore, di terra, di infinito, di paura, di orrore, di luce.
La luce. Quell'ultima sensazione provata. Il bianco accecante. L'ultimo istante di vita prima della fine, del vuoto, delle tenebre. Del nulla.
Ma ora, ecco ancora le percezioni, nel buio, l'impressione di essere nuovamente sostanza, forma, materialità, centro motore di mille terminali raccordati ad un nucleo centrale, pronti ad assolvere le loro funzioni non appena ricevuto lo stimolo.
Ma tutto quel dolore? Quella straziante sofferenza che sembra assunta a costante invariabile?
Prova la confusione e la paura della cecità, poi, un risucchio, una lacerazione molto vicina all'elaboratore di sensazioni. La luce entra a viva forza nel buio, lo squarcia, lo dissipa. Altre violente cascate di percezioni si riversano nel cervello, accumulandosi per l'analisi. Adesso gli occhi scuri vedono, per la prima volta dopo secoli di cristallizzazione, di nulla, di morte. Vedono il mondo: l'azzurro, il verde, lo splendore della natura.
Vedono ciò che un tempo era stato amato, e perso.
Nel corpo squassato dal dolore qualcosa di profondo palpita e fa nascere sul volto scorticato l'oscena parodia di un sorriso.
A lungo, tra gli spasimi, resta in ascolto di quell'antico e mai dimenticato dialogo, pacato, saggio, eterno, il vento e l'oceano. A lungo, mentre il cervello continua a riconoscere e catalogare sensazioni, gli occhi scuri si riempiono di cielo, di nubi, di mare, di gemme. Il collo si muove a scatti, ogni nervo trafitto da un coltello, ma cerca di non badare alla sofferenza, perché i suoi antichi amanti le stanno intorno, la coccolano folate d'aria fresca e lenitrice, il suo respiro è sempre meno roco. Forse anche il dolore si mitigherà, presto, potrà essere controllato e tollerato.
L'ultima cosa che gli occhi scuri si soffermano a guardare è il proprio corpo.
Non è più un corpo. Certo, non è il suo, quel ributtante ammasso di carne sanguinolenta, di fasci muscolari scoperti, osceni, terribili non possono essere le sue braccia, le sue gambe, i suoi seni quegli organi sfigurati, d'un umido rossore, esposti agli implacabili agenti esterni che sono la fonte di tutta quella sofferenza. No, non loro, non gli agenti esterni, non il vento, non l'aria, non i raggi del sole sono la fonte di quel dolore.
È il suo corpo, quella fonte. Il suo corpo è dolore.
Vuole urlare. Le corde vocali appena nate trasmettono un raschiante gorgoglio, schiena e muscoli inarcati si gonfiano di sangue, mani che sono artigli graffiano il terreno. E grida. Attorno a lei turbina il terrore, la paura e il dolore.
Perché, tutto questo?
Raggomitolata in posizione fetale nell'erba, se lo chiede, dopo che gli spasmi lancinanti si sono un po' acquietati e che non è rimasto che un sordo eco della sofferenza provata.
Cosa è successo, dopo l'esplosione di luce, dopo che la luce ha divorato, consumato, bruciato tutto? Il pianeta si è acceso nello spazio, brillando nel buio come una pira funebre, poi si è spento ed è morto.
Perché allora adesso lei vive ancora? Sente che le risposte sono in sé, affiorano lentamente alla luce sottoforma di sensazioni quasi visive.
Qualcosa è passato sul pianeta. Qualcosa l'ha curato, seminato nuovamente. Qualcosa se n'è poi andato, non conta più, ora. Forse è stato un fattore incidentale, forse no. Non conta più. Lei è viva, adesso, questo conta. Soffre, e per questo si sente ancora più viva. Ha paura, e per questo si sente ancora più viva. Ma la paura è destinata a cessare. Perché ora è sola, sola come mai è stata prima, sola con l'oceano, il vento, col verde e l'azzurro…
Sola, con i suoi amanti.
Non ha più nulla di umano. Solo l'amore. Un mondo intero da amare. E il terrore lascia repentinamente il posto alla gioia. Ancora, a fatica, sorride.
Gradualmente, domina il dolore, lo relega in secondo piano. Riesce a muoversi, lentamente, a scatti, abitua i muscoli irrigiditi, studia le possibilità di quel corpo imperfetto, malformato eppure funzionante, quel corpo davvero nudo e indifeso.
E malgrado tutto, sa di poter convivere con esso, sa che quello è realmente l'abbozzo del suo corpo, lo stesso su cui un tempo hanno giocato gioiosamente il vento e l'oceano, in tocchi lievi sulla pelle bagnata. Per qualche misterioso miracolo, ora lei è viva, anche se il dolore ed un corpo devastato sembrano essere il prezzo della sua nuova esistenza. Ma è sola, viva e sola, con i suoi amanti, ora e per sempre uniti. Il cielo, l'oceano, la terra feconda e lei. Così il prezzo è accettabile. Può amare di nuovo, godere della natura fluida, vitale, senza pensieri. Sente di dover esprimere gratitudine, di avere un debito con qualcuno o qualcosa, sente di dover saldare in qualche modo la felicità che la pervade, con un dono, un qualcosa che possa dimostrare tutto il suo amore per la terra, per quella grande madre genitrice, per quella culla di vita che le offre una seconda possibilità. Sa con sicurezza di essere la sola ad aver goduto di quella nuova genesi, misteriosa, aliena, insondabile ma reale.
Si alza, si volta, sta per andare all'incontro d'amore, là dove oceano e vento si fondono, sull'orlo, come tanto tempo prima, felice, libera da odio e paura. Finalmente pura.
Si volta, e vede l'astronave avvolta dalla vegetazione, che dorme alle sue spalle.
È una navetta-incubatrice. La riconosce, ricorda molte cose del suo vecchio mondo. Il mondo che odiava, il mondo fatto dagli uomini e distrutto dai medesimi. Guarda attentamente quel memento del passato. La nave non è in buone condizioni, le strutture portanti sono contorte, le lamiere sparse a terra, i portelli scardinati a seguito di un brutto atterraggio. La vegetazione onnivora si è intrufolata tra le spaccature del metallo, durante i secoli di usura e logoramento. È un relitto, leggermente curvo su di un fianco.
Gli si avvicina, con fatica, non avvezza al movimento. I suoi piedi lasciano orme di sangue sull'erba, ogni passo è una fitta di dolore. La nave sembra un muto e stolido monumento, divorata da intrichi lianosi, catturata, senza potere, dalla vegetazione. Giunge al fianco del bianco scafo contorto, scavalca radici volanti, vede un portello spalancato, piegato su se stesso. La mano si posa sul metallo, in cerca di sostegno, lasciando scarlatte linee di sangue lungo la superficie. L'indelebile firma e sigillo della razza umana.
All'interno c'è caos e confusione, apparecchiature infrante, inutili, liane che serpeggiano tra cavi penduli e tubature ammaccate, squarci nelle paratie. Vede una grossa consolle coperta dalla polvere, sede di un cervello elettronico da secoli inattivo, dopo l'aver assolto impeccabilmente il suo preordinato programma d'atterraggio della navetta, una volta ristabilitesi le condizioni ottimali per il pianeta, adatte alla vita. Allineate lungo lo scafo, due file di sarcofagi oblunghi dal coperchio trasparente. Sono bozzoli vitali, contengono uomini in animazione sospesa, immersi nel sonno profondo. Ma solo tre di essi pulsano di tenue luce azzurrina, gli altri sono grigi, opachi. Le spie indicatrici della sopravvivenza dei corpi sono spente, le lastre di cristallo incrinate, le forme all'interno dei sarcofagi sono essicate e prosciugate di vita. Ventisette bare.
Attraversa lo spazio tra le due file, arranca tra frammenti metallici che le trafiggono i piedi, geme sommessamente per arrivare al primo cubicolo attivo. Oltre il coperchio trasparente la luce cerulea ammicca, tremola, scintille sfrecciano all'interno. Un segnale di pericolo brilla sul quadro ancora funzionante dei sistemi vitali, un persistente allarme elettronico comincia a gracidare nel relitto. Sul cristallo corrono delle crepe. Un uomo giace nel sarcofago danneggiato, immobile nel sonno senza sogni, nudo e ignaro dell'instabilità del suo bozzolo. Crepitano scariche elettriche, il fumo comincia a levarsi dalla macchina.
Lei sa qual è il comando d'emergenza, lei sa che può intervenire per salvare l'uomo da morte sicura col solo tocco ti un tasto, alla base del cubicolo. Conosce quei sistemi di sicurezza. Il cicalino elettronico assume la frequenza del pericolo immediato ma lei si sposta verso il secondo cubicolo funzionante. Nel suo interno c'è una donna, giovane, capelli lunghi e biondi che formano un'aurea corona attorno al suo capo. Dimostra non più di trent'anni, foggiati in un corpo dalla pelle liscia e dai morbidi seni immersi nella calma luce azzurrina. Contempla a lungo quella placida figura addormentata, mentre il segnale d'emergenza aumenta d'intensità alle sue spalle. Accarezza con lo sguardo le forme armoniose di quel corpo nudo e ricorda, ricorda la sua giovinezza, quando era impressa in lei, fresca, viva, ricorda se stessa. Poggia una mano sul cristallo, lasciandovi una laida macchia vermiglia. Ricorda carezze, abbracci, velluto caldo al tocco delle dita. Guarda quel viso inespressivo al di là del vetro, le labbra piene, i capelli, le guance, la pelle, le curve sinuose. Un tempo anche lei era così. Ma ora…
Quel seno, così dolce, così liscio. E quell'umido ammasso sfatto che è il suo, quelle sue braccia scorticate, quel suo corpo che trasuda sangue da tessuti orribilmente scoperti. Le lacrime le bruciano negli occhi, piange ed avverte un altro tipo di dolore, più profondo, non fisico.
Nell'ultimo cubicolo c'è un bambino, di non più di sei anni. Immerso nel sonno profondo, in attesa del risveglio, della rinascita che un decrepito cervello elettronico provato dal tempo non può più assicurare.
Si accascia lungo una paratia, mugola, freme, lascia sul metallo una rossa effigie. Davanti a sé, i tre cubicoli, oltre, al di là dello squarcio nella fiancata della navetta, s'intravede il mondo esterno, alberi, cielo blu, il rumore dell'oceano, il fischio del vento. I suoi amanti le mandano messaggi, comunicano con lei.
E all'improvviso, repentina, ecco la rivelazione.
Quei cubicoli davanti a lei sono provette. Provette che isolano dei virus letali, portatori di distruzione cieca e brutale. Ora tutto è chiaro: provette.
La gratitudine, quell'ansia di riconoscenza provata prima, all'esterno, quel dono a qualcosa di non conoscibile, quel debito che voleva saldare.
Ora può farlo. Può elargire il suo dono alla terra, il più grande dono, dettato dal sentimento più grande, amore. Amore per la terra, sacrificio per essa, vita per la terra, futuro per la terra.
Davanti a lei, provette, semi di morte, ostacoli finali per l'esistenza del neonato pianeta. Dall'esterno giunge un sussurro, lei lo riconosce.
"Salvami" dice il cielo.
"Liberami" dice il vento.
"Aiutami" dice l'oceano.
"Amami" dice la terra.
I tre sarcofagi luminosi, le tenebre finali, mai mitigate, racchiuse in quei bozzoli, in attesa di scatenarsi ancora sul pianeta.
"Amami" dice la terra. Il dono, la prova d'amore. Lei sola, unica prescelta. Forse quella scintilla vitale ha brillato in lei proprio per questo. Una folata d'aria penetra nello scafo, la raggiunge, l'avvolge.
"Liberami" dice, "dalle tenebre…"
La sbarra di metallo cala sul cristallo del sarcofago danneggiato, che va in pezzi. Le fiamme divorano con sorprendente rapidità il corpo all'interno, lo scafo della nave si riempie di fumo acre. Facile.
Colpisce il secondo sarcofago di punta. Sono macchine molto delicate, le scintille impazzano sfrigolando, il corpo della donna sussulta come impazzito, la decompressione improvvisa ne fa spalancare di colpo gli occhi, che esplodono all'esterno.
I suoi lineamenti scorticati si riflettono sul viso del bambino dormiente, nel terzo bozzolo, come una tragica maschera di sangue.
"Salvami" dice la terra.
Sono germi incubati, latenti nel profondo, pazienti.
"Amami…"
Le fiamme divorano le strutture della navetta.
Esce dai rottami, trascinandosi penosamente, un oggetto stretto nel pugno, si allontana strisciando a terra, lasciando dietro una traccia sanguinosa.
Lei è parte di ciò che ha distrutto, lei appartiene a quella razza, lei è stata una di loro e lo è ancora. Il germe putrescente è in lei, agisce in lei. Ne è l'incarnazione, viscida e ripugnante, è quel morbo letale che crede di aver annientato, un grumo corrotto, una massa putrida, contaminata e contaminante. Non avverte più nessun messaggio dall'oceano, dal vento. Il tramonto si avvicina.
C'è un torrente d'acqua limpida e rumorosa, che si lancia nel vuoto, verso il mare mugghiante di sotto. Si trascina in esso, sentendo il freddo sul fuoco delle carni martoriate, si aggrappa ad una roccia che sorge dall'acqua, subito arrossata per il sangue che trasuda dagli arti sfatti. Intorno vi sono filari d'erica selvatica, manti erbosi, rocce bianche sotto una volta blu, striata dai vapori. Da oltre l'orlo, particelle di spuma marina salgono al cielo mentre oceano e vento si fondono sfumando, in pacifiche combinazioni.
Apre il pugno, il frammento tagliente di metallo luccica sotto i raggi rossi del sole che cala.
Raggomitolata attorno alla roccia, la corrente l'accarezza in un fluido abbraccio, la culla dolcemente. Immerge i polsi e taglia le vene.
Nessun dolore, ora. Si disperde, si allontana da se stessa, si smarrisce in quell'acqua quieta, verso l'orlo, verso l'oceano.
L'aria è tiepida. Tutto è calmo, sembra essere molto bello e le lacrime non bruciano.
Oltre l'orlo, un antico discorso prosegue, indisturbato.
Michele Tetro 18/10/1989-15/1/2000
Il respiro della terra.
Al di sotto, rocce a picco, bianche, uniformi, perpendicolari alla striscia di sabbia ristretta, giù in fondo. L'oceano ceruleo discute placidamente col vento trasparente. Nessun contrasto, solo favorevoli combinazioni che interagiscono. Le differenti tonalità d'azzurro si mutano in un bianco pulito, quando le onde si frantumano sulla riva, con un rombo che non inquieta. I vapori, in alto, sono fatti di silenzio, fantasmi di nuvole. Sulla cima della scogliera l'erba si muove, curvandosi, manto fremente in perenne agitazione.
Verde, cielo, azzurro e bianco. Oceano e vento. Un rombo lontano, attutito. La purezza, diffusa e viva, dell'aria profumata, la mancanza di elementi estranianti nel paesaggio immerso nella luce.
Tra le due basse colline, c'è qualcuno.
È una giovane donna, seduta in terra, tra l'erba folta.
Il capo è chino, le ginocchia raccolte al petto, immobile nel verde, sta piangendo, in silenzio e da molto tempo.
I sussurri smorzati del vento si levano dalla scogliera, attraversano i filari di erica selvatica, le macchie cespugliose coronate da gemme rosa. Il discorso senza parole con l'oceano prosegue, indisturbato. La terra respira, il mare parla, il vento risponde.
Erba, cielo, sola con le sue lacrime, una giovane donna.
L'aria è tiepida, tutto è calmo e sembra essere molto bello.
Celati intimamente in un luogo lontano e avvicinabile da una sola persona, oltre le lacrime, oltre gli occhi scuri, stanno i pensieri. Sono incoerenti e privi di un filo logico, disordinati nella confusione di quella mente. Sono intrisi d'odio e dolore, senza freno, senza controllo. Sono frammenti aguzzi d'odio, fonte di un puro dolore distillato.
I pensieri nascondono la paura, che è lì, in attesa, pronta a prendere il sopravvento, fluida, insinuante, annichilente. Le lacrime bruciano, sulla pelle giovane, liscia. Quei pensieri sono dolore, ed erano odiati per questo. Un dolore irraggiungibile, senza speranza di poter essere lenito. E chi poteva raggiungerlo, soggiaceva ad esso.
La giovane donna soffre, in silenzio.
Quando solleva il volto, i capelli le scivolano sulle spalle, scossi dal vento. Fissa davanti a sé, dove l'oceano si fonde col cielo, sfumando. Si leva in piedi e non può più trattenere quel grido che è andata maturando fino a quel momento, deve interrompere il lungo dialogo del vento e del mare, giù nella baia, molto più antico e saggio di qualsiasi cosa lei potesse dire o pensare. L'odio viene incanalato in un flusso che le attraversa il cervello e sfocia all'esterno, modulato in inconsistenti suoni chiamati parole, subito disperse e dimenticate non appena pronunciate.
"Quale misericordia sarebbe stata, quale infinito atto di pietà! Dovevi morire, morire, cessare di esistere, uomo! Bruciare per un attimo nel buio, risplendere nella luce della tua distruzione, unica gloria che ti spetta! Sei un germe, una peste putrescente, una lebbra infetta e contagiosa! Dovevi morire, morire e liberare per sempre questo mondo che non ha colpa dalla tua presenza corrotta! Sei un morbo che arreca sangue nero, un orrore che non scompare mai, che non muore mai!"
Le parole diventano un urlo, un gemito straziante che esaurisce mente e corpo. Lo stesso urlo emesso vent'anni prima, quando la luce aveva suggellato l'inizio dell'agonia dovuto al frutto di vitali sostanze generatrici già segnate da quell'infezione letale che sarebbe esplosa nella presa di coscienza.
Il dolore è al suo culmine, perché lei sa di essere portatrice di quello stesso morbo, di essere quel male che condanna.
Le nuvole incorporee nel cielo sono bianche, si sfaldano in strisce lattiginose. Le particelle di spuma marina danzano nell'aria in spirali disordinate. L'erba fremente è verde nell'azzurro, nella grande composizione della natura, e tutto sembra essere ancora molto bello sulla rupe, nella baia.
Non rimane più molto tempo.
Lei sa ciò che la terra ignora. Lei sa che presto oceano e vento cesseranno per sempre di dialogare e il loro discorso resterà interrotto. Scenderà una notte diversa dalle altre e non si leverà più. Una notte senza luce, un nero manto funebre, tenebre inviolabili. Silenzio, nel silenzio. E null'altro accadrà, nulla più, mai. Il breve istante di purezza, temprata dal fuoco divoratore del mondo dell'uomo, sarà l'ultima grande luce ma non libererà il pianeta dalla sua mortale presenza, no.
Il pianeta se ne andrà con esso.
La peste distrugge il corpo, il fuoco porta via ciò che resta…
Le lacrime scorrono senza volontà, inutili di fronte all'inevitabile. Il dolore diventa un sordo pulsare in fondo nella mente.
Cammina a piedi nudi, tra l'erba e il vento.
Si libera dei suoi abiti, lascia che se ne volino via, come le sue lacrime. I brividi, ma non di freddo, tendono trame sulla sua pelle., Avanti, sull'orlo della scogliera, un umido velo di minutissime gocce d'acqua avvolge il suo corpo, giovane, libero, un unico grande bacio. L'azzurro sopra di lei, screziato di bianco, il verde che sussulta sotto i suoi piedi. Lascia che il vento e le particelle di oceano le vengano incontro, accarezzando le curve del suo corpo nudo. Chiude gli occhi e attende. Il capo si rovescia all'indietro, le gambe si piegano sul terreno soffice, il corpo si arcua lentamente e si offre all'amante che sta per giungere col vento. Avverte i primi tocchi leggeri sulla pelle di velluto, sul ventre, sul seno che sboccia nel massimo turgore in risposta a quelle fredde e sinuose pressioni. Le gambe e le braccia si distendono, si allungano solleticate dai fili d'erba alta che le sfiorano. Gli occhi si chiudono, le membra si rilassano, sola sull'orlo, e il vento continua a giocare su di lei, umida di rugiada marina.
Verde e azzurro intorno, brezza dell'oceano, il continuo discorso in sordina, giù sulla costa.
Il piacere comincia a pervaderla, lento, caldo, il corpo risponde sollecitato, matura, si tende. Invisibili mani immateriali, fredde, frementi, portatrici di calore, si muovono su di lei. Non oppone resistenza, agli amanti senza forma, trasparenti, agli amanti inviati dall'oceano, dal vento.
E l'amore scivola dentro di lei, l'attraversa e ne viene espulso. Il centro dell'universo, nascosto tra le sue gambe, esplode repentino in un gorgo di puro piacere sfibrante. Ansia, dolore e paura si sciolgono, si annullano, vinte da quella nuova energia. Appagata, sente l'abbraccio dei suoi teneri amanti invisibili avvolgerla nuovamente. La rilassatezza ora è dolce, lì sull'orlo, mentre vento ed oceano continuano il loro saggio discorso.
C'è molta calma, e le lacrime non bruciano più.
Ora respira lentamente, distesa tra i mille lievi tocchi dell'erba che sussurra. Nessun pensiero la turba, nulla di più percepibile del non ancora acquietato turgore dei seni. Ma la donna attende, e ascolta. Il silenzio, mitigato solo da quell'ultimo discorso, giù nella baia, tra il vento e l'oceano, che sembra affievolirsi, smorzarsi pacatamente.
L'azzurro si incupisce.
Il verde si oscura.
Il bianco si ingrigisce, perché sta calando la notte
Ma, lei lo sa, prima che il vero buio possa iniziare il suo eterno dominio, sarà la luce ad avere l'ultima parola. Bianca, accecante, divorante.
La terra è immersa e cullata dalla notte. Sussurra il vento, risponde l'oceano. Il regno delle ombre.
La donna si alza, fluida, si avvicina all'orlo, scuro nell'oscurità, siede dando le spalle all'abisso. Soffia piano su uno stelo d'erba, e da lontano, oltre l'orizzonte curvilineo, risponde un sibilo in crescendo. Si getta al suolo, lo artiglia con le unghie, perché lo ama, e ama il vento e l'oceano…
La luce la colpisce istantaneamente, nel silenzio.
Gli occhi scuri si spalancano, brucia intensamente l'ultimo istante di una vita, il più vivo, mentre si abbatte l'onda di calore, senza rumore, là dove già non esiste più un manto erboso, una rupe, un oceano, una donna.
C'è solo luce. Migliaia di soli si accendono, deflagrano, con un rumore che non può più essere sentito da nessuno, poiché non vi è più nessuno.
La luce rimane, divora, si espande. Ma non è vera luce.
Sono le tenebre finali, e resteranno.
La notte è bianca, pulita e purificata. Il tempo è morto. E con lui l'intero pianeta. Una scorza arida e butterata, lanciata in un inutile circuito orbitale.
Attorno al mondo spento, in un'orbita alta, c'è un piccolo frammento di metallo. Contiene nel suo fragile involucro un po' di vita, addormentata. Per mille anni, quell'umile oggetto ha seguito diligentemente la sua traiettoria circolare, in attesa.
Ma non accade nulla d'altro, per tanto tempo. I pianeti si rincorrono, nelle fredde correnti siderali, nel silenzio.
Nel silenzio.
Attraversa lo spazio, e non lo sa.
Attraversa il sistema solare, e non lo sa.
Attraversa il terzo pianeta, e non lo sa.
Passa oltre, lasciando segni della sua presenza sui pianeti, tracce del suo passaggio, impronte che mutano, che cambiano, che trasformano.
Si perde nell'infinito, senza meta, senza scopo, senza finalità, nel buio, nel vuoto, e non lo sa.
Si muove, scivola impalpabile, invisibile e incontra, incontra molte cose nel suo cammino, ma non le avverte, non è avvertito.
Non pensa, non vive, non percepisce. Scivola, nel cosmo, muto e cieco.
Esiste, però.
Ma non lo sa.
Lascia i semi della vita, sul terzo pianeta.
Lascia i semi della rinascita, lascia l'Alba. E le tenebre finali, nate dalla falsa luce, ora vengono dissipate. Una lunga attesa volge al termine. Un piccolo frammento di metallo che per millenni ha vegliato su un mondo morto può finalmente restringere la sua orbita e posarsi a terra, come impartito da un antico programma computerizzato nel suo interno.
Non plana su una pianura senza vita, cristallizzata nella desolazione, screziata da faglie. I suoi supporti d'atterraggio sprofondano in un manto erboso d'un verde splendente. L'atterraggio è duro ma la nave resiste. E lì resta, immobile, ancora per qualche tempo. Verde tutt'intorno, e azzurro, i colori della vita.
La morte muore. E il pianeta rinasce, con ritmi genetici di gran lunga più accelerati. I processi evolutivi si alternano velocemente. Da brullo e piagato qual era, ora il pianeta splende di bianco e azzurro, gemma d'inestimabile valore senza proprietari.
Sulla superficie, il discorso da lungo tempo interrotto riprende in sordina fino a diventare un'unica, grande sinfonia che avvolge il mondo. Di nuovo vento, ed oceano, e terra feconda, attorno all'astronave muta ed immota, già avvolta dalla vegetazione che cerca di inghiottirla.
C'è molta calma, ovunque, e tutto è molto bello.
Sembra una normale formazione rocciosa, che si allunga tra l'erba. È stata tempestata da acqua e vento, non si è mai spostata dal posto che occupa per lunghi secoli. È solo una roccia cristallina, piatta, irregolare, curvilinea, due escrescenze che si separano dal nucleo centrale, da un lato e dall'altro, una pietra scura, in mezzo al verde.
Una roccia beneficata anch'essa da quel quid misterioso che ha permesso la rinascita di un pianeta morto.
Ma non è nata come pietra, e non lo è.
Le pietre, di per sé, non possono cambiare la struttura molecolare.
Le pietre, di per sé, non si contraggono, né palpitano, né fremono.
Le pietre, di per sé, non colano liquidi interni. Questa lo fa.
E, ormai, non è più una pietra. Sul suolo al suo posto, tra i ciuffi d'erba, c'è una rossa massa spugnosa, umida, che si tende, si allunga, si modifica. Si gonfia e schizza sangue, da improvvisi squarci nel molle tessuto subito riassorbiti. Apparenti fasci muscolari in formazione si proiettano dalla roccia, avvolgono le escrescenze calcaree in cui si è ridotta la pietra, si annodano in terminazioni nervose, arterie, capillari e vene. Una grande macchia cremisi si allarga nel verde, il cui centro è un continuo pulsare di materia sussultante, sanguigna, gocciolante, viva. I rumori sono schioccanti, spesso umidi tonfi.
Le nuvole corrono nel cielo, scaricando la pioggia, aghi liquidi colpiscono scroscianti un intestino che si srotola, serpeggia impazzito prima di trovare la sua collocazione nell'interno cavo della massa sanguinolenta, mentre tessuto si tende su tessuto, si forma un braccio livido, una gamba che si contrae. Ogni tanto piccoli capillari si spezzano, e il sangue si mescola alla pioggia.
La materia viva continua a cercare una propria forma, delle connessioni vitali appropriate. Sembra avere difficoltà, in questo. Come se non ricordasse un disegno precedente e cercasse di approssimare.
Il vento e l'acqua, il sangue che scorre e si disperde. Cala la notte.
Qualcosa di essenziale è andato perduto, dopo molti tentativi si arrende.
Nell'erba ora c'è una forma pressoché umanoide, un ammasso di sangue scorticato, muscoli e nervi allo scoperto, a contatto col mondo esterno. Per tutta la notte ha cercato quella giusta connessione, sotto la pioggia dirompente, fino alla fradicia alba densa di vapori. Ha rabberciato alla meglio, ora deve suggellare il tutto.
Il terminale ultimo, all'interno dell'informe struttura quasi sferica sorta tra le spalle, il cervello. Ogni cosa deve essere connessa al cervello, ogni nervo, ogni muscolo. Spumeggiando, il cervello viene ad occupare il suo posto, comincia a ricevere i primi dati dal sensore corpo.
Esplosione!
Dolore, vivo, temprato, fuoco, ghiaccio bollente, onde, dolore, argentino, distillato, puro, caldo e freddo assieme, dolore, dolore, dolore.
Il corpo scatta tre volte, come attraversato da una scarica elettrica, reticoli di vene sottilissime si rompono, fasci nervosi si sfibrano, viluppi di muscoli si tendono, si inarcano e il sangue scorre dappertutto. È una orribile marionetta impazzita, lame incandescenti affondano tra gli organi nudi, senza difesa, scoperti e torturati dal contatto del suolo, dell'aria, del caldo, del loro stesso contatto. Il dolore s'incanala inarrestabile, tangibile nel cervello vergine, troppo piccolo e giovane per poterlo contenere.
Brucia, avvampa, crepita. La coscienza nasce, si tempera nel fuoco del dolore. L'assuefazione è lenta, graduale, discontinua. Le corde vocali ora riescono a modulare i primi gemiti, bassi, profondi, una litania lamentosa quasi ininterrotta. Ogni movimento è una sciabolata fredda e rossa attraverso i tessuti martoriati, il dolore è un cupo pulsare attraverso tutto il corpo. Il respiro si fa roco e raschiante, il cuore palpita affrettato e sordamente, quasi volesse schizzare via da ciò che è una sanguinolenta parodia di un seno. Le lacrime sono stille di sofferenza, là dove non c'è epidermide su cui scorrere ma viluppi rossastri di nervi nudi. Gli occhi, scuri, sono spalancati, privi di palpebre, ancora ciechi.
Celati intimamente in un luogo lontano e avvicinabile da una sola persona, oltre le lacrime, oltre gli occhi scuri, stanno per esserci i pensieri. L'istinto primordiale si trasforma in coscienza, la coscienza in pensiero. Ma non è questo a compiere il primo passo, nel neonato cervello provato dal dolore. Prima vengono i ricordi. Ricordi vivi, ricordi di vita. Ricordi di verde e azzurro, di vento ed oceano, di erba e cielo, di bianchi seni e gambe affusolate, di abbracci di teneri amanti inconsci, di amore, di terra, di infinito, di paura, di orrore, di luce.
La luce. Quell'ultima sensazione provata. Il bianco accecante. L'ultimo istante di vita prima della fine, del vuoto, delle tenebre. Del nulla.
Ma ora, ecco ancora le percezioni, nel buio, l'impressione di essere nuovamente sostanza, forma, materialità, centro motore di mille terminali raccordati ad un nucleo centrale, pronti ad assolvere le loro funzioni non appena ricevuto lo stimolo.
Ma tutto quel dolore? Quella straziante sofferenza che sembra assunta a costante invariabile?
Prova la confusione e la paura della cecità, poi, un risucchio, una lacerazione molto vicina all'elaboratore di sensazioni. La luce entra a viva forza nel buio, lo squarcia, lo dissipa. Altre violente cascate di percezioni si riversano nel cervello, accumulandosi per l'analisi. Adesso gli occhi scuri vedono, per la prima volta dopo secoli di cristallizzazione, di nulla, di morte. Vedono il mondo: l'azzurro, il verde, lo splendore della natura.
Vedono ciò che un tempo era stato amato, e perso.
Nel corpo squassato dal dolore qualcosa di profondo palpita e fa nascere sul volto scorticato l'oscena parodia di un sorriso.
A lungo, tra gli spasimi, resta in ascolto di quell'antico e mai dimenticato dialogo, pacato, saggio, eterno, il vento e l'oceano. A lungo, mentre il cervello continua a riconoscere e catalogare sensazioni, gli occhi scuri si riempiono di cielo, di nubi, di mare, di gemme. Il collo si muove a scatti, ogni nervo trafitto da un coltello, ma cerca di non badare alla sofferenza, perché i suoi antichi amanti le stanno intorno, la coccolano folate d'aria fresca e lenitrice, il suo respiro è sempre meno roco. Forse anche il dolore si mitigherà, presto, potrà essere controllato e tollerato.
L'ultima cosa che gli occhi scuri si soffermano a guardare è il proprio corpo.
Non è più un corpo. Certo, non è il suo, quel ributtante ammasso di carne sanguinolenta, di fasci muscolari scoperti, osceni, terribili non possono essere le sue braccia, le sue gambe, i suoi seni quegli organi sfigurati, d'un umido rossore, esposti agli implacabili agenti esterni che sono la fonte di tutta quella sofferenza. No, non loro, non gli agenti esterni, non il vento, non l'aria, non i raggi del sole sono la fonte di quel dolore.
È il suo corpo, quella fonte. Il suo corpo è dolore.
Vuole urlare. Le corde vocali appena nate trasmettono un raschiante gorgoglio, schiena e muscoli inarcati si gonfiano di sangue, mani che sono artigli graffiano il terreno. E grida. Attorno a lei turbina il terrore, la paura e il dolore.
Perché, tutto questo?
Raggomitolata in posizione fetale nell'erba, se lo chiede, dopo che gli spasmi lancinanti si sono un po' acquietati e che non è rimasto che un sordo eco della sofferenza provata.
Cosa è successo, dopo l'esplosione di luce, dopo che la luce ha divorato, consumato, bruciato tutto? Il pianeta si è acceso nello spazio, brillando nel buio come una pira funebre, poi si è spento ed è morto.
Perché allora adesso lei vive ancora? Sente che le risposte sono in sé, affiorano lentamente alla luce sottoforma di sensazioni quasi visive.
Qualcosa è passato sul pianeta. Qualcosa l'ha curato, seminato nuovamente. Qualcosa se n'è poi andato, non conta più, ora. Forse è stato un fattore incidentale, forse no. Non conta più. Lei è viva, adesso, questo conta. Soffre, e per questo si sente ancora più viva. Ha paura, e per questo si sente ancora più viva. Ma la paura è destinata a cessare. Perché ora è sola, sola come mai è stata prima, sola con l'oceano, il vento, col verde e l'azzurro…
Sola, con i suoi amanti.
Non ha più nulla di umano. Solo l'amore. Un mondo intero da amare. E il terrore lascia repentinamente il posto alla gioia. Ancora, a fatica, sorride.
Gradualmente, domina il dolore, lo relega in secondo piano. Riesce a muoversi, lentamente, a scatti, abitua i muscoli irrigiditi, studia le possibilità di quel corpo imperfetto, malformato eppure funzionante, quel corpo davvero nudo e indifeso.
E malgrado tutto, sa di poter convivere con esso, sa che quello è realmente l'abbozzo del suo corpo, lo stesso su cui un tempo hanno giocato gioiosamente il vento e l'oceano, in tocchi lievi sulla pelle bagnata. Per qualche misterioso miracolo, ora lei è viva, anche se il dolore ed un corpo devastato sembrano essere il prezzo della sua nuova esistenza. Ma è sola, viva e sola, con i suoi amanti, ora e per sempre uniti. Il cielo, l'oceano, la terra feconda e lei. Così il prezzo è accettabile. Può amare di nuovo, godere della natura fluida, vitale, senza pensieri. Sente di dover esprimere gratitudine, di avere un debito con qualcuno o qualcosa, sente di dover saldare in qualche modo la felicità che la pervade, con un dono, un qualcosa che possa dimostrare tutto il suo amore per la terra, per quella grande madre genitrice, per quella culla di vita che le offre una seconda possibilità. Sa con sicurezza di essere la sola ad aver goduto di quella nuova genesi, misteriosa, aliena, insondabile ma reale.
Si alza, si volta, sta per andare all'incontro d'amore, là dove oceano e vento si fondono, sull'orlo, come tanto tempo prima, felice, libera da odio e paura. Finalmente pura.
Si volta, e vede l'astronave avvolta dalla vegetazione, che dorme alle sue spalle.
È una navetta-incubatrice. La riconosce, ricorda molte cose del suo vecchio mondo. Il mondo che odiava, il mondo fatto dagli uomini e distrutto dai medesimi. Guarda attentamente quel memento del passato. La nave non è in buone condizioni, le strutture portanti sono contorte, le lamiere sparse a terra, i portelli scardinati a seguito di un brutto atterraggio. La vegetazione onnivora si è intrufolata tra le spaccature del metallo, durante i secoli di usura e logoramento. È un relitto, leggermente curvo su di un fianco.
Gli si avvicina, con fatica, non avvezza al movimento. I suoi piedi lasciano orme di sangue sull'erba, ogni passo è una fitta di dolore. La nave sembra un muto e stolido monumento, divorata da intrichi lianosi, catturata, senza potere, dalla vegetazione. Giunge al fianco del bianco scafo contorto, scavalca radici volanti, vede un portello spalancato, piegato su se stesso. La mano si posa sul metallo, in cerca di sostegno, lasciando scarlatte linee di sangue lungo la superficie. L'indelebile firma e sigillo della razza umana.
All'interno c'è caos e confusione, apparecchiature infrante, inutili, liane che serpeggiano tra cavi penduli e tubature ammaccate, squarci nelle paratie. Vede una grossa consolle coperta dalla polvere, sede di un cervello elettronico da secoli inattivo, dopo l'aver assolto impeccabilmente il suo preordinato programma d'atterraggio della navetta, una volta ristabilitesi le condizioni ottimali per il pianeta, adatte alla vita. Allineate lungo lo scafo, due file di sarcofagi oblunghi dal coperchio trasparente. Sono bozzoli vitali, contengono uomini in animazione sospesa, immersi nel sonno profondo. Ma solo tre di essi pulsano di tenue luce azzurrina, gli altri sono grigi, opachi. Le spie indicatrici della sopravvivenza dei corpi sono spente, le lastre di cristallo incrinate, le forme all'interno dei sarcofagi sono essicate e prosciugate di vita. Ventisette bare.
Attraversa lo spazio tra le due file, arranca tra frammenti metallici che le trafiggono i piedi, geme sommessamente per arrivare al primo cubicolo attivo. Oltre il coperchio trasparente la luce cerulea ammicca, tremola, scintille sfrecciano all'interno. Un segnale di pericolo brilla sul quadro ancora funzionante dei sistemi vitali, un persistente allarme elettronico comincia a gracidare nel relitto. Sul cristallo corrono delle crepe. Un uomo giace nel sarcofago danneggiato, immobile nel sonno senza sogni, nudo e ignaro dell'instabilità del suo bozzolo. Crepitano scariche elettriche, il fumo comincia a levarsi dalla macchina.
Lei sa qual è il comando d'emergenza, lei sa che può intervenire per salvare l'uomo da morte sicura col solo tocco ti un tasto, alla base del cubicolo. Conosce quei sistemi di sicurezza. Il cicalino elettronico assume la frequenza del pericolo immediato ma lei si sposta verso il secondo cubicolo funzionante. Nel suo interno c'è una donna, giovane, capelli lunghi e biondi che formano un'aurea corona attorno al suo capo. Dimostra non più di trent'anni, foggiati in un corpo dalla pelle liscia e dai morbidi seni immersi nella calma luce azzurrina. Contempla a lungo quella placida figura addormentata, mentre il segnale d'emergenza aumenta d'intensità alle sue spalle. Accarezza con lo sguardo le forme armoniose di quel corpo nudo e ricorda, ricorda la sua giovinezza, quando era impressa in lei, fresca, viva, ricorda se stessa. Poggia una mano sul cristallo, lasciandovi una laida macchia vermiglia. Ricorda carezze, abbracci, velluto caldo al tocco delle dita. Guarda quel viso inespressivo al di là del vetro, le labbra piene, i capelli, le guance, la pelle, le curve sinuose. Un tempo anche lei era così. Ma ora…
Quel seno, così dolce, così liscio. E quell'umido ammasso sfatto che è il suo, quelle sue braccia scorticate, quel suo corpo che trasuda sangue da tessuti orribilmente scoperti. Le lacrime le bruciano negli occhi, piange ed avverte un altro tipo di dolore, più profondo, non fisico.
Nell'ultimo cubicolo c'è un bambino, di non più di sei anni. Immerso nel sonno profondo, in attesa del risveglio, della rinascita che un decrepito cervello elettronico provato dal tempo non può più assicurare.
Si accascia lungo una paratia, mugola, freme, lascia sul metallo una rossa effigie. Davanti a sé, i tre cubicoli, oltre, al di là dello squarcio nella fiancata della navetta, s'intravede il mondo esterno, alberi, cielo blu, il rumore dell'oceano, il fischio del vento. I suoi amanti le mandano messaggi, comunicano con lei.
E all'improvviso, repentina, ecco la rivelazione.
Quei cubicoli davanti a lei sono provette. Provette che isolano dei virus letali, portatori di distruzione cieca e brutale. Ora tutto è chiaro: provette.
La gratitudine, quell'ansia di riconoscenza provata prima, all'esterno, quel dono a qualcosa di non conoscibile, quel debito che voleva saldare.
Ora può farlo. Può elargire il suo dono alla terra, il più grande dono, dettato dal sentimento più grande, amore. Amore per la terra, sacrificio per essa, vita per la terra, futuro per la terra.
Davanti a lei, provette, semi di morte, ostacoli finali per l'esistenza del neonato pianeta. Dall'esterno giunge un sussurro, lei lo riconosce.
"Salvami" dice il cielo.
"Liberami" dice il vento.
"Aiutami" dice l'oceano.
"Amami" dice la terra.
I tre sarcofagi luminosi, le tenebre finali, mai mitigate, racchiuse in quei bozzoli, in attesa di scatenarsi ancora sul pianeta.
"Amami" dice la terra. Il dono, la prova d'amore. Lei sola, unica prescelta. Forse quella scintilla vitale ha brillato in lei proprio per questo. Una folata d'aria penetra nello scafo, la raggiunge, l'avvolge.
"Liberami" dice, "dalle tenebre…"
La sbarra di metallo cala sul cristallo del sarcofago danneggiato, che va in pezzi. Le fiamme divorano con sorprendente rapidità il corpo all'interno, lo scafo della nave si riempie di fumo acre. Facile.
Colpisce il secondo sarcofago di punta. Sono macchine molto delicate, le scintille impazzano sfrigolando, il corpo della donna sussulta come impazzito, la decompressione improvvisa ne fa spalancare di colpo gli occhi, che esplodono all'esterno.
I suoi lineamenti scorticati si riflettono sul viso del bambino dormiente, nel terzo bozzolo, come una tragica maschera di sangue.
"Salvami" dice la terra.
Sono germi incubati, latenti nel profondo, pazienti.
"Amami…"
Le fiamme divorano le strutture della navetta.
Esce dai rottami, trascinandosi penosamente, un oggetto stretto nel pugno, si allontana strisciando a terra, lasciando dietro una traccia sanguinosa.
Lei è parte di ciò che ha distrutto, lei appartiene a quella razza, lei è stata una di loro e lo è ancora. Il germe putrescente è in lei, agisce in lei. Ne è l'incarnazione, viscida e ripugnante, è quel morbo letale che crede di aver annientato, un grumo corrotto, una massa putrida, contaminata e contaminante. Non avverte più nessun messaggio dall'oceano, dal vento. Il tramonto si avvicina.
C'è un torrente d'acqua limpida e rumorosa, che si lancia nel vuoto, verso il mare mugghiante di sotto. Si trascina in esso, sentendo il freddo sul fuoco delle carni martoriate, si aggrappa ad una roccia che sorge dall'acqua, subito arrossata per il sangue che trasuda dagli arti sfatti. Intorno vi sono filari d'erica selvatica, manti erbosi, rocce bianche sotto una volta blu, striata dai vapori. Da oltre l'orlo, particelle di spuma marina salgono al cielo mentre oceano e vento si fondono sfumando, in pacifiche combinazioni.
Apre il pugno, il frammento tagliente di metallo luccica sotto i raggi rossi del sole che cala.
Raggomitolata attorno alla roccia, la corrente l'accarezza in un fluido abbraccio, la culla dolcemente. Immerge i polsi e taglia le vene.
Nessun dolore, ora. Si disperde, si allontana da se stessa, si smarrisce in quell'acqua quieta, verso l'orlo, verso l'oceano.
L'aria è tiepida. Tutto è calmo, sembra essere molto bello e le lacrime non bruciano.
Oltre l'orlo, un antico discorso prosegue, indisturbato.
Michele Tetro 18/10/1989-15/1/2000
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