Inneva tutto
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Inneva tutto
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PARTE PRIMA
A
Camminava, dando le spalle alla pianura fredda che lo aveva visto crescere.
A fianco il fiume, che scorreva limpido, azzurro come i suoi occhi profondi intenti a guardare l’infinito, verso le alte distese ghiacciate. Non sapeva da cosa fosse attirato il suo sguardo, forse perché nei suoi pensieri era altrove, lontano da quel posto che appariva tanto sereno. Non provava più nulla, non riusciva a sentire affetto, ma nemmeno più ad odiare i luoghi che gli avevano regalato felicità, tristezza, e magari qualche amico. Di questi ora non si ricordava, l’unica figura che aveva di fronte e che occupava tutte le sue cellule nervose era il padre; la sua famiglia non era completa, e per lui non lo era mai stata, sua madre era morta senza che avesse potuto conoscerla. Di questo soffriva, ma non era un simile svantaggio ad avergli messo in subbuglio la vita: dopo tutto era fuggita via ormai da tempo… la calma, la pace, le aveva odiate come e più di se stesso. La sua persona appariva schiacciata sotto l’ombra di chi aveva ancora vicino, e non lo voleva ammettere ma questa era la causa originaria del suo essere: una vita come la sua, in un posto come il suo, non poteva aver avuto molte influenze, tranne quella del padre, il vecchio, il passato che egli rifuggiva dannatamente se doveva per necessità rendere il suo vivere, come in effetti era, banale ripetitività, felice ignoranza di non fare nulla di vero, lassù, al nord. Si sentiva ancora un piccolo ragazzo incatenato con la voglia di salire al cielo, forse solo un adolescente silenzioso.
L’uomo che viveva in casa sua non era una persona normale, come tante, ma un militare, grande, possente, e verso cui egli nutriva una sorta di malcelato timore che si esprimeva in un freddo distacco. Non parlava mai della moglie, e questo pesava su di un figlio e su di un cuore che mille volte se l'era figurata cercando di recuperare un ricordo che sapeva inesistente…
Anche ora ci stava pensando.
Non poteva distoglierlo da ciò il ghiaccio che brillava abbagliante sotto i raggi del primo sole primaverile. Passo dopo passo la strada si distaccava dal fiume e proseguiva più a nord, verso il paese, ancora immerso nella neve caduta l’inverno appena conclusosi. Quell’anno era stato particolarmente rigido; molte colture, perlopiù tuberi e foraggio (le uniche che il clima permettesse), erano andate perdute, e l’unica fonte di sussistenza per gli abitanti era rimasta la pesca al salmone.
Il piccolo paese, incastonato fra le vette e i vasti boschi di conifere sembrava svegliarsi come un animale uscito dal letargo da un torpore durato una lunghissima notte. Uomini e donne cominciavano in quei giorni a riprendere le normali attività: la tetra oscurità glaciale aveva lasciato il posto ad un timido sole, e la parvenza dell’arrivo della bella stagione, quella della luce eterna, bastava per alzare il morale di tutti quanti. Durante le giornate buie appena passate, al massimo penetrate da una flebile luce orientale, pochi pensavano a quanto fosse bella la natura: forse solo lui poteva riflettere su quel prodigio, su quel fenomeno ricorrente che nascondeva le ombre, che rendeva tutto spettrale, e che caricava gli spiriti di una strana sensazione di pace angosciosa. Ogni anno, al sorgere del nuovo sole, tutto ciò svaniva, per poi tornare sei mesi dopo, in modo da far impazzire chi per caso non ci fosse abituato. Pochi erano gli stranieri da quelle parti, anzi nessuno, benché gli abitanti del posto fossero ospitali, quasi come rassegnati alla loro condizione di vita estrema, superata senza neppure saperne il motivo.
A volte egli pensava a quante persone non si accorgano di esistere, vivano la loro vita come se essa fosse un duro e faticoso batter di ciglia nell’immutabile trascorrere del tempo che di loro neanche si avvede.
Con tali considerazioni nella mente arrivò senza quasi rendersene conto al paese, calmo e rassicurante. Ma una pace così spudoratamente evidente può influenzare in modo negativo anche il più stabile degli spiriti... Portandosi una mano al collo percepì un insolito senso di calore: un misto di imbarazzo e di terrificante angoscia. Fu come un improvviso sbalzo d’umore, un abito diverso che sembrava circondare di un’aura invisibile la sua persona. Non aveva mai provato una sensazione simile, in un certo senso gli piacque, era pur sempre una sensazione, un qualcosa che non faceva altro che ampliare una segreta volontà di conoscenza.
Non era lontano da casa, anzi, ormai vi era proprio davanti. Eppure, come in un sogno, o meglio in un incubo, quella emozione stava aumentando a dismisura, sempre di più, forte, nuova, terribile ed eccitante. Un senso di paura cominciò a invaderlo tanto da fargli bloccare i piedi e prendersi il viso fra le mani. I capelli fluivano lisci, scuri fra le sinuosità delle dita arrossate per il freddo intenso che ora non era più ciò che dominava i suoi impulsi nervosi. Sotto lo spessore dei vestiti viveva un corpo diverso, capace di stimoli e percezioni al di fuori del comune; nitidamente egli si sentì proiettato in un mondo fittizio, fatto di ombre e ricordi nebbiosi legati assieme in modo incomprensibile. Sembrava che il suo subconscio tentasse di trovare, in un’infinita combinazione di memorie e di oniriche reminiscenze, degli indizi, voluti a tutti i costi da una paura solo celata dietro alla sicurezza in cui aveva sempre confidato. Un’angoscia insopportabile, una precisa e nuova visione impercettibile che di certo si stava esprimendo anche con le azioni. Ma in che modo? Da una manciata di secondi aveva smesso di badare ai movimenti del proprio corpo…era a tal punto preso da quella strana e folle sensazione da non vedere cosa stessero facendo le sue due mani. La mente tuttavia registrava…e annotava ogni cosa. Sangue.
Così come era arrivato, ad un tratto, tutto quel giro di nuove esperienze sparì, facendo ripiombare su uno spirito stremato per ciò che aveva fatto la realtà di quei luoghi.
Lo stupore di ritrovarsi a correre fra la neve lo fece sobbalzare e cadere a terra. La caduta creò un solco nella neve fresca, mentre i fiocchi trasportati dal vento settentrionale avevano ripreso a scendere, come cercando di coprire quel che era successo con un candido manto di purezza, ormai perduta.
E persa, in quel lampo accecante, era anche ogni sicurezza, magari sbagliata, ma pur sempre sua, ora violentata da una buia legge dei sensi che non può evitare di sorgere talvolta nell’uomo.
Alzandosi da quella scomoda posizione non si accorse di essersi fatto male ad una caviglia, pensava ad altro, a quello che immaginava di aver appena fatto. Lo pervase una voglia di fuggire, di allontanarsi per non aver davanti nulla a cui rispondere: tante volte l’immaginazione va così vicina alla realtà da non essere interpretabile come puro sogno, ma come verità effettiva. Spaventato da una simile eventualità riprese a correre zoppicando, ma chissà per quale forza nella direzione opposta a quella della fuga, con ansia mai provata prima, speranzoso di verificare che tutto fosse rimasto al proprio posto.
Davanti alla sua casa, isolata dalle altre, da cui usciva ancora un filo di fumo, giaceva il corpo del padre. L’uomo, riverso all’indietro, non aveva una smorfia di terrore in volto, sembrava invece dormire sereno, mentre la neve che continuava a scendere aveva già steso una patina bianca sulle vesti accese di colore e sui lunghi capelli scuri.
Il temuto si era verificato, ma sullo sguardo del giovane, adesso, non riuscì ad imprimersi uno spettro di paura: solo un indifferente atteggiamento, un rapido sentimento imprecisato che lo colse d’improvviso. Non c’era stato spazio per le spiegazioni, prima: la cecità che aveva prodotto quel delitto aveva impedito le normali regole del civile comportamento umano.
Nonostante ciò egli era contento, di una felicità subdola che si insinuava come ebbrezza dell’animo dopo un faticoso sbandamento. Il tempo si fermò per una frazione di secondo, i fiocchi sembrarono arrestarsi in segno di maledizione per quell’atto.
Il cuore pulsava pesante, tanto da farsi sentire in gola e in tutto il corpo, spandendo un sangue caldo nelle membra indolenzite. Giù, invece, fra la neve, il cuore non batteva più, tutto si era fermato; solo il sangue scorreva tingendo di rosso cupo e creando sbuffi di condensa nell’aria ghiacciata.
Un braccio del ragazzo si alzò facendo scivolare indietro parte della larga veste; ne cadde un pugnale, misero e di poco valore, sporco della sua stessa vita.
Gli occhi blu avevano perso una parte della loro vivida spiritualità, le mani tremavano come steli d’erba al vento, che spirava freddo da nord portando odori nitidi di bosco e di selvatico.
L’immobilità di quella scena durò pochi istanti, che sembrarono però secoli agli occhi di chi ancora poteva valutare il tempo.
Nulla passò e già si ritrovò in casa a cercare ciò di cui aveva bisogno: poco, tanto quanto bastava per cambiare. Voleva cambiare, sì, ma il cambiamento era già avvenuto pochi minuti prima: da opprimente pace esteriore la sua vita era passata a cupa angoscia, non motivata ma neppure inarrestabile. Anche un gesto tanto orribile doveva trovare una soluzione: e avevano dovuto saperlo fin dall'inizio, le sue mani, per aver agito così.
Conscio di ciò riuscì a trovare il necessario, e frettolosamente uscì sbattendo la porta che non si sarebbe mai più riaperta sospinta da quelle mani.
Cadevano le sue convinzioni, cadevano le sue idee universali espresse fino ad ora, mentre camminava con lentezza verso la piccola stazione del posto. La neve scricchiolava sotto i piedi che si alternavano sulla stretta strada. Il suo viso era accarezzato dal vento, che dolcemente arrossava gli zigomi armoniosi. Con gli occhi socchiusi avanzava come un viandante senza meta, non girandosi indietro per cercare di dare un’ultima occhiata alla sua terra.
Gli occhi avrebbero sgorgato lacrime, se lui l’avesse voluto; ma questo non accadde almeno fino a quando non giunse alla stazione: una calda goccia si infranse sulla neve, e lasciò un minuscolo solco come ultimo segnale di addio.
Perché stava piangendo, se non lo voleva? Perché al suo interno qualcosa non lo lasciava libero di partire? Non seppe rispondere a queste domande, ed ingannando se stesso, facendo finta di non ascoltarle, si avvicinò al piccolo treno rosso e grigio già fermo alla stazione, quasi lo stesse aspettando da sempre. Gli scalini di ferro cigolarono sotto i suoi passi con un suono lugubre e malinconico, mentre da lontano suonavano le campane a festa per celebrare la vittoria del sole. I rumori arrivavano alla sue orecchie, ma non lo distrassero, né lo turbarono: i sensi, davanti all'imponenza dei suoi pensieri, naufragarono, senza dare minima prova della propria esistenza. Il liscio e freddo scorrimano scivolava fra le mani al suo avanzare veloce; un turbinio di immagini senza significato, una segreta istintività lo guidava nelle azioni. Non si rendeva conto di cosa stesse facendo.
Fu il fischio del treno a risvegliarlo di colpo da quel profondo stato di torpore che aveva invaso le sue membra. Le pupille ripresero a focalizzare l’immagine e davanti trovarono il volto di una donna bionda; dava l’impressione di una persona del sud, interessante, anche solo da guardare. In lei nulla stonava, ed il gusto per la raffinatezza faceva intendere una discreta vivacità intellettuale.
Il suo sguardo intrigante, per nulla semplice da decifrare, lo ridestò completamente: si sedette di fronte a lei, e non pensò più ai suoi problemi. Il viaggio sarebbe stato molto lungo.
Immerso nel comodo sedile dello scompartimento passò il tempo a riflettere, ed usò i pochi momenti disponibili per parlare con la ragazza: lasciò un po’ in disparte gli altri quattro passeggeri, che continuavano a vomitare parole fra di loro senza mai smettere. Fuori dal finestrino aveva luogo una meravigliosa danza di paesaggi, che cambiavano veloci per dar sempre più spazio al verde, che sottraeva forza al bianco della neve.
Come da lì a pochi giorni addietro il sole non tramontava; giungeva basso, a terra, creando un’atmosfera irripetibile. Quell’ultima neve si tingeva di rosa, per andarsi a specchiare sui vetri del treno che ponevano il confine al cielo rosso e viola nel quale tondeggiava un grosso sole sfocato per la leggera foschia.
All’ultimo riflesso dorato che si adagiò sul suo viso stanco, una parte dei capelli scivolò giù a coprire gli occhi che caddero in preda al sonno.
In un pallido chiarore regnò il silenzio. L’orologio di uno dei passeggeri continuò a ticchettare, tic... tac, tic... tac, tic... tac..., come il lieve battito del cuore...
Il brusco risveglio del mattino fu accompagnato dal rollio delle ruote sui binari e dal vuoto del sedile a lui di fronte. Girandosi un po’ intorno con lo sguardo si accorse di essere solo, ignaro di quanto si fosse allontanato da casa verso sud.
Nessuno là lo avrebbe compianto quel mattino, se si fosse accorto della sua scomparsa.
Erano passate più di ventiquattro ore; si alzò e si sporse a guardare fuori: una giornata limpidissima incoronava una vasta pianura calda ed assolata. Il giallo spiccava nei campi arsi e nell’aria luminosa, non più fredda e cristallina come l’aveva lasciata ore ed ore prima. Il treno stava rallentando, fino a che non si fermò con uno sbuffo in una piccola stazione fuligginosa. Carico di gioia, come carico di rabbia, scese con la sua poca roba e restò fermo incantato dal nuovo spazio di vita. Un vento polveroso spazzava l’aria mentre il treno riprendeva la sua corsa. Chiuse gli occhi ed alla sua mente affiorò il ricordo piacevole di quella gelida natura ormai abbandonata; anche lassù le correnti d’aria sparpagliavano i suoi capelli, come mani aggraziate capaci di far provare sempre sensazioni diverse.
Non volle fare altro che incamminarsi; uscendo dall’edificio vide l’anziano capostazione aggirarsi con andamento pacato sullo sterrato antistante l’ingresso; era curvo, e di tanto in tanto si passava una mano sotto il cappello blu, farfugliando poi qualche parola incomprensibile.
Voltandosi dopo breve procedette per una piccola strada ciottolosa, tra i caldi campi che si estendevano a perdita d’occhio. Il sole rendeva quasi insopportabile il calore, ampliato dal grano che sembrava quasi bruciare sotto il cielo terso ed agitato. Il mare non doveva essere lontano, era presagito da una brezza a lui sconosciuta, inebriante come una droga in quel pomeriggio che stava andando a morire, lì dove il sole non era più destinato a non tramontare.
La sua vita non valeva che una stella in tutto l’universo, e ne era consapevole: provava un profondo malessere mentre procedeva veloce colpendo con i piedi qualche sasso grigiastro.
Camminava già da un quarto d'ora, quando da lontano un sordo brontolio lo fece voltare; stava arrivando un’auto nera, scintillante, e creava un polverone che andava a depositarsi sul ciglio della strada sporcando le erbacce. Tornò a camminare, come privo di curiosità verso quel mezzo potente che poco conosceva.
Fu costretto a girarsi nuovamente quando quel rombo si interruppe proprio dietro di lui; l’auto si era fermata, per qualche secondo non accadde nulla, poi ne uscì una ragazza, alta, snella ed abbronzata.
“Vuoi un passaggio?”, chiese togliendosi gli occhiali scuri e rivelando due occhi neri e profondi. “E’ raro vedere qualcuno che percorre questa strada, almeno che io ricordi...”.
Alzando gli occhi socchiusi per la luce intensa i due si guardarono fintanto che lei non ricominciò a parlare. “Ci sono ancora sette miglia per arrivare al mare, e credo che bruceresti prima. Dai, salta su!”. Rapidamente salì in macchina ed accese il motore: a quel rumore egli, che era rimasto imbambolato per gli avvenimenti appena rotolatigli davanti, fece quei pochi passi che lo distanziavano dall’auto e lentamente vi si ritrovò dentro. Un secondo dopo erano partiti, ed i campi cominciarono a correre sempre più veloci, fino a diventare un’unica massa dorata che a sinistra si mescolava coi capelli dell’autista ai quali il sole donava un colore luminoso. Guidava sicura, con un sorriso sulle labbra che rendeva ancor più dolci i suoi lineamenti. Invece sulla destra i capelli scuri coprivano un capo reclinato, di un uomo in un certo senso a disagio per la sicurezza di quella ragazza. Per i primi minuti l’unico rumore proveniva da fuori, dal frusciare delle piante e dal ronzio degli insetti. Poi, a rompere il silenzio, occorsero le parole impostate di chi stava al volante: “Come ti chiami?”. Risvegliato dai suoi pensieri, l’altro rispose timidamente, alzando lo sguardo per incrociare quegli occhi, misteriosi e bui ed allo stesso tempo rasserenanti e luminosi.
“Io sono Julia”, continuò, “abito a ***, sul mare. E’ una piccola città sulla costa, isolata ma molto suggestiva”.
Guardò il passeggero abbassandosi gli occhiali e gli chiese cosa ci facesse in un posto come quello; a tale domanda dovette rispondere con poca sincerità, con una storia inventata su due piedi. Spiegò che non aveva più nessun legame col luogo da cui proveniva, e che si era spinto fin laggiù per trovare lavoro e sistemarsi una volta per tutte. Era titubante ed ansioso. Con tali parole non pensò di convincere chi aveva fatto la domanda: ma comunque la ragazza stette zitta. Il suo volto dava a dimostrare pienamente i suoi soli diciassette anni, e quindi la difficile verosimiglianza della storia.
La giovane alla sua sinistra doveva avere almeno vent’anni, era vestita molto semplicemente, i capelli le arrivavano alle spalle, ma non le coprivano completamente.
La sua bellezza non nascondeva quello che doveva essere il suo spirito. Fin dal primo sguardo si era accorto che per lui non sarebbe stata una persona qualunque, e questo perché dava a vedere una beltà d’animo ed una grandezza difficili da trovare. Non riusciva neppure a guardarla per più di un secondo: era imbarazzato, ma fatalmente attratto da lei...
L’auto cominciò a rallentare non appena comparvero le prime case, delle basse villette isolate con giardini circondati da cancelli verdi o blu che stonavano con il caldo giallo della natura circostante. In giro non si vedeva nessuno, solo ogni tanto qualche macchina impolverava i marciapiedi di pietra solcati ad intervalli regolari da alti lampioni in stile europeo.
La strada procedeva in salita, ed una collina non permetteva di vedere oltre; in una perfetta simmetria case e marciapiedi scalavano quest’altura, come ignari della pendenza.
In quei pochi minuti passati sull’auto di Julia, vide scorrere davanti a sé un nuovo mondo, un’estate perpetua ignota ai suoi luoghi. Aveva ancora impresso nella mente il ricordo del suo mare gelido, quando l’auto superò la collina e rese accessibile agli occhi una nuova parte della landa pianeggiante: credette di essere uscito da una buia galleria; scorse un panorama che lo lasciò a bocca aperta.
La strada declinava dolcemente verso sinistra, lasciando libera la vista sulla città, a destra. Il mare sovrastava le case, esteso a perdita d’occhio su di una lunga costa color ocra: su di esso sembrava sospeso un sole dalla luce infinita, che dava alle onde, blu come la notte, dei riflessi dorati che andavano ad infrangersi contro la battigia. Di contro tante case bianche ed azzurre in un dedalo di vie e giardini completavano la meraviglia di quel luogo. L’abitato si dilungava, apparendo come inserito in una lieve depressione, per buona parte della zona costiera visibile, e continuava anche dall’altra parte della strada che i due stavano percorrendo, andandosi a mescolare con i campi da cui erano sbucati.
“Fa un certo effetto, non trovi?”, disse Julia sentenziosa. Il ragazzo vicino a lei riuscì appena a fare un cenno affermativo, ancora attaccato al finestrino per contemplare lo spettacolo che gli si era posto davanti così inaspettatamente.
“Va bene se ti lascio qui?”, propose l’autista pigiando sul freno e fermando la macchina.
Dopo una breve riflessione, ostacolata dal fatto che la mente rispondeva male, disse di sì e scese dall’auto chiudendo lo sportello. Dal finestrino abbassato Julia si sporse. “Sei sicuro di non avere bisogno di niente?”. All’ennesima risposta affermativa voltò lo sguardo, prefiggendosi di non voltarsi più a guardare quegli occhi celesti che l’avevano colpita fin dal primo istante.
Si era già girato verso il mare ed appoggiato al parapetto che immetteva poco più in là in una rampa di scale discendenti, quando gli sovvenne il problema di come avrebbe passato la sua prima notte. Soldi ne aveva, ma non a sufficienza per vivere a lungo; in qualche modo se la sarebbe cavata, e così si fermò sereno a guardare lontano. Alle orecchie giungeva il dolce fragore dell’acqua e le narici erano investite da strani ma piacevoli odori mai provati prima. Si sentiva misteriosamente legato a quei posti, a quella terra che profumava di incenso e che riempiva il suo cuore di un’illimitata felice malinconia. Le sensazioni che stava provando non sapeva bene da cosa fossero condizionate, se da una profonda suggestione o se da suoi accattivanti meccanismi interiori. Asciugandosi l’umidità che il vento aveva fatto scivolare fin sulle guance, si spostò verso la scalinata per scendere nel cuore della città.
L’aria si stava affievolendo, ma una sottile brezza marina lo accompagnò nella sua discesa, insinuandosi tra i vestiti e fra il suo viso.
L’ultimo gradino dava inizio ad una lunga stradicciola fiancheggiata da abitazioni esili e da qualche panchina: presumibilmente doveva arrivare sino al mare. Un piccolo muro incrostato dall’edera faceva capolino di tanto in tanto restringendo il passaggio. Sembrava che nessuno lo volesse incontrare, che tutti lasciassero a lui solo la fortuna di ammirare il paese. Saranno state le sei inoltrate, ma ancora il sole non dava segni di voler diminuire il suo calore.
Aveva fame, e ricordandosi di essere a digiuno da quasi un giorno intero cominciò a pensare ad un modo per risolvere la situazione. Bastava rivolgersi ad un passante e chiedergli dove si trovasse un albergo od una semplice locanda: ma non era così facile.
Quella stradina continuò tortuosa per circa duecento metri, poi svoltò bruscamente in un vialetto alberato. Camminando fra i tronchi delle dozzine di strane palme si guardò intorno; l’ombra di un edificio gli copriva il sole, sempre più basso; l’atmosfera si stava facendo davvero suggestiva, sottolineata da una pace misteriosa che gli ricordava le vergini distese di neve della sua casa. Le sue gambe, dritte e ferme nel mezzo della città disabitata, provarono ad un tratto un formicolio, come una sorta di impedimento a proseguire. Era passato pochissimo tempo da quando aveva sentito il cuore sereno, da quando quella strana ed affascinante ragazza gli aveva teso una mano amica, per guidarlo e magari farlo raccapezzare fra le stesse sensazioni che ora lo assalivano tutte riverse contro la sua mente. Forse aveva ragione, aveva davvero bisogno di aiuto, perlomeno per uscire da quei luoghi labirintici, ma una maledetta dose di superbia lo aveva bloccato, in tutti i sensi; non voleva rivivere le esperienze che lo avevano attaccato due giorni prima, cercò di restare calmo, continuando a camminare come un normale passante. Fra sé e sé credette di capire il motivo di una simile sinistra desolazione: quella parte della città, così caratteristica e sottilmente esotica doveva essere viva soltanto d’estate... e mancava ancora più di un mese. Fuori stagione le spiagge erano in gran parte deserte, e come ovvio la popolazione locale si riduceva a poche centinaia di persone, lasciando abbandonati i quartieri in cui si trovava ora a passeggiare. Doveva essere così.
Passarono altri dieci minuti; l’ambiente stava cambiando; aveva seguito la costa, all’interno dell’abitato, quando svoltando da un buio vicolo si ritrovò nei pressi di un piccolo porto. Come un’oasi nel deserto quel luogo pieno di attracchi faceva rinascere la vita: su di un acciottolato sconnesso, rotto ed intermezzato da rigagnoli e pozzanghere, il giorno pigramente stava morendo. Già il rossore occidentale appariva all’orizzonte, tinteggiando le acque di mille caldi colori; le persone, di fretta, si disperdevano in un brusio fra la moltitudine di vicoli, e quei pochi che ancora lavoravano sulle modeste imbarcazioni ritiravano le vele e si godevano in compagnia la magica atmosfera. I pontili rollavano ancora, mentre il mare gorgogliava quasi volesse esprimere i propri sentimenti.
Era bello vivere quei momenti da solo; con disinvoltura si avvicinò ad una piccola barca rossa e gialla, con a bordo un uomo già attempato intento a fumare una sigaretta rivolto verso il mare. Bastò un breve cenno per farlo voltare; al che egli, pochi metri più in là, gli domandò ciò che aveva pensato una mezz’oretta addietro. Il viso dell’uomo, non aggraziato, ma elegante, si aprì in un marcato sorriso, e la risposta uscì chiara dalle sue labbra screpolate: “Se vai per quella strada arrivi in cinque minuti ad un alberghetto...”, fece indicando una movimentata zona del porto; “Ma non aspettarti niente di eccezionale: questo posto diventa importante solo d’estate, quando arrivano i ricchi”, continuò sfociando in un’espressione tra l’amaro ed il rassegnato.
La conversazione si interruppe; ringraziò. L’interlocutore tornò alle sue faccende: forse lo aveva turbato; dal tono di voce non doveva essere molto soddisfatto della propria città, l’aveva descritta quasi come affetta da un cancro che la soffocava e che le impediva di vivere...
La facciata dell’albergo profumava di vecchio. L’insegna luminosa dava flebili impulsi di luce intermittente, e da lontano si sentiva ancora il rumore delle onde che sembravano affievolirsi lentamente come destinate ad addormentarsi al calar della notte. La temperatura era scesa, ma permetteva comunque di sentire sulla pelle un piacevole calore.
Entrò quasi malvolentieri da una porta di legno cigolante e dipinta di un azzurro acceso; si diresse sulla sinistra, dove si trovava un bancone coperto di carte; vide sull’altro lato tre tavoli ai quali erano sedute alcune persone, tutte con lo sguardo fisso su di lui. Erano cinque vecchi dallo sguardo duro, pietrificato; si poteva presumere che passassero lì tutte le loro serate: in quel tardo pomeriggio erano stati premiati dalla fortuna, avevano la possibilità di vedere qualcosa di insolito per quel locale. In effetti il ragazzo, rigido ed imbarazzato, non costituiva il tipico cliente del posto, dove il tempo sembrava non essere mai entrato a creare scompiglio...
La porta sbattuta con forza aveva provocato qualche effetto: uno scricchiolio di scarpe si stava avvicinando lentamente, qualcuno stava arrivando, e si presentò dopo brevi istanti di attesa. Il padrone della locanda era un uomo imponente dagli occhi scavati; accolse il giovane con un’inaspettata quanto calorosa stretta di mano. L’atmosfera sembrò rasserenarsi dopo quel semplice gesto, tutte le anime presenti nel locale parvero tirare un sospiro di sollievo: a questo punto le parole arrivarono su di un campo già arato e pronto per la semina.
I due ben presto si accordarono, ed il padrone invitò l’altro a seguirlo. La porta da dove poco prima era uscito l’uomo, fatta di legno con un grosso vetro circolare, si trovava al lato opposto del bancone da cui il ragazzo non si era mai mosso. Ora, passando vicino ai vecchi per attraversare la sala notò che un poco discosta, dietro agli altri, c’era un’altra persona: prima non era riuscito a vederla. Si trattava di un uomo vestito con un impermeabile scuro che sembrava non essere per niente interessato a quello che gli stava accadendo intorno. Non alzò neppure la testa quando una terza porta si aprì e sbatté rumorosa, proprio vicino a lui; era immerso in pensieri che producevano sul suo volto una smorfia di sofferenza.
La stanza accanto consisteva nella sala da pranzo, interamente in legno, che terminava con una rampa di scale a chiocciola. Incoraggiato dall’accompagnatore, che di nuovo sparì da una piccola porticina nascosta sulla destra, si sedette ad uno dei sei tavoli. Il luogo, che profumava di legno e di segatura, gli ricordava alla lontana un sottobosco; dalle tre finestre triangolari, disposte in fila su un unica parete, si poteva scorgere la strada da cui era giunto, ormai quasi deserta e sempre più buia. Mentre fissava la lunga ombra che ancora proiettava l’unico lampione visibile dalla sua posizione, entrò per quel piccolo passaggio una ragazza. Doveva essere una cameriera, perché stava portando tutto il necessario per apparecchiare la tavola.
Dopo un veloce e timido saluto le sue piccole mani, in modo armonioso, prepararono e disposero sotto gli occhi dell’unico commensale ciò che avevano fin lì portato dalla cucina. La vista di lei non poté che catturare la sua mente: il suo corpo esile era inquadrato da un viso splendente, luccicante come le posate che aveva appena ordinato sulla tavola. Sotto la leggera divisa azzurra e bianca apparivano delle forme delicate ed i capelli legati all’indietro, castani, completavano la figura. Anche gli occhi di lei incrociarono con dolcezza il volto di chi la stava osservando. Il verde iridescente sembrò accendersi, si dilatarono le pupille, ed un rossore verginale elevò la bellezza del suo volto.
Veloce come era apparsa sparì senza essere riuscita a dire una parola. Anch’egli era rimasto in silenzio, col cuore gonfio dell’amore che aveva accumulato durante quella giornata. In balìa di un mare di emozioni riuscì a mangiare ben poco di quello che gli fu servito, poi, fatta domanda alla ragazza, ottenne di sapere dove fosse la propria stanza. Così, salendo la scala a chiocciola, la raggiunse; la chiave era inserita nella toppa: fece scattare la serratura, aprì la porta ed entrò. Gettò la chiave sul primo mobiletto che incontrò, una piccola cassettiera nera, e si mise ad osservare il posto; il letto occupava gran parte della stanza, piccola ma arredata con buon gusto; una porta nascondeva il bagno, ed un’altra, a vetrata, conduceva in uno stretto terrazzo.
Stanchissimo si lasciò scivolare sul letto di legno dalle colorate lenzuola, e, con lo sguardo fisso al soffitto, permise che la sua mente si smarrisse nel ricordo degli avvenimenti che quel giorno si erano impressi in lei. E così poté rivedere molte cose: la donna del treno, la ragazza dell’auto, la cameriera; tutte, a modo loro, gli avevano regalato qualcosa... Si ritrovò senza accorgersene seduto sul lembo del suo giaciglio: era passata forse una mezz’ora, e per rendersene conto si alzò in piedi e decise di uscire in terrazza. Aprì agevolmente la vetrata dopo aver spostato le tende blu che la coprivano. Mentre usciva in quella limpida notte lo raggiunse una ventata, piacevole e tiepida. Avanzò di qualche passo e poi si fermò appoggiandosi alla ringhiera traforata, guardando fin dove la vista lo permetteva.
La notte era ormai scesa ad avvolgere ogni cosa con il suo silenzio rassicurante.
Mai come in quel momento si era sentito così solo; in fondo, però, cosa c’era di più bello se non proprio quella situazione di estrema malinconia, accentuata dal leggero rumore sordo del mare, in lontananza... nessuna voce, nessun rumore poteva rompere la magia di stelle che nel cielo andavano a fondersi con i riflessi argentei della luna sulle onde, giù, verso ovest.
Il vento, come sottomesso al suo volere, cessò di soffiare, caricandosi di un’aura che sembrava sconfiggere l’oscurità della notte. Con lo sguardo ancora perso fece quei pochi passi indietro che servivano per rientrare nella camera; si ritrovò immerso nella luce, la spense: era troppo stanco per fare ancora qualcosa. Vestito si addormentò sulle lenzuola intatte; il peso della vita stava diventando insostenibile. Grande mistero covava quell’eterna notte, bella di un fascino esotico che prometteva quiete e tristezza.
B
Il nuovo giorno causò la rottura dell’incantesimo: una luce inarrestabile, calda, piena di particelle di pulviscolo si spandeva per la stanza ed andava ad illuminare i suoi occhi ancora chiusi: disteso scompostamente con le gambe raggomitolate godeva degli ultimi secondi di sonno, quando i raggi accecanti del sole già alto lo fecero scattare seduto sul letto. Ansimando come dopo un incubo si accorse di essere vestito; si alzò ed andò a sciacquarsi il viso. Si sentiva i piedi pesanti ed anchilosati: aprì il rubinetto, e l’acqua fredda liberò la mente ancora intrappolata nei poco chiari sogni del dormiveglia. Con violenza, per due o tre volte, scosse il capo assonnato, poi restò fermo con le mani piantate sui bordi del lavandino.
Con i capelli ancora bagnati prese la sua poca roba, e senza pensare a nulla di preciso scese di sotto. Attraversò veloce la cucina, si ritrovò nell’ingresso: non si aspettava di vedere davanti a sé la ragazza della sera passata.
Sentendo quei passi sicuri e cadenzati lei aveva alzato lo sguardo, prima basso su di un grosso librone scuro, e più il ragazzo si avvicinava più sentiva crescere qualcosa: le guance si tinsero di un rosa caldo, e in preda ad una profonda stretta allo stomaco riuscì appena a rispondere alla breve domanda pòstale dalla persona che ormai le si trovava di fronte. “Posso pagare a te?”, chiese in tono retorico porgendole un paio di banconote per la cena e la stanza. Durante il passaggio di quel poco denaro i quattro occhi si incrociarono come il giorno precedente: ora però con uno scopo diverso, come per tentare di penetrare i pensieri dell’altro e carpire da essi le sensazioni provate. Istintivamente la mano di lei si spostò su quella di lui, lieve, per poi ritrarsi con un timido movimento; sempre in silenzio il ragazzo firmò il registro dell’albergo, quindi si avvicinò ancor di più al suo viso, che intanto si era fissato sui capelli scuri, umidi, quasi grondanti.
I due potevano sentire il respiro reciproco e la forza tentatrice dei loro volti sui quali era impressa un’espressione severa che copriva il vero stato del loro essere interiore... la mente sembrava parlare da sola.
Non era il momento giusto, lo sapevano entrambi, si scostarono; lei restò ferma dietro il bancone mentre l’oggetto del proprio turbamento si allontanava scomparendo nella luce del giorno. Si portò nervosa un dito sulle labbra, poi richiuse il registro e si voltò.
Fuori il paese era già in piena attività, le strade erano discretamente affollate ed il mare appariva solcato da imbarcazioni di diversa grandezza. Qualche nube verso sud rendeva la giornata meno splendente della precedente, sebbene la temperatura non lo desse a credere.
Pensò che poteva riprendere a viaggiare, oppure sistemarsi in qualche modo in quella attraente città, ed attendere. Il giorno appena passato aveva ben ritenuto di risolvere i problemi con calma, ma ora non potevano più essere rimandati, doveva trovare il modo di metterli a tacere... Non credeva fosse tanto difficile: era solo, privo di un qualsiasi aiuto esterno, e si sentiva un estraneo nella laboriosa cittadina che aveva di fronte. Viveva ancora in un mondo tutto suo, ascoltando i rumori che lo circondavano come da una bolla chiusa ed invisibile alla vista degli altri; mentre passo dopo passo superava le basse case ed i giardinetti verdi incontrava gente di ogni tipo e di ogni età: qualcuno si girava a guardarlo, perché di certo non passava inosservata la sua figura alta ed importante, ma era solo un istante. Neppure se ne accorgeva, era immerso nei suoi pensieri... ma forse era proprio quello il modo per crearseli.
Esplorare da solo un luogo del tutto nuovo dava un’eccezionale senso di libertà, un’emozione forte: poteva risultare positiva, ma dentro di lui ebbe un effetto devastante. Non si trattava di un viaggio lontano da casa di un semplice giovane turista, andava ben oltre, era... era il totale distacco dal mondo dove era cresciuto, una lacerazione troppo forte per non sentirne il dolore in tutti i suoi strappi.
All’improvviso, senza un vero motivo, fu assalito da un forte senso di nausea, lo schiacciante peso del ricordo lo lasciò in balìa di una visione. Cadde in ginocchio con gli occhi sbarrati. Forse era l’inizio della punizione, dell’eterno supplizio che egli stesso inconsciamente si stava scagliando addosso, forse era il momento di ricordare qualcosa che aveva censurato dal profondo... Non sentì dolore, al contatto col suolo; percepì soltanto una veloce scossa ormonale, come una pugnalata al cuore, la stessa che si era visto davanti pochi istanti prima.
Le mani si sporcarono di polvere, e i capelli si scomposero coprendogli la vista già annebbiata.
Intanto si erano fatte intorno a lui parecchie persone, spaventate ed incuriosite; due uomini, all’unisono, lo aiutarono a rialzarsi. Era ancora intontito da quel malore. Non sentì con chiarezza le voci dei due, ma tuttavia rispose con delle parole concitate: “Non è niente, Julia...”, veloci quanto strane: la ragazza dell’auto non era lì, ma forse avrebbe voluto che ci fosse.
Passandosi una mano sulla tempia sinistra riaffinò la vista ed identificò i suoi due aiutanti: si erano spostati di un paio di metri. La piccola folla si diradò, ed anche i due uomini, dopo aver toccato la mano del ragazzo in segno di amicizia, si allontanarono.
Il sole era ancora là, come se nulla fosse accaduto; il mistero della scelta di quel nome, Julia, lo tormentò ancora a lungo: non ne capiva le ragioni, lui che era abituato ad amministrare da sé le proprie emozioni. Al terribile ricordo di quei pochi giorni addietro il suo ego aveva ceduto: aveva dovuto affiancare il nome di qualcuno a ciò che non era riuscito a gestire da solo, era riuscito addirittura a mistificare il verbo del suo padrone, pur di sopravvivere... un meccanismo alquanto oscuro. Poteva significare un’avvenuta esplicitazione a se stesso dei propri sentimenti, quelli non veicolati dalla ragione, la vergogna, l’amore, oppure qualcosa d’altro... non riusciva più a raccapezzarsi. Si sentiva bene, ma in fondo il suo animo era turbato da una grande emozione che gli sconquassava il cuore. Il fisico ne risentiva, poteva capirlo, ma come prima non percepiva dolore, attenuato da una misteriosa dolce melodia che riecheggiava da lontano. Un mondo a sé si stava creando da quel nucleo di pura emozione, davanti ai suoi occhi e nel profondo del suo spirito, precipitato veloce nell’oblio dei sensi.
Riusciva ad avanzare sulla strada soleggiata, ma le persone sembravano passargli accanto senza provocare in lui alcuna variazione, perché il tempo era fermo; casa dopo casa la città pareva infinita, eternamente destinata ad essere il luogo della sua piacevole dannazione. Non riusciva a convincersi di essere malvagio, pur dopo ciò che aveva fatto: il rosso del sangue, ed il pugnale così luccicante ancora fra le sue mani parevano una finzione, una farsa teatrale, tragica ma lontana all’infinito. Un subdolo modo per negare a se stesso l’evidenza? O forse una prova lampante del perdono divino? Non poteva rispondere, solo a pensarci sentiva la fronte imperlarsi di un freddo sudore colpevole...
Ma poi perché tutto ritornava alla mente proprio ora e non il giorno prima? Il tempo non stava cancellando le ferite, stava aprendo una piaga sempre più profonda, provocata dalla morte dell’unica persona rimastagli cara... ed era stato lui! Eppure no, non amava il padre, non lo aveva mai sentito vicino (così almeno credeva), non gli aveva mai parlato dolcemente come un genitore. Quel terribile giorno aveva scoperto la verità su di lui; aveva avuto ben ragione dei propri sentimenti... il padre non era più tale, era...
Un gradevole suono interruppe le sue riflessioni, come se il destino volesse farlo soffrire a poco a poco. Era giunto ai limiti del paese, più avanti si estendevano i campi, e poi i prati; sulla destra c’era un’abitazione molto particolare: una villetta con un ampia veranda, a cui si poteva accedere tramite una stradina pietrosa che aveva inizio da un cancello di metallo mezzo arrugginito. Sembrava disabitata, le finestre erano sbarrate e la condizione dell’ingresso non era delle migliori, eppure da dentro arrivava una musica che non aveva mai udito, ma che gli pareva tanto famigliare...
Le note di un pianoforte stavano scandendo dei suoni tanto lenti quanto tristi; erano reali, ma il dubbio che a crearseli fosse solo l’immaginazione lo scosse con forza. Quel ritmo rimbombava nelle sue orecchie anche lassù, lo ricordava, ma più rapido ed incessante: tuttavia non era riuscito ad evitargli di compiere lo spaventoso delitto... il suono ora si stava affievolendo, mentre cercava di trovare un motivo per quel gesto. Ricordava solo una strana condizione fisica e mentale, e poi il rosso cupo... la memoria aveva cancellato dei secondi, o forse dei minuti, trascorsi prima della visione della morte. Che in essi fosse nascosto il motivo della sua fuga? Sentiva lontana la risposta a questa domanda, remota come la fonte da cui proveniva la musica.
Qual era il senso della propria vita? Perché poco fa aveva creduto di comprenderlo, ed aveva avuto veloci squarci di quel ricordo dimenticato? Il padre non c’era più; oltre che il suo corpo stava svanendo anche la sua stessa identità. Aveva sempre voluto che il figlio diventasse come lui, abile, forte, ma non riuscì mai a soddisfare le sue intenzioni; l’odio del ragazzo cresceva di giorno in giorno, non si dava pace. Ricordava ancora la volta in cui era scappato nel bosco, ai margini del lago: aveva tirato fuori uno strumento di legno che si era costruito rozzamente con un coltello arrugginito, ed aveva cominciato a suonare. Il padre lo aveva raggiunto. La fragile arpa andò in mille pezzi sotto i suoi piedi possenti: non poteva sopportare che si comportasse così.
Ma quello non poteva bastare a giustificare una vendetta così cruenta: cosa c’era d’altro?
Credette di impazzire; indietreggiò di pochi passi e poi, senza riflettere, si mosse rapidamente verso una strada ombreggiata. Sentiva nel cuore solo più una lenta messa di requiem...
Un campanile batté dodici cupi rintocchi, segnavano la fine della mattinata, e l’inizio di un interminabile pomeriggio. Non aveva fame, ma quasi per istinto entrò lo stesso in un locale, forse solo per riposarsi: aveva girato per tutta la città, senza uno scopo, e d'altronde non sapeva nemmeno perché vi si trovava.
La modernità della tavola calda stonava con l’antica via dove era collocata, ancora lastricata in pietra e fiancheggiata da bassi lampioni lavorati.
Dicendo di trovarsi a proprio agio avrebbe mentito: una rapida occhiata alle mense di legno chiaro gli mostrò una clientela tutt’altro che affabile... In un angolo discosto notò due ragazze che valeva la pena di osservare. Erano composte, e spesso sorridevano con un’espressione che deformava piacevolmente le loro labbra; decise di andarsi a sedere proprio laggiù, e con passo deciso cominciò il breve cammino. All’improvviso le ragazze avevano interrotto le loro discussioni: si erano fatte ormai molto vicine, poté distinguerne gli abiti, semplici, ma di una graziosa finezza che esaltava la loro femminilità, esuberante come la primavera, tinta di colori caldi e solari, giallo, rosso e arancio.
Alzarono il capo; lo videro sedersi lì accanto, poi, discrete, riabbassarono lo sguardo con una certa timidezza. Finirono di bere le gocce rimaste negli alti bicchieri azzurri; ripresero a parlare, a bassa voce, i capelli corti slanciavano la loro figura, ed ancor di più quando si alzarono in piedi. Dopo aver avvicinato le sedie al tavolo cominciarono a muoversi verso l'uscita; quando furono a qualche metro dal luogo dove erano sedute, la bruna si voltò verso il ragazzo con la precisa intenzione di guardarlo. I suoi occhi vibravano in un modo che non era quello di una ragazza che osservava un uomo, si trattava d'altro, come di chi provava pietà per qualcuno: riuscì a vederla bene, ed un istante bastò per imprimersi nella mente quei dischi castani pieni di angosciosa malinconia.
Se ne stette lì seduto a consumare qualcosa; sembrava che quella ragazza lo avesse già accusato e compatito, che tutti sapessero tranne lui, straniero.
Una bottiglia cadde per terra frantumandosi: mille cocci brillarono sotto il sole che penetrava con i suoi raggi all’interno del locale; il cameriere che ne era stato responsabile, al bancone, si affrettò subito a rimediare al danno chinandosi sul pavimento. Qualche vetro era arrivato fino al suo tavolo, ed un riflesso verde lo distolse dagli occhi tristi e profondi che aveva ancora davanti; si alzò, raccolse il piccolo pezzo color smeraldo e insieme ai soldi per il conto lo portò al proprietario chinato faticosamente sulle ginocchia. Si diresse verso l’uscita.
In strada dovette abbassare lo sguardo per abituarsi al sole: non poteva più girovagare in quel modo, non avrebbe combinato mai nulla, i soldi stavano per finire, ed il suo morale era a pezzi...
Come per incantesimo i chiari raggi solari stavano di nuovo lambendo il mare, verso l’orizzonte; si trovava ancora fra gli oscuri vicoli, a camminare senza meta, le ombre sempre più lunghe: la gente scompariva, mentre le prime stelle facevano capolino come impaurite flebili fiamme.
Non si sentiva sicuro, al contrario un timore prima soffocato stava esplodendo; aveva creduto di poterlo domare, ma invano: contro la sua volontà l’oscurità stava calando, e così gli ultimi barlumi di sicurezza. Il dedalo di vicoli pareva ora più che mai un luogo del non ritorno, dove le più pesanti paure riuscivano finalmente a rivelarsi. Era una premonizione, o forse un oscuro gioco della sorte, fatto sta che ogni rumore rimbombava nelle orecchie e non voleva più uscirne, attaccandosi alla sua testa come il rintoccare di centinaia di campane.
Non doveva essere lontana la serena camera dove si era ritrovato il giorno precedente, ma era impossibile rintracciarla, ora: tutto cambiava ogni secondo, la mente non aveva il tempo di ambientarsi, ed i suoi passi acceleravano, come per istinto; non voleva provare paura, ma di tanto in tanto non poteva fare a meno di voltarsi.
Il pomeriggio non era stato poi così lungo, in un batter di ciglia la luce era sparita, ed un manto di tristezza era piombato sulla città; era lì solo da due giorni, ma credeva ormai di conoscere alla perfezione le case, i vicoli, le persone... non riusciva a capire cosa gli rendesse tutto così maledettamente famigliare...
La morsa allo stomaco divenne penosa, si sentì di nuovo male, come poche ore addietro; era l’aria del posto a provocare un simile avvelenamento. Con la mano al ventre gli occhi si socchiusero, ma ora non c’era nessuno intorno pronto ad aiutarlo. Avrebbe voluto resistere. Una profonda fitta non glielo permise, e cadde a terra seminascosto nell’oscurità; restò conscio ancora per poco, tanto per emettere un flebile respiro affannoso... le percezioni stavano svanendo a poco a poco, l’oblio si avvicinava sotto forma di un terribile incubo, come quelli che si provano durante il delirio delle febbri. La sua malattia non era fisica, era provocata da chissà quali verità di cui non era a conoscenza, sul suo passato, sulla sua stessa persona...
Era svenuto, il respiro rallentò e divenne sempre più flebile; gli occhi, nascosti dalle palpebre abbassate, sussultavano, e le mani davano segni di vita tanto evidenti quanto tristi a vedersi su quel corpo. Qualcuno c’era a guardare il ragazzo; nell’ombra non aveva voluto farsi riconoscere, ma ora uscì allo scoperto e fece pochi passi verso ciò che sembrava un cadavere riverso. Si chinò, fissò il viso patito, non era ancora sicuro del proprio agire; in ginocchio, all’incrocio di due viottoli bui, si guardò intorno: non c’era traccia di gente indiscreta. Dolcemente adagiò una mano sotto il capo reclino del giovane, e con l’altra accarezzò la guancia già ruvida di una sottile barba. Lo chiamò per nome, ma non ottenne risposta, allora lo sollevò un po’ fino a metterlo seduto, sostenendolo da dietro, ma la reazione fu la stessa.
Senza pensarci due volte afferrò un braccio e se lo portò intorno al collo, poi, con notevole sforzo, riuscì a sollevarlo in piedi. La strada da fare non era molta: l’automobile era vicina, era là dove le strade si facevano larghe abbastanza per permetterne il passaggio; il peso che gravava sulle spalle era insopportabile, ma più ci pensava e più diminuiva di intensità. Superò le poche decine di metri necessarie per raggiungere la vettura: era ferma in un’ansa sterrata e polverosa, ai lati di un’abitazione in rovina; da lontano si sentivano gli ultimi rumori del porto, soffocati dal mare che borbottava alzandosi nella notte.
Aprì la portiera di destra con un semplice gesto e fece sedere il suo fardello: la testa rimase bassa senza dar segni di ripresa. La chiave scattò anche a sinistra, e finalmente il motore si avviò rombando. Passarono pochi minuti, erano già fuori da quel luogo maledetto: il conducente immise l’auto su di una larga strada che portava fuori, verso la campagna dell’entroterra, mentre il ragazzo dormiva sottratto al veleno della città, rappresentata solo più da luci che si allontanavano nell’oscurità. Pochi lampioni illuminavano la parte di collina che stavano percorrendo, a poca distanza dal mare: la loro luce accendeva ad intermittenza i volti dei giovani seduti in macchina. Al volante lei gettava rapide occhiate ai suoi capelli che scintillavano a tempo, come le creste delle onde che riflettevano la luce della luna: gli sfiorò una mano, fredda, come per riscaldarla ed infonderle sicurezza. Sperava che allontanandolo da laggiù si sarebbe sentito meglio, che si sarebbe risvegliato avendo in mente solo un lontano incubo, doloroso ma non reale.
Nello specchietto retrovisore apparivano solo più campi, ma ancora la situazione non migliorava: continuò a guidare, c’era un eterno silenzio che rendeva magici quegli attimi che trascorsero finché l’auto non si fermò.
Si erano allontanati di un paio di chilometri dal mare, e non c’era già più traccia di insediamenti umani. Solo una grande casa, antica ed immersa nel verde celato dalla notte. Uno stretto vialetto congiungeva la strada principale all’abitazione, e continuava ancora, andando a perdersi in giunchi e canneti che tradivano la presenza di un lago.
Scesa dall’auto prese una boccata d’aria e si sedette su di una roccia appiattita e infestata dall’erba: conosceva bene quel posto, ma lo stesso cominciò a contemplarli come se la presenza del ragazzo li rendesse migliori... Un leggero vento caldo scuoteva i radi cespugli che fiancheggiavano il cammino sterrato, ed il tenue ma battente ronzio dei grilli completava l’atmosfera estiva, su cui si affacciava una pallida luna ormai morente.
Sebbene fosse mezza nascosta dalla notte, riusciva a vedere sul volto del ragazzo un’espressione più serena: ormai sembrava solo semplicemente addormentato; non volle che si svegliasse sullo scomodo sedile dell’auto, per questo si alzò e con la stessa fatica di quando l’aveva fatto salire ora lo fece scendere. Adagiò il corpo a pochi metri dalla strada, lungo un declivio naturale che saliva in direzione della casa; dopo avergli appoggiato il capo sull’erba si sedette a fianco ed attese. Tutto taceva.
Infilò una mano nella tasca destra della giacca, e dopo aver trovato ciò che cercava ruppe il silenzio accendendosi una sigaretta: ogni volta che la portava alla bocca ed inspirava questa sfrigolava, inebriandola col fumo caldo che andava a mescolarsi con l’aria afosa ed umida che spirava dal mare. Fissò il tizzone rosso fuoco chiudendo prima uno poi l’altro occhio, osservando il piccolo cilindro di carta spostarsi a destra e a sinistra in un semplice gioco di prospettiva.
Era in tensione, si era accorta che le labbra del ragazzo stavano vibrando e che tutto il corpo stava dando segni di ripresa; non poteva sapere come avrebbe reagito, così rimase immobile finendo con ansia la sigaretta, guardandola di tanto in tanto come in preda ad un tic nervoso...
La prima sensazione fu di grande calore, poi sopravvenne il ricordo dell’accaduto. Alzò il busto e tastando il terreno con le due mani aperte si rese conto di essere su di un prato; solo in un secondo momento alzò gli occhi. Subito fece come per difendersi dall’ombra che si trovava a pochi metri da lui, poi la riconobbe, e si tranquillizzò. “Julia?”, domandò timidamente.
Il “sì” pronunciato dalle labbra di lei lo riempì di una strana ed intensa gioia che non gli fece ricordare neppure di chiedere spiegazioni; la ragazza si alzò invitandolo a fare altrettanto, poi, vedendolo ancora vacillante, lo aiutò, ed insieme si diressero verso l’ingresso dell’abitazione.
Il profumo della notte penetrava le narici dei due, mentre come vecchi amici avanzavano a piccoli e lenti passi: intontito dal profondo dolore appena passato si appoggiava al collo di lei, andando a sfiorare con i capelli il suo viso; avrebbe voluto evitarle la fatica, ma non ci riusciva, era debole, i piedi si trascinavano a stento, e l’altro braccio ciondolava alla sua sinistra come un peso morto... Una miriade di domande si accavallavano nella sua mente, la bocca, serrata in un’espressione di totale sconcerto, non riusciva a pronunciare nemmeno una parola; cercò di capire cosa stesse succedendo, perché quella donna lo emozionasse così tanto da fargli dimenticare le proprie pene, perché un solo sguardo avesse la capacità di stordirlo e di rasserenarlo allo stesso tempo senza che una frase intercorresse a darne una spiegazione! Il suo viso muto, il suo collo su cui egli appoggiava la mano spazzavano via ogni preoccupazione ed ogni sofferenza. Sentiva di avere con lei un rapporto profondo; straniero e lontano da casa era sicuro di aver finalmente trovato chi lo potesse aiutare, l’oggetto del suo incomprensibile viaggio, che tanto inutile e senza motivo gli era apparso fino ad allora.
Quei luoghi, da ostili quali erano apparsi, si stavano facendo più benevoli, pronti ad accettare anche un estraneo peccatore le cui colpe cominciavano a scorrere via rapide, sciolte e liberate da un fatto, ormai compiuto, naturale ed inspiegabile.
Quando aveva udito quella musica soffusa non aveva potuto fare a meno di desiderarla accanto a sé; la credeva lontana, ma non sapeva quanto fosse vicina... si ricordava bene il loro primo incontro: fulminante, silenzioso, si erano studiati in modo accurato, avevano tentato di scoprire le intenzioni dell’altro, e lui di certo non si era dimenticato di lei, né fra i vicoli della città né fra gli occhi della giovane ragazza della locanda...
Così ora erano là, sui gradini che portavano al grande portone d’ingresso fatto di legno, con due possenti serrature. A stento riuscirono a fare la breve rampa di scale, ed una volta giunti sulla sommità egli poté riposarsi contro il muro grigio; ansimante accennò un “grazie” che si dipinse sulle sue labbra tremanti per lo sforzo: lei rispose con un sorriso, quindi fece scivolare una mano nella tasca per trarne fuori un mazzo di chiavi. Aprì la serratura, la porta si mosse verso l’interno, e l’ultima luce lunare penetrò nella stanza buia e fredda. I due avanzarono con la stessa difficoltà di prima, ed una volta dentro Julia fece sedere il ragazzo su di una piccola poltrona, che una volta accesa la grande candela sciupata che si ergeva in mezzo ad un tavolo a tre gambe si presentò verde e consunta.
La casa era vecchissima: la luce non arrivava, e sulle scale che portavano al piano di sopra un drappo rosso copriva in parte due gradini rotti da chissà quanto tempo; la alte finestre erano nascoste da ricchi tendaggi scuri, ed il grande tavolo spadroneggiava al centro della sala. L’ambiente era spettrale.
Seduto in un angolo, con gli occhi rivolti verso alcuni quadri appesi disordinatamente qua e là, impolverati e quasi incomprensibili, non riusciva a concentrare lo sguardo su di lei: era in piedi, immersa nella luce fioca della candela, e lo fissava nella penombra che nascondeva in parte la sue pupille dilatate.
Non riusciva ancora a dargli una spiegazione per quanto aveva fatto, preferiva rimandare, così quando quello fu sul punto di aprir di nuovo bocca si limitò a soffiare sulla fiammella ed a rimanere immobile. Il vento, fuori, creava un rumore soffuso, lei sentiva il suo debole respiro, e chiuse gli occhi come per sognare; poi si allontanò, si diresse verso le scale, le raggiunse, e cominciò a salirle facendo perdere dietro di sé il lugubre scricchiolio del legno. L’altro rimase dov’era, col buio serrato davanti al proprio corpo, con l’anima scavata dalle lacrime.
Stette fermo tentando di captare fino all’ultimo il rumore dei passi, e solo quando questi divennero troppo distanti si lasciò andare; doveva essere molto tardi, la sua mente era ancora confusa: quell’amore lo spaventava, perdurava, solido, e demoliva la figura ancora viva dentro di sé del padre, che per un istante credette di non aver mai amato... Chi era quella ragazza? Un giusto compenso per qualcuno che non aveva mai provato un legame così forte, o la punizione per il suo comportamento freddo e discostato, giunta per fargli rimpiangere la miriade di altri affetti mancati?
Ora preferiva dimenticare il passato, magari crearsi un nuovo presente, per sfuggire perlomeno alle catene del rimorso: era egoista, e allora? Un motivo per il suo gesto doveva esserci ben stato, anche se non se lo ricordava, sicuramente!
Ma più pensava a questa scusa più non ci credeva: si sentiva cambiato, sentiva il proprio cuore arido e rattrappito, dal momento in cui la neve era diventata rossa di qualcosa di suo...
L’uomo non può essere così sprezzante, ma cosa poteva fare se gli mancava il ricordo? Era come incolpare qualcuno senza prove, col timore di far del male a se stesso o agli altri, a seconda dell' innocenza o della colpevolezza.
Non poteva dirsi innocente, ma neppure colpevole, forse solo vittima di chissà quale cieca forza; sicuro era che quel processo, di cui non sapeva le motivazioni e di cui forse mai le avrebbe sapute, doveva essere superato.
Col cuore in agitazione chiuse gli occhi ormai abituati all’oscurità, e si decise a non pensare più a nulla. Anche Julia era ormai coricata, vestita, in una grande stanza della casa che da molti anni ormai apparteneva alla sua famiglia; vedeva intorno a sé i quadri e gli antichi mobili intarsiati, ma non era questo ad arricchire la sua esistenza, ora: era al piano di sotto che sgorgava un’energia vitale, sconosciuta ai vili oggetti, che stava andando ad infrangere ogni ancor minima sua titubanza. Erano amati: dovevano amare; il saldo legame che legava le due esistenze, incrociatesi per caso nel veloce trascorrere degli eventi, non doveva più essere spezzato. Neppure il sonno, quando prese il sopravvento, riuscì a spegnere il desiderio, destinato solo a non venire più percepito dai sensi; scivolarono nello stesso istante in uno stato di estremo benessere, lontano dal male dei giorni passati, che si assopì con loro, battuto, ma purtroppo non vinto.
C
Alzò la testa di scatto ed un fascio di luce lo costrinse a ripararsi con una mano: davanti a lui, su di una sedia di legno scuro, più esile di quella in cui si trovava, riconobbe la figura di Julia; non era stato solo tutta la notte: anche se ormai era sveglio e la luce del mattino rendeva meno spettrale la casa, questo lo rincuorò.
Aveva uno scialle verde sulle spalle, e probabilmente era lì già da un bel po’: era addormentata, il viso era reclinato in avanti, assopito in una dolcissima espressione che la faceva sembrare una bambina. Non ebbe il coraggio di destarla, se ne stette lì, a guardarla mentre lento un orologio a pendolo scandiva il tempo, poi sempre con gli occhi fissi su di lei si alzò e percorse qualche metro fino alla porta: era socchiusa, qualcuno doveva averla già aperta, ma non ci fece caso, da fuori il sole appariva ormai alto, sopra una collina oltre le cui alture si trovava il mare, e con il suo calore sembrava poter dare la forza di fare qualsiasi cosa. Si limitò a guardarsi attorno, e finalmente si rese conto di come fosse quel luogo che ricordava solo con una vaga visione annebbiata: tutt’intorno, lontano dalla strada, il verde contrastava con il giallo bruciato del paesaggio estivo; una brezza del tutto nuova scuoteva pacata gli alberi bassi e fitti, sotto i quali procedeva con difficoltà un piccolo sentiero infestato dall’erba. Una natura così raggiante pareva parlargli di cose lontane: miriadi di pensieri invadevano quei posti, prati, boschi e rocce, come esili fantasmi scaturiti da una mente malinconica. Qualche nuvola contribuiva a rendere più variopinto il paesaggio, rovinato solo dall’automobile, sulla destra.
Pensò ad una musica celestiale, e musica fu; fuori e dentro il paradiso che stava tentando di crearsi inghiottì come un buco nero tutto ciò che lo circondava: era sicuro che quella giornata valesse molto, per lui.
Il suo corpo, che pur non andava di pari passo con i giochi danzanti della mente, avvertì un peso sulla spalla sinistra: Julia, in silenzio, senza farsi sentire, si era alzata, ed era arrivata fin lì per appoggiare un braccio su di lui, sicura di ricevere un valido appoggio.
Con un sorriso sulle labbra si girò lentamente, liberandosi dall’abbraccio: non trovò chi sperava di guardare in volto. Come se la scena si stesse ripetendo al rallentatore, una, due, tre volte dovette fissare la faccia del padre, pallida, cupa, dai tratti morbidi ed evanescenti. Un breve sussulto di stupore e paura, l’affanno profondo che schiacciò dall’interno i suoi polmoni lo costrinsero a far cedere le gambe; finì a terra, seduto: la natura era diventata malvagia. Dietro a lui Julia non poté capire cosa fosse successo, solo si chinò per aiutarlo, l’ennesima volta. Lo scosse, lo chiamò, ma non sembrava reagire, anzi, era paralizzato; teneva gli occhi chiusi, erano umidi, le guance erano sporche di terra, ed il marrone bruciato stonava con il resto del viso che a parte tutto appariva luminoso e riposato.
Per un secondo temette il peggio, poi, quando il corpo fu preso da un debole tremito, si tranquillizzò. Poco dopo tornò in sé, e quando si rese conto che quella figura era stata ricacciata nelle sue cellule nervose, abbracciò avidamente la ragazza per farsi forza. Smise di pensare, e si concentrò solo sul corpo di lei, là, in mezzo al verde ed al vento che spandeva e mescolava i capelli lisci e liberi. In quegli attimi ai due parve di conoscere il mistero della vita: ora il trascorrere del tempo poteva anche fermarsi, e la terra, solita a guerre e distruzioni, prostrarsi davanti alla loro unione, delicata come una rosa al primo sole primaverile.
Si sfogò su di lei, rigettò sulla donna tutto il suo soffrire, tutta la sua disperazione per aver compiuto qualcosa di terribile per cui rischiava di perdere la propria stessa identità mentale. Ogni volta sperava che quella schiavitù avesse fine, ma il petto continuava a ricevere pugnalate, dritte, giù fino a cuore, quando meno se lo aspettava. Rivisse il momento in cui in città le forze lo avevano abbandonato, lasciandolo nudo e spoglio su di una buia stradina anonima: il vibrare degli occhi, l’amaro sapore in bocca, il senso di calore che derivava il suo essere dal rosso, bollente calore che aveva tinto anche la gelida neve del nord. Cedevano le sue membra, ma soprattutto la sua testa: in vent’anni si era andata accumulando una strana sensazione di odio represso, esploso in unico attimo di cieca rabbia. Non gli era ancora comprensibile il motivo, mancava il ricordo, un buco copriva col vuoto la vera ragione dei suoi cattivi pensieri: e non lo sopportava, voleva essere padrone della propria mente, ma a conti fatti non era così.
La triste scena metteva in luce anche l’impotenza della ragazza, immobile; lo osservava e soffriva; non era bastato il suo intervento la sera precedente, il medicinale era entrato in un corpo già martoriato dalla malattia.
Lui non aveva la forza per guardarla, forse si vergognava: non poteva non fare nulla, in qualche modo doveva reagire, aveva ancora un briciolo di orgoglio nelle vene, non era un ragazzino malato privo di forze per alzare in alto la testa; si decise; “Dobbiamo andarcene da questo posto!”, disse con vigore alzandosi dritto in piedi.
A quelle parole Julia si fece attenta, sinceramente attratta dalla proposta di fuggire davanti ad un luogo dimostratosi così pericoloso. Ad un tratto, come se le forze perse fino ad allora fossero rientrate fino nell’ultima cellula dei loro corpi, erano pronti ad andarsene; la giornata cominciava adesso, si erano risvegliati da un incubo. Julia rientrò in casa sicura che l’altro la avrebbe seguita. Accadde così, al che la padrona di casa cominciò a parlare come se stesse per partire per una piacevole vacanza di riposo: “Non credo che ci serva molto”, disse scandagliando con gli occhi la grande sala. “Per i soldi non penso di avere problemi...”, continuò interrompendosi per cercare un po’ ovunque il denaro, in preda ad una fretta ingiustificata che si scontrò con le pacate parole del giovane sulla porta: “Ma come fai ad andartene? Immagino che tu non sia sola in città. Non posso costringerti ad abbandonare tutto, fra noi è stata una cosa così veloce, vedi, prima non sono sicuro di essere stato io a parlare, forse mi hai frainteso... non, non intendevo così in fretta...”. La voce divenne rotta ed insicura.
“Non ho nessuno che mi possa compiangere, qualche amico, mah..., niente di più, i miei... lasciamo stare, io voglio venire con te”, rispose: per la prima volta aveva espresso la seria volontà di rimanere con lui, tuttavia rimaneva un alone di mistero a circondare la sua vita e la sua persona, e questo la rendeva ancora più affascinante; pensandoci su non riuscì a trattenere un sorriso. Lei interpretò diversamente la sua reazione. Rientrò in casa trotterellando come una bambina.
In cuor suo aveva sperato fin dall’inizio che lei fosse sola, e non si preoccupava di nascondere a se stesso la punta di egoismo che quel pensiero portava con sé; finalmente era sicuro di voler partire; prima di ricominciare a vivere una vera vita rimaneva una sola cosa da fare, non semplice, e non poteva solo sperarlo, questa volta: doveva mettercela tutta per recuperare il ricordo, per far luce su quella che era stata la sua esistenza prima dell’incontro del giorno precedente. La sua colpa era inespiabile, solo la conoscenza dei minimi particolari, di quei dannati motivi o oscuri meccanismi che avevano regolato gli attimi del delitto potevano forse attenuarla.
In fondo si sentiva libero dalle ripercussioni della legge umana: nessuno sarebbe venuto a cercarlo in un luogo così lontano... la giustizia che lui voleva era un’altra... era lui che voleva perdonare se stesso...
Julia chiuse la porta a chiave; il ritorno alla realtà fu brusco come il colpo con cui il legno sbatté sordo contro il muro della casa.
Nessuno esitò più un momento, fecero incontrare gli occhi per l’ultima volta sui gradini di pietra. L’azzurro glaciale che sembrava aver preso il freddo dalle bianche distese da cui discendeva andava a rischiarare il suo animo lunare: il gelo dava vita ad un’evanescente fiamma bluastra che accendeva i due ragazzi, intrappolata ancora da una spessa corazza di ghiaccio sporco, nero per l’orrenda macchia di uno dei due.
Julia non sapeva nulla dell’orrore che aveva ricoperto la neve decine di ore prima, né in generale dei segreti del ragazzo, ma il suo subconscio era stato così penetrato dalla pur debole parvenza di poterli conoscere (era ovvio che quel ragazzo nascondesse qualcosa), che stava accelerando i passi per affrettarne il momento. Entrambi avevano tutta una vita da raccontare: era così poco tempo che attingevano ad una fonte di esperienze comuni…
D
La partenza fu improvvisa, salutata solo da una cornacchia appollaiata su di una betulla. L’auto percorse la stessa strada da cui era arrivata il giorno prima, ma in senso opposto, allontanandosi sempre di più dalla città; la terra verde aveva cambiato del tutto il paesaggio rendendolo più fresco e delicato. Le colline, lineari e squadrate, si succedevano innalzandosi su canali e fiumiciattoli che da lì a poco sarebbero sfociati in mare.
Tutto era accaduto così velocemente: la neve, le case, il verde... non poteva nascondere che temeva dovesse succedere qualcosa di sgradevole... il finestrino impolverato rifletteva il suo volto grazie al sole che vi batteva sopra: osservava il susseguirsi delle piante, il volo degli uccelli lontani, con uno sguardo che a sua volta rifletteva una spiegabilissima malinconia. Poteva essere felice, ma non ci riusciva. Era sicuro delle proprie azioni, ma non era soddisfatto. La soddisfazione non era cosa fatta per gli uomini.
L’apparire di un piccolo lago, deserto, catturò più di ogni altra cosa i suoi occhi; si girò verso Julia con un’espressione che sembrava volerla implorare, con gli occhi sgranati e vagamente languidi. Lei si fermò, proprio nel momento in cui lo specchio d’acqua era ormai vicinissimo alla strada.
“Vieni!”, fu la sua prima parola dopo quei pochi minuti di viaggio, “Voglio farti vedere ancora una cosa”; in piedi, sul ciglio della carreggiata, indicò uno stretto sentiero che dalla sponda opposta del lago sbucava, fra giunchi e sterpaglie, proprio lì a pochi metri da lei. Anche lui scese dall’auto: notò che solo la riva dove loro si trovavano era priva di vegetazione; sull’altro lato poteva scorgere un piccolo attracco di legno: legato c’era ancora qualche barchino fatiscente, in disuso da chissà quanti anni. Spingendo lo sguardo ancora più in là vide il sentiero perdersi oltre il lago: forse era lo stesso che aveva visto la sera prima, pensò. Voleva chiederlo, ma se ne dimenticò: la ragazza si era già incamminata, era meglio seguirla. Spirava il vento, e portava con sé un odore di alghe e di piante lacustri che stimolava l’olfatto; delle fragili onde increspavano le acque grigio-azzurre, facendo sbattere contro il minuscolo molo una delle barche. Sembrava il rintocco di un orologio.
Julia si era diretta verso la fonte di quel rumore, lui le stava sempre dietro: occorsero un paio di minuti per arrivare, poi lei si avvicinò ad una delle imbarcazioni e spostò una coperta che si trovava al suo interno; ne tirò fuori una bottiglia nera mezza vuota, quindi tornò da lui.
“Quando mi sentivo…", esitò, "…cioè ero sola venivo qui: mi sentivo subito meglio”.
Cosa significavano quelle parole? Non capiva: non avevano molto senso: e poi vedeva nei suoi occhi una tristezza antica, riportata in vita dal ricordo di quanto aveva detto...
Sembrava che avesse bisogno di aiuto, non parlava più; ad un tratto capì di essere stato molto presuntuoso a non averle mai chiesto nulla sulla sua vita, forse era questo, si era presentato come uno che aveva tutto da chiedere ma niente da offrire, forse doveva cominciare col porgere almeno le proprie orecchie agli esseri umani, non l’aveva mai fatto... ed in effetti dalla sua bocca non riuscì ad uscire che un goffo “Vuoi parlarmi di qualcosa?”, che però sembrò bastare.
Lei annuì con un cenno del capo.
Aveva ventiquattro anni.
Che pazzo! Non le aveva mai chiesto neanche l’età!
Da quindici era sola. Cominciò a singhiozzare, ma non stava piangendo. Sembrava più che altro un riflesso incondizionato quel singulto che ogni tanto spezzava una parola all’interno delle frasi. Il suo racconto procedeva in modo disordinato, blando a prima vista, eppure lo affascinava: notava una partecipazione di emozioni da parte di lei sempre più crescente, non pronunciava mai parole come gioia, amore, tristezza, ma l’intonazione della voce, lo sguardo, l’assenza di qualsiasi gesto, avevano in sé qualcosa di coinvolgente, di trascinante. Era la prima volta che la sentiva parlare così tanto, forse gli fece effetto, forse no, non sapeva bene cosa la rendesse incredibilmente capace di farsi ascoltare.
Sì, seguiva la storia della sua vita, il suo passato, ma era lontano, aveva vicina solo la melodia della sua voce: due ragazzi, un lago, la natura, vista da fuori la scena poteva sembrare idilliaca. Anche lui pensò che lo fosse.
“... quattro uomini in divisa...”, continuò lei dopo una breve pausa.
Quattro uomini in divisa: i tutori della legge: cosa c’entravano, si chiese; capì di aver seguito poco; due paia di uomini in divisa avevano ridestato la sua attenzione... ricominciò ad ascoltare con maggiore interesse.
Da bambina aveva sempre desiderato ricevere un elefantino di pezza, ma quello che le regalò una signora con gli occhiali, in un grande stanzone bianco, non riuscì a farla sorridere: non capiva cosa stesse succedendo, laggiù era pieno di uomini vestiti di blu, di telefoni rumorosi, senza alcuna attrattiva. Aveva nove anni, anzi, ancora per poco, eppure nessuno voleva spiegarle dove si trovassero i suoi genitori, e suo fratello.
Non li rivide più, da quel giorno; solo dopo parecchi mesi seppe che erano morti, solo quando si trovava in un’altra casa, con dei genitori che non erano i suoi. Abbracciava l’elefante di stoffa, la vita era cambiata a causa di un incidente, le dissero.
A diciotto anni se ne andò; appena ebbe la ragione per farlo tornò nella sua vera casa, e la ritrovò uguale a come l’aveva lasciata quando erano entrati gli agenti... al piano di sopra c’era ancora la culla del fratello, impolverata, e poi la sua stanza, con l’antico pianoforte che la madre suonava durante i giorni di pioggia. Ricordava con piacere l’acqua che gocciolava dalle grondaie con un suono metallico, e dentro le agili dita che a ritmo scandivano le musiche che avevano accompagnato la sua fanciullezza. Il padre aveva in braccio il fratello con il suo berrettino rosa, tranquillo, in quelle giornate di brutto tempo. Al piano lei vestiva di abiti lunghi, belli come il suo volto biondo che con dolci espressioni seguiva la musica. Stava in piedi ad ascoltarla, attratta soprattutto dallo strano pedale che veniva ripetutamente premuto... ora non si muoveva più, tutto era sparito, ed anche il piano era rotto, dava solo dei flebili e tetri singulti che ferivano il cuore.
Nei sei anni successivi aveva sempre lavorato, e con soddisfazione era riuscita a laurearsi in medicina all’università di una grande città dell’interno: attualmente prestava servizio nell’unico ospedale del suo paese, e la sua carriera procedeva bene, ma non era soddisfatta; amici, storie, e poi ancora lavoro: veniva spesso in quel luogo a leggere, ma sempre sola.
Forse prima o poi sarebbe partita lo stesso, per un motivo o per l’altro, fosse stato anche solo per non essere costretta a sopportare oltre la tristezza che le faceva ogni casa di quel luogo sul mare. Anche se i ricordi degli anni passati si stavano lentamente cancellando voleva andarsene... del padre ricordava la figura giovanile, sbarbata, gli abiti chiari, oppure i giochi che faceva con lei nei pomeriggi liberi. Poi la morte.
Si sentiva nata adulta, non aveva avuto una vera infanzia, o perlomeno, per fortuna o no, non ricordava quasi nulla di essa. Il resto del mondo non poteva capire questo.
Ascoltando tali parole egli comprese il perché della sicurezza dimostrata il giorno precedente: per sei lunghi anni non aveva avuto nessuno di veramente vicino; quella sua forza scaturiva da una grande precarietà di emozioni serene, era altera, e chiudendosi in se stessa creava un bozzolo impenetrabile che solo pochi sarebbero riusciti a scalfire, così da riportare la sua persona alla normale condizione di umana cautela e incertezza. Pareva che ora ciò potesse essere successo, era al limite del pianto, non doveva più tenere per sé, come scudo protettivo, le proprie pene.
Portava avanti il discorso con rapidità, con lo sguardo quasi assente; quando terminò, la bottiglia stretta nella mano destra cadde spandendo sull’erba un liquido scuro sciropposo. Parte del liquore rimase dentro, rotolando insieme al vetro dal leggero pendio verso l’acqua melmosa.
“Questo è tutto...”, volle concludere quando i cerchi concentrici si fecero troppo larghi e sottili per essere percepiti. Aveva terminato in pochi minuti, ed ora forse attendeva una reazione, proprio come quella che sperava di avere quando si trovava lì da sola. Le mani le vibravano, come se avesse freddo; cessarono il loro movimento solo quando furono ostacolate dal corpo del ragazzo, che adesso era lì. Una pelle chiara, rosata, appena imperlata di un timido sudore che si mescolava all’asciutta compostezza della peluria del polso, ne coprì un’altra che appariva d’ebano. Julia si sentì stringere in una morsa da cui volle uscire per vergogna; si alzò di scatto, credendo di essere seduta da un’eternità. Lasciò incredulo chi aveva tentato di rassicurarla.
Anche lui si mise in piedi, a pochi metri dall’acqua che rifletteva il sole coperto da sottili strati di nuvole. Non volle demordere, anche se nella sua inconsapevole giovinezza non poteva capire come si sentisse una donna ben più matura: aveva solo diciassette anni, pensava Julia, non aveva la possibilità, forse neanche il diritto di impegnarlo in un’amicizia così immortale... ma come fosse lei l’incosciente minorenne, invertendo le parti che parevano essersi formate, stava ferma aspettando che l’altro agisse. Viveva una situazione di stallo, voleva andare avanti ma si sentiva spinta verso l’indietro, poiché due opposti stimoli maturavano nella sua mente. Tremava, consapevole del brusco evolversi degli eventi che li avevano portati ad un legame solo apparentemente libero dal passato: ora quest’ultimo risorgeva, come sempre, con prepotenza, ponendo un freno alla libera affezione delle loro anime.
Ora come ora avrebbe potuto reagire in qualsiasi modo ad un’avventatezza del ragazzo, od anche soltanto ad una sua parola. Tutto era così facile da immaginare allora, ma quando in quei frangenti le sue speranze stavano realizzandosi sorgevano anche incubi dettati dal rimorso e dalla moralità.
Si innalzava sulla sponda del lago, con la sua bella figura coperta da un gilet nero. Quando lui la sfiorò il suo corpo reagì con una contrazione dei muscoli, per poi rilassarsi come sottoposto ad un piacevole massaggio. Le mani asciutte cominciarono a salire, sul collo, accarezzando con infinita delicatezza i capelli scuri che si alzavano per ricadere poi a ciocche sparse. La pelle si comprimeva leggera, e i muscoli assecondavano le dita che passavano su di loro; il suo petto venne a contatto con la schiena di Julia, le mani scivolarono sul suo stomaco ed il viso reclinò con gli occhi chiusi sulla spalla destra, a contatto con il cotone nero.
Non poté celare un certo imbarazzo, ma poi si lasciò vincere dai sensi, appoggiando sul volto di chi le era così vicino il palmo sinistro: sentì una barba sottilissima, le sensazioni che le fece provare le piacquero; si separò dall’abbraccio e si diresse verso il sentiero con ritrovata sicurezza, non sapendo se sarebbe stata seguita.
Fu così.
Dopo poco, per l'ennesima volta, entrambe le portiere scattarono e si richiusero.
“Io voglio che tu sia sicuro...”, disse Julia con voce rotta perché certa di stare per infrangere con delle semplici supposizioni una complicità che durava da quattro giorni. “Spero che non sia ingenuità a spingerti in questa storia: se così fosse, non so, in futuro potresti pentirtene, e magari non riusciresti neppure a tirarti indietro, davanti a me…e non voglio che sia così, davvero”, aggiunse toccando nervosamente le marce ed il volante.
“Penso di sapere a cosa vado incontro", ribattè, "e anche il motivo per cui lo faccio"; strizzò gli occhi, ci pensò un po' su e poi continuò con una frase che non sembrava avere alcuna attinenza con quanto detto prima: "Un giorno confido che anche tu possa capire insieme a me la condizione di chi ha commesso azioni vergognose, delle quali ancora non conosce neppure la causa...”.
“Che vuoi...”, provò a domandare Julia prima di essere interrotta dalle dita del ragazzo sulle sue labbra.
“Non è il momento, credimi”.
Come poteva l’animo di un ragazzo così giovane dimostrare una simile vastità, capace a dir poco di offuscare i suoi sette anni di differenza per raggiungere una maturità tanto incredibile?... maledisse di essere nata con quei sette anni di anticipo che ora creavano un’apparente difficoltà, almeno nella sua mente.
In verità non era maturo, no, non lo era affatto.
Accese il motore ancora caldo e l’auto partì lasciando dietro di sé un polverone che calò lentamente trasportato dal vento.
Le nuvole che prima velavano il cielo si erano addensate, e l’afa si stava facendo insopportabile allorché il sole raggiunse la posizione più alta.
Un’ora dopo già non si sentiva più la delicata brezza che spirava dal mare; le colline avevano lasciato il posto ad alture più imponenti, e la strada cominciava ad essere meno desolata e monotona.
Fecero sosta in un piccolo paese sorto intorno ad una pompa di benzina, e in un minuscolo bar consumarono un pranzo che superò comunque le aspettative.
“Dove ci stiamo dirigendo?”, chiese il ragazzo finendo di pulirsi le dita con un tovagliolo di carta, dando l’aspetto di essere sereno, ma sinceramente impaziente.
“A nord, a ***”, rispose Julia mentre osservava il barista che asciugando i bicchieri tendeva un po’ troppo l’orecchio.
Sentendo quel nome un brivido gli risalì la schiena, e la prima cosa a cui si rivolsero i suoi pensieri era che fosse troppo vicino alla sua terra: aveva giurato da troppo poco tempo di non tornarvi, non avrebbe resistito così prossimo alle sue case, così vicino al peccato che solo la lontananza ancora poteva respingere. Si sentiva morire, la sua testa era così presa da quello scenario disarmante che il bar scomparve in un vortice bianco che lo riportò sulla neve immacolata delle montagne...
Era inginocchiato, spessi fiocchi bianchi ricoprivano il suo corpo in un silenzio che neppure lui con la propria voce riusciva a rompere: imprigionato in una campana di vetro non poteva gridare, perché le parole gli si soffocavano in gola, e alzando lo sguardo al cielo la vista si annebbiava in un cadere infinito di gelo. Quando si voltò, una terribile scossa psichica lo fece cadere a terra; chi era quell’uomo in piedi a pochi metri da lui, e perché fingeva di non vederlo e camminava spaventato guardandosi intorno? Urlò ancora, ma l’effetto fu lo stesso: la neve che inghiottiva corrodeva le sue corde vocali, e solo gli occhi lo legavano al mondo circostante. Vide l’uomo cadere, provò un lancinante dolore di pietà; non si rialzava, abbattuto da chissà quale forza che da dietro lo aveva colpito. Il bosco che circondava la piccola radura sembrò spezzarsi e piombare addosso ai due, che stesi per terra erano stati ricoperti in fretta dal manto bianco. Alcuni uccelli mormorarono, e ad un tratto il vetro si ruppe in milioni di pezzi che si unirono a ricomporre le caratteristiche del locale su cui aveva ancora lo sguardo puntato. Guardò il barista, ma non era lui l’uomo dell’allucinazione. Erano passati pochi secondi.
“Andiamocene!”, disse ad alta voce a Julia, che lo seguì stranita dopo aver pagato.
Il suo passato doveva risolversi per forza, ora; e solo lassù poteva scoprirne la realtà: decise di non dire nulla a Julia, ma di andare con lei nel posto che si era prefissata di raggiungere. Dio doveva aiutarlo, e a Dio pensò per il resto del viaggio.
L’auto sfrecciò sulla strada per tutto il giorno: dentro, poche parole che rimbombavano tra i finestrini riempiendo i momenti più noiosi; qualche casa compariva, a destra e a sinistra, ma per la maggior parte il paesaggio era monotono: aumentavano gli alberi e i boschi, ma il verde pallido creava una patina opaca e priva di sfumature. Contribuiva al grigiore della natura il cielo, che dalla mattina non aveva smesso di cambiare in peggio, e che dava ormai l’impressione di scatenare tempesta. Un tuono in lontananza distolse lo sguardo del passeggero, imbambolato davanti alle mani che tenevano con leggera fermezza il volante, sempre fermo, a causa della regolare direzione del percorso.
Laggiù, a nord, il cielo assumeva tinte ancora più cupe e minacciose: nubi gonfie si accavallavano a formare incredibili forme... l’Olimpo si scatenava, gli dei erano irrequieti, provocati dall’uomo che a loro non credeva più. In quel momento Julia interruppe il silenzio citando una frase che in un simile frangente pareva assumere un particolare significato: “Gli dei disdegnano le nostre famiglie mortali, non accettano più che la luce del giorno li tocchi...”. Sconcertato, folgorato da una frase che sembrava essere nata direttamente dai propri pensieri, gli stessi di pochi secondi prima, riuscì solo a balbettare: “Cosa significa?”.
“Oh, niente, una frase... deve essere un ricordo di scuola...”, rispose pronta.
La semplicità con cui pronunciò quelle parole ed i movimenti delle sue labbra lo fecero sorridere. Era meraviglioso il taglio degli occhi di Julia, alto ed un po’ orientale, e poi il castano delle sopracciglia, e dell’iride. “Beh, non ci crederai ma anch’io stavo pensando alla stessa cosa...”. Abbassò lo sguardo con timidezza.
“Bene, ci intendiamo!”, disse lei cambiando marcia a causa di una leggera curva a sinistra; a dire il vero si aspettava una reazione più entusiasta, ma mettendo a tacere i propri desideri si fece bastare quelle poche parole.
Si stavano dirigendo là dove la notte sostituiva il sole in pieno giorno: la luce accecante di poche ore prima stava velocemente svanendo per lasciare spazio ad una cupa atmosfera; solo i loro volti restavano luminosi.
Quando scese la sera decisero di fermarsi; non importava dove, non avevano preferenze, erano solo troppo stanchi per proseguire senza prima riposarsi, e troppo preoccupati per la pioggia che iniziava a cadere. In fondo avevano tempo. Un motel con una luminosa insegna rossa e gialla poteva andare benissimo: posteggiarono la macchina e dopo pochi metri sotto l’acqua furono dentro. Entrando sporcarono un tappetino nero posto in una grande stanza in legno rifinita con bordi e scorrimano dorati: un vecchietto che sembrava non essere neppure vivo riceveva i clienti a quell’ora tarda della sera. “Ha ancora libero qualcosa o è già tutto occupato?”, chiese Julia ad alta voce temendo che il vecchio non ci sentisse bene.
L’ometto, con la sua divisa verde scuro, controllò rapidamente, e poi (era ancora buono d’orecchie) rispose a tono: “Sì, i camionisti non si sono presi tutto: però è rimasta solo una doppia...”. Da dietro al bancone scandagliò i due dalla testa ai piedi. “Allora?”, disse con un sorriso. “Va benissimo la doppia, spenderemo di meno”.
Quello segnò la richiesta sul registro, mentre Julia, dopo aver parlato, chiese conferma al ragazzo che distratto si stava guardando attorno. Senza troppa attenzione fece un cenno di assenso, sorridendo al vecchio che secondo procedura chiese una firma ad entrambi. Non avevano bagagli, raggiunsero la camera seguendo le indicazioni del padrone che scomparve attraverso una porticina privata scusandosi di non poterli accompagnare.
Il posto gli ricordava la locanda dove aveva dormito due giorni prima, ma era strano, gli infondeva una sorta di claustrofobica angoscia che gli accelerava il respiro. Da un momento all’altro si aspettava di veder uscire la ragazza dagli occhi verdi, magari da una delle dodici stanze dell’albergo, ma tutte le porte, allineate su di una sola parete, erano chiuse, compresa la loro, la settima; il padrone si era scordato di consegnare loro la chiave, cosicché Julia si offrì di andarla a ritirare.
Il corridoio era immerso in una discreta oscurità, e solo una piccola luce verdastra illuminava la fine delle scale che salivano fin lì al primo piano; fermo, con le braccia conserte, ad un certo punto sentì una voce maschile; allorché si girò cercando di non badarci, ma non potè fare a meno di ascoltare i mormorii provenienti dalla camera accanto: un uomo, robusto a quanto poteva sembrare dal timbro della voce, bisbigliava qualcosa ad un'altra persona, ma non così piano da non farsi sentire da lui che aspettava fuori. Non gli interessavano quelle parole, ma soltanto sapere di non essere solo, lassù; voltò la testa dal muro guardando rassicurato il punto dove Julia era scomparsa.
Gli occhi si stavano abituando al buio, e percepirono una figura che aveva appena salito l’ultimo gradino; con un sorriso si accostò alla porta sicuro che fosse lei di ritorno con la chiave, ma nel momento in cui vide più distintamente un uomo, in religioso silenzio, si rese conto di essersi sbagliato. Davanti a lui, a pochi metri, c’era una persona di mezza età dai capelli brizzolati, forse un tempo neri come i suoi occhi. Il calore che emanava il suo sguardo lo catturava, ed egli se ne stette imbambolato mentre la mente lavorava cercando di capire se già lo conoscesse: almeno, quella era stata la sua prima impressione.
Pensava, pensava, ma non si rendeva conto di esserci già arrivato…tergiversava, tentava di trovare un’altra soluzione, diversa, più semplice: ingannava se stesso, e così riuscì a resistere per qualche misero secondo, poi esplose.
Ad un tratto sentì un freddo pungente, la sensazione di rivivere un’esperienza già provata, ed allora gli venne in mente tutto: era in quel mondo fittizio che lo aveva visto, in mezzo alla neve della sua immaginazione, in piedi, come ora, e poi a terra, disteso. Un dolore infinito, un passato cancellato che suscitava in lui solo una profonda pietà verso quell’uomo che non aveva mai visto nella vita reale: eppure possedeva qualcosa di familiare, di terribilmente vicino alla sua persona; potesse essere lui la soluzione al tormento della sua vita…Se lo chiedeva ma quello stava ritto senza pronunciar parola: bisognava sbloccare la situazione, altrimenti come poteva scoprirlo?
“Chi sei?”, disse allora lui pur sapendo di non star parlando con nessuno. Ricevette solo un gesto: dal collo pallido si sfilò un pendente che luccicava luminoso nel buio corridoio.
Lo osservò e subito gli venne una gran voglia di piangere; riconobbe lo stesso oggetto che aveva lui intorno al collo, una catena d’argento che terminava in un ciondolo con sopra incise due lettere che non era mai riuscito ad interpretare. Perché era in mano sua? Era lo stesso, o forse uno del tutto simile?… Glielo aveva dato il padre, l’aveva trovato per caso in mezzo alla neve, gli aveva detto così, ora cosa c'entrava?! All’inizio non voleva portarlo con sé, ma poi fu attratto da esso in modo inspiegabile, tanto che dal giorno del suo nono compleanno non se l’era mai più tolto: chissà, di chi era. Credette di impazzire nell’istante in cui quello se lo sfilò e glielo offrì: cercando a tutti costi di resistere sporse il braccio e tentò di prendere l’oggetto, ma il suo slancio verso avanti andò a vuoto, colpendo un’immagine che aveva visto solo la sua mente. Cadde per terra in ginocchio ed il mormorio che di tanto in tanto aveva continuato a percepire cessò di colpo. Restò con i pugni piantati sul pavimento, con lo sguardo basso tanto da poter vedere i piccoli boccoli di polvere volare in balìa della leggera corrente che spirava lungo tutto il piano.
In quel mentre arrivò Julia con la chiave, sollevata in segno di vittoria come dopo una battaglia durata quei due o tre minuti. Resasi conto della situazione subito abbassò il braccio esultante e s’infilò le chiavi in tasca, poi corse dal ragazzo ed infine si chinò per accertarsi delle sue condizioni. “Sto bene, non ti preoccupare!”, accennò con un sorriso. Lei si fece più tranquilla; “Possibile che appena io mi allontani un minuto a te capiti qualcosa?”, disse in tono scherzoso. Il sorriso si allargò, e riuscì a rimetterlo in piedi dopo una poderosa spinta.
Finalmente entrarono nella camera, ma si resero conto con disappunto dell’assenza della corrente elettrica. “Dovevamo aspettarcelo con la miseria che abbiamo pagato”. Non se la ebbero più di tanto, anche perché trovarono sull’unico tavolino, tastando al buio con cautela, una lampada a petrolio, ancora carica del liquido nero ed oleoso.
Stanchi com’erano optarono per andare subito a dormire: uno dei due letti era posto vicino ad una finestra; l’altro giaceva a destra dell’ingresso, come per dare già al primo colpo d’occhio una sensazione di povero squallore. Con la sua coperta marrone e ruvida dava infatti un’idea di patetica rustichezza.
Dopo essersi di nuovo guardati in segno di reciproco compatimento si prepararono e spensero la luce, mentre le lancette segnavano l’una passata.
Fermo nel giaciglio, non poi così scomodo come poteva apparire, riusciva a guardare fuori del piccolo oblò privo di tende o imposte: credeva di essere in prigione lì dentro, chiuso fra quattro mura che sembravano restringersi nel buio. All’esterno continuava a piovere un’acqua spessa, con intermittenti rovesci di grandine che almeno dovevano sciogliere le cupe nuvole che aveva visto per tutto il giorno.
Dopo pochi minuti non sentì più il caldo muoversi delle coperte nell’altro letto: Julia doveva essersi addormentata, smettendo così di girarsi nervosamente. Anch’egli scivolò in un leggero sonno, cullato dagli scrosci di pioggia a cui ormai si era assuefatto. Non ricordò nulla di quel breve torpore quando si destò due ore dopo: come d’incanto si ritrovò con gli occhi aperti, fissi di nuovo sulla piccola apertura, identica a come l’aveva lasciata. Stava per sgombrare la mente per la seconda volta, e ripiombare col viso teso verso l’alto nel guanciale quando uno scricchiolio di legno calpestato attrasse la sua attenzione. Non vedeva nulla, ma si rese conto di un fresco spiffero che arrivava dalla finestra; si accorse di essersi sbagliato, prima: qualcuno l’aveva aperta e poi accostata. Non gli dispiaceva in quell’afa un po’ d’aria sulla pelle, che lentamente s’intrideva d’umidità a causa dell’acqua che fuori stava ancora colando. Lo spiffero profumava di bagnato, riempiva le narici dell’odore di terra e di erba zuppa, e liberava dallo stato di torpore dovuto all’improvviso risveglio.
Si mise seduto, per pochi secondi, e poi si diresse verso l’unico punto di contatto con l’esterno; oltre il vetro scorgeva appena qualche dettaglio della natura circostante, sul retro dell’albergo correva un ruscello notevolmente ingranditosi che si andava a perdere nei campi deserti, ancora sotto il benefico influsso del primo acquazzone estivo.
Mentre tentava di portare il suo sguardo oltre uno spelacchiato cipresso, sentì da dietro la voce di Julia: “Come mai in piedi?”. Sobbalzò per lo spavento, non se lo aspettava davvero, ma poi si girò in cerca della figura di chi aveva appena parlato.
A mala pena scorgeva, dall’altra parte della stanza, la sedia su cui avevano appoggiato gli abiti: seduta c’era Julia, vicina al letto disfatto, davanti alla porta; il buco della serratura brillava a causa della tenue luce del corridoio.
Aveva indosso il reggiseno: i pantaloni nel buio avevano perso il colore, ed apparivano come un’unica massa scura piantata sul pavimento.
Avvicinandosi la figura di Julia appariva sempre più chiara: aveva le mani appoggiate sui braccioli della vecchia sedia di legno dipinto, e il corpo ben saldo contro lo schienale. “Avevo caldo… non riuscivo a dormire”, disse a bassa voce come per non farsi sentire. “Spero di non averti svegliato…”.
“Come si fa a dormire con quest’acqua…?”, rispose mentendo, fissando il volto ancora immerso in un grigiore impenetrabile. Si inginocchiò, fino a portare il viso vicino alle gambe di Julia; si appoggiò ad esse, e cercò di chiudere gli occhi: sul collo scoperto il pendente scivolò sempre più in basso, si arrestò. Julia lo vide: cercò di osservarlo meglio reclinando il capo, poi lo sfilò sfiorando le spalle ed i capelli del ragazzo. Quando lo ebbe tra le mani lo esaminò più da vicino. Notò le due lettere e si fece pensierosa, tanto che il suo sguardo quasi assente indusse l’altro ad intervenire: “Cosa c’è? Cosa hai visto?”.
“Niente, solo che queste iniziali…I.G.…mi ricordano mio padre”, disse passandosi una mano fra i capelli, “Beh, una sciocchezza…mi piace, comunque”. Gli ridiede l’oggetto, e stava per ritirare il braccio quando se lo sentì stringere: non oppose resistenza, attese solo che succedesse qualcosa.
“Perché stiamo andando in quel posto? Che c’è da fare? E poi, credi che là qualcuno ci possa aiutare davvero?”, chiese il ragazzo forzando la presa. Lei gli pettinò con la mano, come una sorella maggiore, un ciuffo di capelli reclinato sulla fronte, poi rispose: “Vedi, lassù i miei hanno…avevano una casetta: credevo fosse meglio vivere in un posto più lontano e più piccolo di quella casa… ma se a te non va…”, la voce si faceva sempre più rotta, mentre l’altro ascoltava di fronte a lei con una certa impazienza.
“Ti prego, non chiedermene il motivo, non sono ancora in grado di spiegartelo, ma non penso di riuscire a vivere in quel luogo”, finì per dire senza averci troppo pensato su. Si alzò in piedi.
Julia si portò una mano sulle labbra, poi cominciò a muoverla nell’aria, davanti a sé, come in cerca di un’ispirazione. Non sapeva cosa dire, cosa aggiungere; gli fece segno di avvicinarsi, e accostò il proprio volto al suo, tanto che i capelli si sfiorarono: “Non preoccuparti…”, disse a due centimetri dalla sua bocca.
E
Al mattino si svegliarono con il sole negli occhi: lui con il capo immerso nel suo corpo, come un bambino, lei con una gamba anchilosata ed un peso non indifferente addosso.
Anche il ragazzo si alzò intorpidito, e notò subito nella calda atmosfera mattutina un gioco di ombre che andavano e venivano, prodotte da un sole che ancora a fatica sbucava qua e là dalle nuvole bianche. Mentre Julia osservava ogni suo movimento, si rivestì e corse a sciacquarsi il viso nel misero lavandino vicino al letto in cui aveva dormito le poche ore di quella notte: pur dopo tutto appariva fresco, riposato, con una pelle timidamente arrossata per il calore che non era abituata a sopportare. Non si asciugò, lasciando colare sulla camicia bianca le gocce che scivolavano scomposte dalle guance, dove una barba sottile le tratteneva come per riceverne refrigerio. Julia continuava ad osservarlo, i suoi modi di fare, la camicia ancora fuori dei pantaloni, i capelli spettinati, l’espressione che assunse quando si accorse di non trovare una delle due scarpe. "E’ qui!”, disse porgendogli la scarpa nascosta sotto la sedia. “Bisogna che mi prepari anch’io…”, continuò con fatica alzandosi dalla scomoda posizione.
Lui era pronto, sollevò le coperte alla meglio e finì di abbottonarsi i polsini. Dopo pochi minuti erano di sotto: credevano di essere stati i primi, ma non era così, incontrarono infatti più di sei uomini nel cortile dell’albergo, intenti a preparare i loro camion o a parlare animosamente fra di loro.
C’era anche il vecchio padrone, che fece appena in tempo a vederli con la coda dell’occhio ed a salutarli con un sorriso mezzo rovinato.
Era curioso, ma non riconobbe nel gruppo la voce sentita la sera prima come un bisbiglio da un pertugio di una camera; guardandosi ancora intorno e sperando nella fortuna entrò in macchina, bagnata e profumata di pioggia.
Si sentiva un po’ a disagio, perché aveva l’impressione di aver sentito parlare anche di loro nei discorsi rubati fino ad allora ai clienti del posto. Ma in fondo credette di non doverci badare, anche quando vide dal finestrino un grosso uomo con una sigaretta in bocca e un cappellino da benzinaio giallo e blu: stava gracchiando qualcosa nella sua direzione, scoppiando infine in una risata demente seguita a ruota da un risolino dell’unica donna che aveva vicino.
Guardò Julia, che anche se avrebbe voluto non riuscì a tirar fuori una sola parola: partì e pigiò sull’acceleratore fino a quando non vide più nulla nello specchietto retrovisore. Lui non pensava fosse stato giusto fuggire via così, evitare la realtà ancora una volta per poi accettarla passato il pericolo: ora, si era trattato di una piccolezza, ma non è ben da queste che poi nascono le cosa più grandi? Aveva fame, era arrabbiato con lei, e non smetteva di pensare a quel che era appena successo. Per la prima volta nella settimana che stava per chiudersi si sentì in imbarazzo vicino alla ragazza di cui non sapeva che poche cose: cercava nella sua espressione il sorriso offertogli in quegli afosi campi di grano prossimi al mare, ma ne traeva solo una bocca dura e stretta sui denti. Era un momento di gelo, una semplice fase di egoismo passeggero utile per capire quello che era accaduto; lui la sua risposta l’aveva già trovata, ora doveva solo aspettare che anche Julia la trovasse perché la situazione tornasse alla normalità.
“Scusami…”, tentò di dire dopo qualche chilometro Julia, a bassa voce, come se qualcun altro potesse sentirla. Sul suo volto tornò il sorriso quando capì che il ragazzo aveva già da tempo accettato le sue scuse: strinse con più forza le marce dell’automobile da cui di rado staccava la mano destra.
La tensione sparì come una bolla di sapone, ed il paesaggio ricominciò a suscitare un certo interesse nei due non più attenti a come l’altro potesse reagire ad ogni proprio minimo gesto. Per breve tempo avevano cercato di adottare quelli che dessero più fastidio, ma ora non se lo ricordavano più.
Julia estrasse dal cruscotto le solite sigarette, ne accese una mentre cominciò a raccontare i particolari che di proposito aveva omesso il giorno prima. La mano dovette separarsi dall’asta delle marce. Mentre il sole era tornato a vincere sulle nubi egli venne a sapere, per esempio, e non gli sembrò per nulla una sottigliezza, che aveva imparato a suonare il pianoforte da una donna amica del padre che viveva giù in città; non si vantava di essere particolarmente brava, ma mentre che discorreva e i bordi delle labbra premevano sulle guance per articolare dei sorrisi, avrebbe desiderato ascoltarla, in qualsiasi luogo.
Julia contava di arrivare in serata almeno nella capitale, la città che si ergeva in una grossa piana sotto le montagne; di lì si dipartivano tutti gli impulsi vitali della regione, e si edificavano i pilastri dell’economia e del commercio i cui introiti correvano poi verso la costa e verso l’interno per essere amplificati. Era probabile che nei due intensi giorni di treno egli fosse già passato da quelle parti, ma avendo dormito gran parte del tempo non se ne era accorto. Durante la giornata non riuscì a riconoscere neppure un particolare del luogo, che si stava facendo sempre più fresco e lunare.
Percorsero in auto più di seicento chilometri, si fermavano saltuariamente per fare il pieno di benzina o per mettere qualcosa sotto i denti in paesi che via via si facevano più importanti e popolati. Ad osservare la gente apparsa un po’ dovunque si girasse rammentò il porto di ***, dove però le persone sembravano più disponibili e calde; l’ambiente era cambiato in modo così veloce, chi vi era immerso aveva ora la fretta di chi è inseguito e deve scappare sfruttando ogni minimo istante. Il perché magari non lo sapeva, lo muoveva l’inconscio, e così, anche se avrebbe potuto agire con più calma, correva senza troppo indugiare a guardarsi attorno. Anche loro due sembravano essersi adeguati a quel modo di agire.
Solo quando cominciarono ad apparire le indicazioni stradali per la capitale egli, come se avesse già tagliato il traguardo, propose di prendersela con più calma. La sera stava incalzando il giorno, sempre più vicina a mano a mano che si spingevano a nord, ed un piccolo torrente iniziò a costeggiare la strada, che spesso lo scavalcava con ponti di pietra bassi e stretti. Avevano abbandonato la via principale a favore di piste secondarie per non dover entrare in città e subito riuscirne spinti dall’afflusso impetuoso delle auto. La natura non cedeva ancora alla tipica configurazione urbana: qualche luce sottolineata dal buio incombente brillava lontana, ma in quell’epico tramonto discendente verso i monti che facevano del posto una valle larga ed imponente, stuzzicava più i sensi l’acqua dolce perfettamente udibile, quieta e gorgogliante, il vento che aveva spazzato il cielo, la luna che già prolungava le sagome nere dei picchi. Tutto fuorché l’uomo sembrava esserci a pochi chilometri di distanza. Per quella notte decisero di non penetrare nella civiltà, ma di stare ancora ad ascoltare i consigli dell’aria aperta e sconfinata, come avevano sinora fatto. Attirava troppo il silenzio rotto dal gracidare delle rane nel torrente, ed il pensiero di doverlo condividere con l’altro, trasgredire ad ogni regola e dormire all’aperto.
Le due luci bianche dei fari da poco accesi si spensero, e l’auto si fermò dove la strada diveniva abbastanza larga da creare una piccola piazzetta erbosa e sterrata, a poche centinaia di metri da un casolare diroccato.
Julia staccò le mani dal volante e se le portò dietro la nuca, desiderosa di riposarsi dopo il lungo viaggio e di ammirare senza altre preoccupazioni il paesaggio. Scese dal veicolo e si appoggiò ad esso; si strinse nelle spalle perché non si aspettava il brusco abbassamento di temperatura a cui erano andati incontro. Stette ferma per qualche minuto, mentre lui rovistava nel cruscotto in cerca di un po’ di musica. Julia sentì il rumore e si sporse dentro, poi, capendo le sue intenzioni, rientrò sbattendo il portello. Notò però che non aveva bisogno di aiuto, ormai sembrava conoscere ogni più piccola parte dell’auto, compresa l’autoradio. Inserì una cassetta arancione e premette un paio di pulsanti, poi tornò composto contro lo schienale con le mani in tasca.
“Vedo che ci sai fare”, concluse lei mettendosi comoda e riassaporando il tepore che aveva perduto là fuori. La voce fu smorzata dalla musica che cominciò a diffondersi dalla scatola magica: stette immobile per riconoscere il pezzo e poi spense la lucina gialla sopra le loro teste.
"No, che fai?!", la ammonì l'altro.
"…Non avrai paura spero?", rispose trattenendogli la mano che stava tentando di riaccendere il piccolo occhio di plastica.
Fu così che rinunciò, e ricadde nel silenzio illuminato solo più dalle prime flebili stelle. Nulla stuzzicava i sensi, solo la potente musica, non ostacolata da altre immagini, suoni, fragranze o sensazioni tattili riempiva la mente distendendola e cullandola con la sua dolce nenia. Ogni singola nota riportava alla vita un'idea, una reazione di gioia, un brivido, oppure soltanto un sorriso.
Di fianco a lui in quegli istanti c'era uno spirito con cui fondersi, con cui vivere attimi di rilassata seppur incredibile felicità. Sentiva il suo respiro vicino, sempre più vicino alla tempia, e la camicetta bianca elettrizzava già la sua pelle, scura ed ingannevole a vedersi nell'oscurità. Era paralizzato, la musica non terminava mai, si ripeteva con lo stesso ritornello: si sentì premere su una gamba, chiuse gli occhi e dalla fronte un ricciolo di capelli lo solleticò alzato lentamente dal dito della ragazza. Non credeva che l'avrebbe fatto, ma cominciò a sudare freddo, rendendo ancora più forte quell'afflato tiepido che ormai sentiva vicino alla guancia; si inumidì le labbra asciutte e si fece piccolo sul sedile, sempre cieco verso quanto stava accadendo, ma con le orecchie ben aperte sulle note al ritmo delle quali Julia sembrava muoversi.
Mise in avanti una mano, come per destinare ad un altro senso ciò che non aveva la forza di affidare alla vista, colpì la camicia e lì si fermò, per poi salire fino al collo, a pochi centimetri sporto verso il suo. Accarezzò i capelli dietro al capo: riusciva a sentirli, neri e scorrevoli come finissima sabbia scaldata al sole; la sensazione era la stessa, mutò solo quando spostò la mano sulla guancia. Era fresca, liscia.
Pensava a come fossero soli nel raggio di qualche chilometro, e che solamente una rara automobile illuminava di tanto in tanto le palpebre chiuse dei suoi occhi, fermi e sempre più agitati. Il freddo che provava non capiva se arrivasse dal finestrino socchiuso o se invece dall'idea che a poche dita di distanza dalla sua bocca ci fosse quella di Julia. La mano continuava a premere sulla coscia ormai dolente, ma quest'ultima rimaneva ancora ferma, sottilmente compiaciuta del dolore provato.
Il respiro di Julia, cadenzato, sferrava le sue labbra raffreddandone il sottile umidore; il dorso della mano ancora appoggiato sulla guancia venne a contatto con la parte bassa del proprio viso, i piedi si irrigidirono e gli occhi si spalancarono. Julia fu colpita fino all'ansia dall'azzurro che neppure la notte riusciva a coprire: abbassò lo sguardo, erano due cristalli d'acqua che riflettevano la sua immagine, lucidi e vividi di fiammate blu che colpivano dritte l'immaginazione. Le pupille non si muovevano minimamente, piantate sulle altre prossime ormai tanto da sentirne gli impulsi nervosi diretti al cervello; i due nasi si sfiorarono e non si toccarono, la seconda mano di lei puntò sull'altra gamba, dando la definitiva spinta in avanti.
Egli vide ancora, distogliendo nel buio gli occhi da dove li aveva tenuti fissi da quando li aveva riaperti, le labbra sottili di Julia leggermente aperte; abbassò il mento insieme ad essi, ma di scatto si ritrovò gradevolmente stretto contro lo schienale.
Da quando la lucina si era spenta non erano passati che pochi secondi.
Provò una nuova sensazione di bagnato sulle labbra che intanto al richiudersi degli occhi si erano un poco aperte. Anche lì vi entrò la musica, riempiendogli la bocca, mentre tutto il corpo della ragazza premeva contro il suo. Petto a petto, labbra a labbra, ventre a ventre, solo le mani si muovevano in direzioni differenti: quelle di Julia sempre piantate sui jeans, le sue in imbarazzante ed affannosa ricerca di un sostegno, pur essendo in perfetto equilibrio sul sedile.
Al termine del brano proveniente dal cruscotto Julia si separò con un veloce movimento, mollando ovunque la presa e ripiombando con tutto il suo peso dalla propria parte. Egli non osò muoversi, né girare tantomeno la testa: era rimasto con la bocca aperta, sempre più asciutta ed ammutolita. Deglutì, e sgranò gli occhi verso il vetro dell'auto.
Questa volta Julia fu rapida, ma con la solita grazia gli si avvicinò, fino a sedersi sullo stesso sedile, accavallando una gamba sopra la sua. Reclinò il capo e si appoggiò su di lui, con le braccia raggruppate. Egli non poté reagire, e si addormentò con quel peso sul corpo e con l'autoradio che andò avanti tutta la notte, sulla piazzola sempre più abbandonata e sovrastata da stelle.
Il nuovo contatto della bocca con la realtà fu diverso da quello con cui l'aveva abbandonata qualche ora prima: svegliandosi si ritrovò le labbra impastate, piene di un sapore amaro che non vide l'ora di scacciare. Julia era scivolata sulle sue ginocchia, e dovette spostarla con fatica per potersi muovere. Scese dall'auto e con piacere percepì sulla pelle l'aria frizzante che da giorni non sentiva più di buon mattino; avanzò ciondolante verso il torrente e lì, specchiandosi, si risciacquò il viso, poi si riassettò i vestiti e si massaggiò la schiena indolenzita.
Mentre si allungava con le braccia sporte al cielo si sentì chiamare da dietro, si voltò e vide Julia venirgli incontro. Dopo aver attraversato un sentierino fra l'erba piena di brina si sedette noncurante del terreno bagnato, con in volto un'espressione di velata sfida, come volesse raggiungere qualcosa se pur a conoscenza della difficoltà.
Con gli occhi bassi, intenta a lisciarsi le pieghe della camicetta, si mise a parlare: "Voglio sapere qualcosa della tua vita", disse in tono serio alzando di scatto lo sguardo.
"Ho diciassette anni, e puoi ben immaginarti come sia stata la mia vita, no?", rispose a tono a quella sfida lanciata. Sicuro che l'altra tacesse si girò e fece per tornare indietro, ma il brusco "No!" di lei lo fece sussultare, ed indietreggiò: continuava a darle le spalle, sperando di non sbagliare una seconda volta nel credere che non avrebbe proseguito.
"Alla tua età non dovresti essere solo. Qualcosa di diverso dagli altri ragazzi devi averlo per forza. Quando dormi sembra che il tuo sonno sia disturbato da qualcosa che non riesco ancora dannatamente a capire…l'altra sera in camera parlavi di quel pendente: perché non mi vuoi dire cos'è, cosa c'entra con la tua vita…chi sei tu? Ho otto anni più di te, e credo di poter capire le tue preoccupazioni e i tuoi sbagli…".
Egli riprese a camminare, "Mi dispiace, ma prima devo capirli io…".
F
Erano all'incirca le nove quando le guglie dell'imponente cattedrale gotica sfrecciarono nel cielo biancheggiando d'avorio.
La costruzione si ergeva nel cuore della metropoli, e a mano a mano che l'auto si infiltrava fra le vie periferiche scompariva coperta dalle case più basse. Gli edifici non avevano nulla a che fare con la tranquilla e soleggiata campagna litorale, con le sue piccole abitazioni recintate o i lunghi viali alberati costeggiati dai prati verdi e gialli; tutto sembrava più grande di qualche misura, monumentale: i colonnati e i portici erano anneriti da anni di inquinamento, ed i balconi più antichi spadroneggiavano con la loro solennità. Il moderno non si armonizzava con quello che doveva essere stato l'illustre ed esuberante passato; una targa qua e là sulle costruzioni più significative, i vecchi lampioni riverniciati di blu fosforescente e le fermate degli autobus asimmetriche con tanto di paline rosse. Epoche e periodi si erano accavallati per dare origine ad un ambiente fuori dalla portata umana, eppure migliaia di persone si agitavano brulicando, frenetici e disinteressati mucchi di gente che rispecchiavano già i tipici caratteri nordici.
Dopo essere riusciti a districarsi da una lunga coda, svoltarono a sinistra, dove il flusso pareva interrompersi. Un cartello indicava il centro storico, ed entrambi decisero di non farsi sfuggire l'occasione di fare almeno un giro fino al duomo; lasciarono l'auto in un parcheggio semideserto e si incamminarono su di un acciottolato irregolare di antica fattura. I pochi negozi di antiquariato erano serrati con pesanti saracinesche, ed un odore di polvere si alzava di tanto in tanto dalle viuzze laterali.
Giunti in piazza videro ergersi al centro come una montagna inespugnabile la chiesa, scura e fuligginosa nella parte bassa e più chiara verso l'alto, per terminare con pinnacoli bianchi a circa centocinquanta metri di altezza. Una decina di turisti stava testando la sua solidità accarezzando il marmo freddo e opaco vicino all'enorme portale di legno; si entrava all'interno da un piccolo ingresso secondario, situato sul retro, stretto e schiacciato contro la parete di un edificio senza finestre.
Julia entrò senza dire niente, mentre l'altro ancora si stava girando attorno per capire da dove provenisse una cadenzata musica che sibilava fra i numerosi scolatoi dalle forme più strane. Quando abbassò la testa catturato da una vena di colore più chiaro sulla facciata capì di essere rimasto solo, e non senza qualche indugio fece i pochi passi che lo separavano dalla porta. Quest'ultima girò sui cardini con un cigolio sinistro, mentre la musica aumentava in un crescendo di inarrestabile frenesia. Si fermò ancora nella piccola anticamera, tappezzata di avvisi e orari, respirò, e come dovesse rimanere in apnea entrò nella vastissima navata centrale; non c'era anima viva, ed un organo con centinaia di canne districava quella musica per tutta la struttura della chiesa. Fece pochi passi, poi alzò gli occhi per osservare archi e strutture marmoree piegarsi morbidi sotto l'influsso allucinogeno delle note che si attaccavano ai suoi pensieri. Contrariamente a quanto aveva creduto dal di fuori, quell'ambiente era confortante, rasserenante, forse solo perché vuoto infondeva un'irruente gioia, un misto di piacere e di crescente emozione per le centinaia di tonnellate di pietre che incombevano da ogni lato.
Il cuore cominciò a battergli più forte nel turbinoso vorticare di sensazioni provenienti dalla vista e dall'udito: le pareti decorate si fondevano con l'assordante musica, l'immagine diventava suono ed il suono immagine, come se lì dentro i sensi stessi perdessero la propria valenza. Il contatto con il marmo ingiallito del pavimento gli provocò una scossa di gelo lungo tutto il braccio, mentre le dita dei piedi sembravano penetrarlo come quando le piccole pietre rientrano nelle suole di gomma comprimendole.
Con il corpo era ben piantato al suolo, ma con la mente viaggiava tanto vicino alla materia da entrare a farne parte; gli occhi, fissi nel punto dove due archi confluivano sul corrispettivo pilastro, vibrarono ed ingigantirono l'immagine, che cominciò a pulsare sdoppiandosi e muovendosi in cerchio. Nella breve frazione di tempo in cui tutto ciò accadde amò quell'ambiente; sentiva vicini gli uomini che l'avevano costruito, e Dio…Dio: quando al suo interno risuonarono queste tre lettere provò il desiderio di sedersi, trovò una panca e fece cadere il corpo, e solo per un attimo puntò verso il grande crocefisso dorato sopra l'altare, poi all'improvviso la voce di Julia rimbombò dietro le sue spalle: "Veramente spettacolare!", disse con lo sguardo verso la decorazione dorata di una colonna.
Egli si voltò appoggiando i gomiti sullo schienale della panca, fece un lieve gesto di assenso, anche se lei non stava osservando, e si alzò. A causa della musica non aveva sentito alla perfezione le parole di Julia, ma aveva capito a sufficienza per avere la certezza che il posto le fosse piaciuto.
Le si avvicinò con le mani in tasca, e per la prima volta si accorse degli abbondanti cinque centimetri con cui lo superava in altezza: strano che non lo avesse mai notato, o forse era lei che aveva fatto in modo che non se ne rendesse conto? Solo ora che stava lì in piedi, ferma e prolungata verso l'alto per cogliere il più piccolo particolare della decorazione, mostrava interamente tutta la sua figura; il collo metteva a dura prova i tendini, che si innalzavano sotto la pelle come pieghe su un abito di seta. Le spalle erano distese, e le braccia, dopo un leggero inarcamento centrale, poggiavano sugli stretti fianchi, dove i pantaloni restavano impercettibilmente schiacciati a causa del sottile sudore delle mani abbronzate.
Gli aveva parlato pochi secondi prima, ma quando le appoggiò una mano sulla vita sussultò, girando e abbassando di colpo la testa. "Oh, scusa…", disse quando lo riconobbe, mostrando sul viso un certo qual imbarazzo. Si fregò le mani come una bambino sgridato e cambiò argomento, cominciando a parlare di quel che aveva appena visto. Era strano, ma ogni tanto aveva l'impressione che Julia fosse in soggezione: insomma, quasi sempre la vedeva sicura di sé, ma in qualche caso, spinta da chissà quale meccanismo, si irrigidiva, come il giorno prima in auto, ed allora reagiva col silenzio o con strani cambiamenti di discorso. Più passava il tempo e più avrebbe dovuto conoscerla bene, ma sempre trovava un aspetto imprevisto nella sua personalità di cui forse neanche lei era del tutto a conoscenza.
Magari Julia pensava lo stesso di lui, o forse no; magari anche Julia non gli aveva detto tutto della sua vita. Che stupido…era lui a nascondere tutto, come poteva pretendere che lei gli rivelasse ogni più piccolo particolare!
Scosse il capo mentre la ragazza stava ancora finendo di parlare: gli dispiacque di non averla ascoltata, credette di prenderla in giro a fissarla così, pensando ad altro, però non gli chiese di ripetere, anzi fece un mezzo sorriso che sembrò riaprire lo spirito affannato di lei, la quale con ogni probabilità non aveva dato molta importanza alle proprie parole.
Nella chiesa entrarono i turisti che avevano visto fuori; si fecero il segno della croce e cominciarono sempre attaccati a dirigersi verso una delle quattro cappelle, con l'aria imbambolata e persa. I due si lanciarono un'occhiata di intesa ed uscirono: sembrò un altro mondo la città; abituati ormai a quel fragoroso interno si sentirono spaesati nel vuoto e nel silenzio della piazza. Pareva che ora tutti potessero ascoltare le loro parole, anche se non si vedeva anima viva e solo una fontanella gorgogliava allegra.
Si era fatto mezzogiorno, ed il sole, velato e freddo, non ricordava per nulla l'astro ardente dei giorni passati. Mentre tornavano all'auto notarono che i bar e i ristoranti erano stati aperti, e per non perdere tempo per strada decisero di fermarsi in uno dei locali, pur essendo presto e la fame poca.
Per la prima volta dopo tanto tempo non gli dispiacque entrare fra quattro pareti calde ed accoglienti: l'aria fuori era pungente, ed anche se la sua pelle era abituata a temperature ben più rigide, provava un certo fastidio, dopo tutto il caldo della costa. Come in strada anche l'interno era quasi vuoto; oltre ai due camerieri al bancone solo un ragazzo sedeva ad un tavolo con davanti del cibo ed una bibita. Alzò gli occhi quando sentì la voce di Julia ordinare il poco che avevano intenzione di prendere, vide i due, e tornò a fissare il cibo dopo essersi messo in bocca un pezzo di pane.
Andarono ad aspettare al tavolo più vicino, e quando arrivò il cameriere col necessario cominciarono a pranzare. Il pasto caldo scivolava giù più facilmente del previsto, creando un piacevole senso di benessere che né l'uno né l'altra vollero rovinare con l'acqua ghiacciata che traboccava dai bicchieri. Dopo aver dato l'ultima forchettata gli cadde l'occhio sul ragazzo che aveva di fianco a non più di due metri: notò la barba incolta, più fitta intorno alle labbra, e lo zigomo che di profilo appariva alto e pronunciato; ad un tratto quello si voltò, i due sguardi si incrociarono per un millesimo di secondo, poi il primo, rosso per l'imbarazzo, rientrò a fissare Julia che intanto, terminato il proprio impegno, aveva appena alzato gli occhi dal piatto. Con la bocca chiusa accigliò il viso, non cogliendo il motivo dell'espressione tanto confusa di chi aveva davanti. "Cosa succede?", chiese timidamente per non aggravare la situazione, non sapendo che si trattava invece solo di una sciocchezza. "Niente, niente…", disse lui con voce sempre più impacciata, "Andiamo pure, se abbiamo finito".
"Beh, se hai fretta va bene", ribatté Julia alzandosi in piedi.
Egli non volle neanche tentare di scusarsi, ma zitto zitto la seguì fino all'uscita dopo averla vista posare il denaro ed una consistente mancia sul tavolo. Salutarono e tornarono per le fredde vie.
Venti minuti dopo erano già fuori dalla città; sapevano che da quel giorno il sole non sarebbe più tramontato, ed egli provò un senso di piacere pensando che da ora in poi non sarebbe stato più lui lo spaesato forestiero.
G
Giunsero in vista della loro meta parecchie ore dopo, ma ciò non contava nulla considerando che ormai giorno e notte non scandivano più il passare del tempo; potevano avere a disposizione dieci minuti come un'intera giornata, e in gran parte era il gelo a spingerli avanti fino alle prime case dai tetti innevati. Julia non nascose gesti di stupore, ammettendo di non ricordare nulla di quell'unica volta che era stata lì: aveva ancora in mente le montagne, ma la loro vista così imponente non si aspettava di ritrovarsela davanti come in un immenso teatro naturale.
La scena era occupata dai ghiacciai che si incanalavano fra le insenature e fra le vallate rocciose, e dalle foreste pietrificate dal freddo, dove solo le punte degli alberi più alti mostravano il loro cupo verde perenne; tutto il paesaggio assomigliava in modo impressionante ai suoi luoghi, il fiume dall'acqua grigia densa e pastosa, la piccola ferrovia a cremagliera che si inerpicava sulle pendici della vallata, solo il paese era diverso, più grande e moderno, con due chiese di massicci blocchi bianchi ed un'antenna televisiva che doveva aver portato un po' di progresso nelle menti dei pescatori della zona.
L'auto procedeva a passo d'uomo sulla strada lastricata di ghiaccio, ed egli poté così vedere con la coda dell'occhio, su di un cartello, il nome di uno dei picchi a forma di becco proprio davanti a lui; era il vecchio ***, o perlomeno la parete opposta a quella della valle natia. Non riconobbe su di essa i tre pennacchi sui quali per ultimi il sole batteva d'inverno, ma lo stesso una profonda malinconia lo prese nel rivederlo ancora una volta: al di là della catena c'erano le sue case, la sua abitazione, il corpo del…; se lo rivide davanti, col volto sprofondato nella neve che continuava a scendere, livido, fermo, come se nessuno si fosse accorto del suo giacere eterno.
Nell'aria trasportata dal vento aveva la sensazione di poter sentire l'odore del miele coltivato sopra la sua terra, dolce, fluido, degli stessi fiori su cui ora era riverso suo padre…il profumo si tramutò in olezzo immondo di cadavere, e con un conato di vomito si sporse dal finestrino in cerca di aria. Il freddo intenso lo fece tornare in sé, ed inspirò il gelo con tanta avidità da perdere, per la temperatura, la sensibilità al naso arrossato.
Gli occhi socchiusi e doloranti fissavano il bosco, misteriosamente attratti dal tranquillo timore che circonfondeva.
"Fèrmati!", disse bruscamente a Julia, la quale, prendendolo come un ordine, si bloccò in mezzo alla carreggiata.
"Cosa succede, non siamo ancora arrivati…", reagì dopo un attimo di silenzio. Di tutta risposta l'altro spalancò la portiera e schizzò fuori; scavalcò la protezione sul ciglio della strada e corse verso gli alberi attraverso una distesa di neve fresca e profonda. I suoi piedi affondavano, ma con un enorme sforzo riusciva ogni volta a ritirarli su e così ad andare avanti a fatica, senza ascoltare Julia che da dietro gli urlava di fermarsi.
In preda ad una crisi, come in un sogno che non sembrava terminare arrancava senza cedere; ormai i piedi gli bruciavano, ed i muscoli dei polpacci gli provocavano fitte dolorose, ma non voleva fermarsi per così poco ed esporsi alla vergogna del cielo. Non aveva meta, solo ideali a cui aggrapparsi per risolvere i casi della propria vita. Si stava sfogando in un paesaggio che come il suo ubriacava l'anima già satura di vino, un liquido scuro, simile al sangue versato da un animale morto.
Aveva l'impressione di non muoversi di un centimetro, di saltare solamente e creare un buco largo e profondo dove sprofondare, dove essere ricoperto dalla prossima nevicata. E magari se lo stava anche augurando. Si ricordava ancora la folle corsa, il delirio che aveva accompagnato i suoi gesti ma non il suo ricordo; ora era così, provava lo stesso male, zigzagando tra i pini in una radura dove la neve si faceva più bassa.
Aveva paura che il cuore gli scoppiasse per la fatica ed il dolore che lo avevano spinto fin lì; all'improvviso una scarica di odio silenziò la natura quand'egli cadde con i pugni in avanti, all'ombra di un abete. Ansimando abbatté una mano sul suolo con forza, versando tre lacrime calde che cominciarono a sciogliere la neve sporca di terriccio. La mente, capace di infondergli in corpo laceranti sensazioni come quella, ora stava passando in rassegna tutti gli argomenti che poteva trovare contro il padre, alla ricerca di almeno uno valido da proporre come giustificazione; cominciò a provare disprezzo verso tutte le sue dimostrazioni di severità, a non volere più scuse per tutte le volte che aveva ostacolato il suo modo di essere. Agiva per malvagità, per odio, che raggiunse il culmine quando un giorno gli disse la verità sulla sua esistenza, la rivelazione. Forse per questo la molla era scattata: i muscoli tesi fino allo spasimo non avevano più potuto e voluto sopportare oltre, ed avevano reagito nel modo più orribile, vibrando un colpo decisivo, mortale.
Quando l'arma era caduta cadde anche la sua voglia di ricordare quanto successo; un blocco gli attanagliò la mente, un blocco che fu destinato a sciogliersi a poco a poco in seguito a devastanti esperienze dovute al mondo esterno. I suoi mali, i suoi incubi erano causati dalla memoria che tentava di tornare, e che ora alfine, alla vista della valle, era violentemente esplosa.
"Sì! Ho fatto bene!", urlò a gran voce con la testa alta versi i rami più bassi dell'abete. Un senso di liberazione pervase le sue membra a quelle parole: chi aveva ucciso non era chi credeva…meritava di morire.
"Si!", si diffuse come l'ululato di un lupo per tutto il bosco, rimbombando ed amplificandosi nelle orecchie di lui che non sentiva il freddo intenso alle ginocchia ed alle mani.
Da dietro, stanca ed affannata, arrivò Julia; "Ssss…", disse per prima cosa coprendo con una mano la sua bocca ancora impastata da quel monosillabo. Accarezzò poi i capelli bagnati e massaggiandogli la schiena accostò le labbra calde sulla sua guancia destra: con gli occhi chiusi continuò a rincuorarlo, e l'altro si tranquillizzò.
"Cosa ti prende, eh?", sussurrò Julia con la bocca ancora ostacolata sul suo viso, convinta quasi di avere a che fare con un bambino. Lui alzò la testa di colpo ed abbracciò la ragazza. "Ho capito, capisci?".
"No", rispose scuotendo il capo amareggiata per la propria impotenza.
"…capisci?", continuò l'insopportabile cantilena con sguardo perso ed imperscrutabile, con occhi che penetravano il mondo squarciando il sottile velo dell'apparenza. Finalmente si era spinto oltre l'illusione delle proprie convinzioni, ora era libero di capire azioni e pensieri di una parte della sua vita.
Sorrise guardando il cielo; "Cos'è questa sensazione che mi riempie il cuore di felicità e di angoscia?", chiese senza un vero destinatario.
"Può essere l'amore…", azzardò Julia con cautela, di certo non sicura che l'altro la stesse ascoltando. Quasi con sorpresa si sentì dare risposta, "No!…tu devi sapere, ora!".
"Che cosa?".
"Quello che successe il giorno della mia fuga da questi luoghi".
Julia aggrottò la fronte: restò stupita al sentire che egli proveniva da una regione così settentrionale; ovvero, il suo aspetto non dava proprio a vedere la sue origini, e poi pensò di essere stata una stupida a non avergli mai chiesto da dove venisse. Con questa convinzione si alzò in piedi, sbattendosi i pantaloni pieni di neve.
L'altro la seguì con gli occhi ancora rossi, dopodiché si mise a camminare molto lentamente; Julia gli tenne dietro.
Cominciò a parlare con le gambe ancora indolenzite "Io non ho mai conosciuto davvero mio padre, sai?", disse come scocciato di dover dare un doloroso ma necessario resoconto. Julia cercò in tutti i modi le parole per rispondere; "Credevo che fosse tua madre ad essere…".
Fu interrotta da una risata, acida quanto falsa; "Mia madre!…quella che credevo fosse mia madre non deve essere neanche esistita! Nulla di più facile!".
"Io non ti capisco…", disse lei, assalita dallo sconforto.
Era incredibile come in quei pochi minuti cambiasse espressione ed intonazione così tante volte: ora sembrava malvagio, privo di ogni emozione, gelido espositore dei fatti.
"Non ho più il cuore puro: ho amato la morte", continuò, "Ho fatto del male, e ora non posso tirarmi indietro".
Dopo una pausa servita per mordersi il labbro inferiore cambiò faccia: si rasserenò di colpo, poi si rattristò, sempre sotto gli occhi increduli di Julia.
"Ma è stato lui a spingermi", disse quasi balbettando, "Mi aveva mentito fin dall'inizio, su tutto, su ogni cosa!". Si portò una mano sulla fronte e ricominciò a singhiozzare, senza però che le parole venissero smorzate: "Quel pendente che tu hai notato l'altra sera…", e finalmente parve che il suo discorso dovesse avere un destinatario, "Me lo diede lui come presunto ricordo della sua famiglia: solo pochi giorni fa, oddio sembrano anni, mi ha rivelato la verità. Le due lettere stanno per il nome e il cognome del mio vero padre, l'ultimo suo ricordo quando me ne separai a pochi mesi…ed è stato lui ad ucciderlo, sì, lui!".
Un silenzio pieno di rabbia rese ancora più teso l'ambiente, che da un momento all'altro sembrava poter esplodere; Julia non l'aveva mai visto tanto sicuro del suo odio: camminava rigido, con i pugni chiusi, girando la testa in cerca di qualcosa d'inesistente.
Nel frattempo erano giunti in una radura; il resto del bosco non era fitto, ma qui gli alberi si allontanavano per lasciare spazio ad un teatro dove si stava allestendo la scena.
Si fermò al centro, vicino ad una roccia che sbucava dalla neve, grigia e ricoperta dai licheni. Era come se conoscesse il posto: guardava senza indugio dei punti precisi, come per darsi delle coordinate, e annuiva forse neppure rendendosene conto; l'espressione era particolare, vedeva qualcosa che Julia non poteva e non aveva ragione di vedere.
Anche lei si fermò, a pochi passi, e cominciò a parlare ricucendo il discorso: "Tu stai sognando! Come puoi dire una cosa del genere…". Avrebbe voluto continuare, ma si accorse che l'altro non la stava più ad ascoltare: stava vivendo una scena tutta sua, forse di un dramma.
Sapeva di star rivivendo l'esperienza già occorsa in quel locale, ma ora era tutto vero, sentiva il freddo sulla pelle, il dolore alle gambe, e si aspettava allora di rivedere l'uomo, la sua sofferenza, la sua caduta…e la propria angoscia paralizzante.
Eccolo, tra gli alberi, al margine della radura: lo svolgersi dell'azione pareva più lento; ne approfittò per guardare in volto l'uomo, chino e curvo.
Perplesso, ma soddisfatto per i pezzi del mosaico che cominciavano a combaciare, riconobbe per la seconda volta la persona del motel, ma la sua fierezza e la sua compostezza, come di un uomo dai doveri gravosi, adesso erano scomparse, lasciando il posto ad un decadimento fisico penoso ed inarrestabile.
Doveva essere successo tutto in brevissimo tempo.
All'improvviso arrivò il colpo definitivo, devastante.
Sì, doveva essere accaduto proprio così, glielo aveva raccontato lui, non aveva avuto alcuna pietà per l'uomo e tantomeno per la moglie, la sua vera madre… A sangue freddo aveva ucciso prima lui e poi lei col fucile da caccia che la sua dannata mentalità da povero montanaro gli faceva sempre portare appresso, anche lontano da casa.
Ma poi con che razza di sentimentalismo, o di vergogna mascherata da benevola compassione era riuscito a prendere con sé il bambino, ad allevarlo e a tenerlo all'oscuro di tutto? Forse non sospettava dell'esistenza del suo futuro figlio, ma quando i capelli della donna smisero di muoversi ed aderirono al suolo creando un tappeto di lunghi intrecci castani, allora sentì qualcosa provenire dall'auto della coppia, un gemito che ora egli sperava solo se lo fosse impresso nell'anima per l'eternità a suggello della propria infamia.
Lo ferivano la spudoratezza e la noncuranza con le quali gli aveva riferito questa storia del passato: pareva che il tutto non lo riguardasse, non prestava attenzione ai particolari, e delineava ogni cosa a grandi linee come se non lo interessasse o fosse solo il resoconto di un avvenimento come tanti altri.
Del raccapricciante racconto ricordava poche parole scolpite nel marmo con stentoreo vigore, poche sentenze che distrussero il suo modo di vivere nell'arco di pochi secondi. Deglutiva a stento per la rabbia e le lacrime trattenute con sforzo immane; le mani, incapaci di stare ferme e sussultanti per l'eccitazione si gettarono sul banco degli attrezzi, proprio quando il loro proprietario aveva voltato le spalle, concluso il penoso ricordo. Ora stava in silenzio, magari convinto nella sua inimmaginabile protervia di ricevere comprensione.
No, non avrebbe più ricevuto nulla di simile, né affetto né tantomeno il perdono; le dita del ragazzo si strinsero attorno all'impugnatura del maledetto coltello: quest'ultimo si sfilò dolcemente con un sottile rumore metallico, ed egli assaporò il gusto del ferro, pesante, pronto a servirlo in ogni impresa. Per la prima volta ebbe in mano un'arma col preciso scopo di servirsene per offendere, la tensione saliva, e gli occhi sgranati fissavano la schiena di quello che era stato loro padre per diciassette anni.
Le gambe tremanti si irrigidirono, il passato gli turbinò davanti in una ricerca furiosa ed inconscia di un qualsiasi motivo utile per rinunciare allo sconsiderato gesto. L'anima razionale tentò per l'ultima volta di avere il sopravvento su quella istintiva, ma invano: senza alcuna ragione apparente gli sovvenne la figura materna che il 'padre' aveva inventato, ma tanto cara alla sua infanzia ed alle sue preghiere; anch'essa era sparita, l'uomo che aveva davanti aveva ucciso tre persone, una delle quali in quegl'istanti.
Non trattenne oltre le lacrime; appena sentì bagnata una delle guance agì, spronato dall'odio al suo apice.
Fu rapidissimo, il pugnale si conficcò fra le scapole, l'uomo cadde fulminato, insieme alla capacità di ragionare dell'omicida. Corse via, libero.
D'un tratto tornò al presente, completamente rinsavito dalle fumose ossessioni della memoria che era riaffiorata. Davanti a lui c'era Julia, impegnata a studiare quale sarebbe stata la sua prossima mossa; si era accorta che l'altro era tornato alla realtà, perché stupito si era guardato intorno per rendersi conto di dove fosse.
Julia gli fermò il volto: "Ehi, sono qui…", azzardò.
Dopo averla guardata la vide e la riconobbe. Si aprì in un sorriso; "Si!", disse abbracciando la ragazza che non fu colta alla sprovvista: e con passione lo strinse al proprio petto come per proteggerlo. Aveva capito poco di ciò che era successo, ma non dovette aspettare oltre, dato che questi cominciò a narrarle la propria storia.
In breve tempo venne a sapere tutto: la morte dei genitori per mano dell'uomo che si era spacciato per suo padre, l'uccisione di quest'ultimo, la perdita della memoria.
"Mi dispiace…", riuscì a dire attonita e stupita dalla tranquillità con cui ora egli parlava dei fatti che tanto dovevano averlo distrutto in passato e poco prima di quel momento.
Nessun dolore soprattutto provava verso la persona con cui aveva vissuto diciassette anni; si sfogava, sì, ma con punte solo di rabbia, e non con un logico rimorso per chi in fondo aveva amato, ed a lungo. Una ferocia incomprensibile, probabilmente lo avrebbe ucciso di nuovo, nelle stesse condizioni, e senza neppure tanto esitare.
Julia fu felice di quella strana confessione, perché comprese quanta fiducia avesse egli in lei; tanto male le aveva fatto la risposta che ricevette la mattina stesse quanto ora provava gioia per aver capito il suo significato: non aveva detto quelle parole per mancanza di fede nei suoi confronti, ma perché davvero non sapeva cosa dirle della propria vita, ancora avvolta nel mistero e ricca di particolari da chiarire.
In lui l'ira ora stava calando, era sicuro di avere finalmente in pugno la situazione, la verità, per quanto terribile e più spaventosa di quanto avesse immaginato.
Nei giorni passati il cuore era stretto in una morsa incontrollabile, che pulsava, allentandosi o stringendosi in base al peso del ricordo; ora era stato schiacciato da un masso, ma almeno era rinato, più forte e pronto a sostenere il dolore che confidava in quel giorno fosse veramente terminato.
Riuscì a rialzarsi senza il minimo senso di vertigine, tanto che Julia si stupì di non doverlo aiutare in alcun modo; si incamminò perché voleva farla finita con quel posto. Partirono.
PARTE SECONDA
A
Era solo sull'auto che sfrecciava per le stradine di campagna, vicino all'alta scogliera a picco sul mare. Era notte, ed aveva capito che quello dei mesi addietro non era stato l'ultimo dolore; piangeva per se stesso, per Julia che non avrebbe più rivisto, e con più rabbia per l'uomo che aveva ucciso e per cui ora aveva ritrovato l'amore, un poco d'amore.
Perché anche allora, lassù, il suo ricordo aveva sbagliato? Perché mentì spudoratamente, fino alla fine, fino ad ora, sconfitto dall'assedio delle parole di chi era sicuro di aver ragione? Le lacrime gli annebbiavano la vista, si passava la mano sulle guance, mentre fuori la luna irrompeva in tutto il suo splendore, in una notte tersa e stellata. Il parapetto di volta in volta si allontanava e si avvicinava: poteva lasciarsi andare da un momento all'altro, ma ancora non aveva la forza di desistere. Non passavano auto, era pieno inverno, anche se la temperatura poteva sembrare primaverile: proveniva dal nord, ed era ancora vestito pesante, gli abiti lo ingombravano, dura era la mano che calcava sul volante, e premuto il piede sull'acceleratore. Quante speranze nutriva mentre procedeva, che tutto si risolvesse, o addirittura che nulla fosse vero; ma la realtà l'aveva ben davanti, già delineata come la strada che stava percorrendo. Non c'era più nulla da cambiare, la vita era stata vissuta, e nulla lo stava seguendo per dirgli di fermarsi, che c'era stato un errore, che Dio non voleva così…
I cinque mesi di serenità erano volati via, ora li stava ricordando, e cercava di capire dove avesse sbagliato, disperatamente ansioso di trovare ciò per cui restare ancora legato alla terra; non poteva essere una persona, e qui il cuore gli urlò, perché l'unica ad aver reso felice la sua vita, Julia, si era allontanata, lacerata dall'orribile ignominia di cui scoprì essersi macchiata. Tutti gli esseri con cui egli veniva a contatto parevano cadere nel peccato, era una creatura del demonio, e per questo non aveva voglia di ricominciare a macchiare il mondo; aveva solo diciotto anni, ma credeva di aver già vissuto abbastanza, era stanco come un vecchio, insanguinato come un criminale, e Dio solo poteva perdonare la tremenda verità che or ora aveva scoperto. Si sentiva sporco, inutile, le convinzioni ed ogni più piccola certezza erano cadute, e poi nessuno d'altronde, come era stato per suo 'padre', si sarebbe accorto della sua mancanza, credeva, e sterzò bruscamente…
Avevano lasciato ben presto le nevi alle loro spalle; Julia ora sapeva che lì non avrebbero mai potuto vivere, oppressi da ricordi ed ombre lontane. Preferirono spostarsi in una cittadina vicina alla capitale, tanto vicina che nelle giornate più limpide si poteva scorgere la guglia maggiore della cattedrale. La fortuna volle che trovassero presto dove sistemarsi: nella zona di espansione residenziale, dove piccole villette sorgevano ogni giorno più rapidamente, acquistarono una modesta abitazione, e dopo neppure un mese erano pronti ad iniziare la nuova vita.
La diversità di quelle quattro mura li aveva caricati di ottimismo: risolsero al più presto i piccoli problemi insorti a causa delle regole di una vita mai sperimentata fino ad allora, e si abituarono alla compagnia di nuove persone. Soprattutto nei vicini trovarono una strana amicizia: si presentarono loro già durante la prima settimana di permanenza. Abitavano nella casa che sorgeva dall'altra parte del vasto prato incolto; a destra delle due abitazioni c'era la strada principale, trafficata e piena di negozi, mentre a sinistra scorreva il fiume dalle limacciose acque grigiastre. Un vicolo secondario tagliava la via più importante, e cento metri più avanti solcava il fiume con un piccolo ponte di legno attraversabile solo a piedi. Stranamente, in tutta quella foresta di cemento e di lavori edili, c'era ancora lo spazio per un folto bosco, tutto intorno al fiume: allora era d'argento per l'imminente autunno.
Civiltà e natura si susseguivano senza confine, ed era una piacevole sensazione, la mattina, svegliarsi con una foglia che cadeva lenta e veniva portata via da un'impercettibile corrente.
I vicini vivevano lì già da qualche tempo, erano due coniugi quarantenni, interessanti, o perlomeno diversi dalla maggior parte delle coppie del luogo. Lui aveva i capelli chiari, come gli occhi, un fisico elegante e che dava a vedere un'età inferiore; lei, già vedova e risposata (chissà perché lo volle far saper quasi subito), portava in viso una bellezza ancora fresca, fiorente: in quei mesi che trascorsero lassù mai una volta riuscirono a vederla vestita in maniera semplice; in un modo o in un altro, magari a proposito, cercava sempre di apparire con abiti che insieme al trucco impegnavano gli occhi di chi la osservava, rendendola ancora pienamente desiderabile per un giovane dall'alto dei suoi trentotto anni. Sembrava che tenesse a quei due ragazzi che un giorno avevano bussato alla sua porta, e ben presto aveva dimostrato in modo aperto la sua affezione.
Circa un mese dopo il loro arrivo, quando Julia era riuscita a trovare un semplice lavoro da fattorino, e questo perché per la casa era necessario cercare almeno una piccola fonte di guadagno, lui restava solo gran parte delle giornate. Anne, questo era il nome dell'affascinante signora, chissà come sapeva tutto, addirittura conosceva gli orari di lavoro della ragazza: stava via tutta la mattina, pranzava fuori e rientrava verso le tre; l'altro si occupava della casa, o almeno a modo suo, cosa che comunque bastava all'animo femminile di Julia, che quando tornava poteva riposare senza troppi problemi. Forse avrebbe voluto aiutarla diversamente, magari lavorando a sua volta, ma lei non voleva, si opponeva con tenacia quasi come una madre
Dopotutto così vivevano bene, anche se l'appartamento era ancora spoglio, come l'avevano trovato: in camera c'erano soltanto due letti, un armadio ed un pianoforte, mentre nell'altra stanza un tavolo, quattro sedie, un fornello ed un divano. Si entrava proprio di lì, e quel giorno Anne suonò alla porta sicura che egli fosse solo. In effetti erano da poco passate le dieci, e dopo essersi alzato stava pigramente facendo colazione. Senza pensarci su andò ad aprire la porta: si svegliò del tutto quando vide la donna in uno splendido abito da sera nero, con un grosso décolleté ed un vertiginoso spacco laterale. A quell'ora era molto strano vedere una donna vestita così, e non celò meraviglia quando gli chiese di entrare; continuando a guardare fuori dalla porta anche quando Anne era già entrata sussurrò "Posso aiutarla?".
Lei si guardò attorno girando per la stanza, poi disse, come se l'altro non avesse parlato "Come mai così vuoto, qui?".
"Beh, siamo appena arrivati, contiamo di pensare un po' alla volta a queste cose…", rispose imbarazzato.
"Bene, ora sei solo, vero?", chiese ancora quella, passando una mano sul tavolo.
"Sì, perché?".
"Ecco, anch'io la mattina sono sempre sola, sai mio marito lavora fino a sera, è nel settore immobiliare, e io in questo posto desolato non so proprio mai cosa fare". Prese il tono da vittima.
"Io invece qui mi trovo bene…".
"Oh, solo perché ci sei da poco, te lo assicuro, poi la solitudine diviene insostenibile".
"Ma io non sono solo…", ribadì, poi subito arrossendo pentito per ciò che aveva detto.
"Già, e non ancora capito che rapporto ci sia fra te e quella ragazza…Julia".
Quella donna sapeva tutto, i loro nomi, e chissà cos'altro: si stava divertendo a metterlo in imbarazzo, era entrata in casa, ora si stava sedendo e Dio solo sapeva cosa avrebbe ancora fatto.
Chiuse la porta e si avvicinò al divano dove si era seduta, appoggiandovi da dietro la mani. Lei gliele sfiorò.
"Lo sai che sei il ragazzo più carino che abbia mai incontrato…".
Veloce allontanò la mano, facendole percepire la tensione che stava per assalirlo, allorché Anne continuò: "Guarda che è solo un complimento!".
"Sì, sì, grazie, ma ora avrei da fare…", cercò di dire sorridendo, pentendosene di nuovo e più di prima. Era in una situazione difficile, e stava sbagliando tutto; si trovava in casa propria ma provava un forte imbarazzo, mentre lei appariva decisa e così dannatamente provocante. Aveva un viso rosa pallido, i capelli castani tendenti al biondo, e dei meravigliosi occhi verdi disposti in modo obliquo e dolce sul volto. Con l'aria annoiata se ne stava lì seduta, aspettando una mossa del ragazzo ed escogitando la sua prossima.
Non era arrabbiato per la sua sfrontatezza, viveva quegli attimi come un sogno irreale, con un misto di orgoglio, timore e vergogna. Il cuore accelerava, e decise di attendere ancora, di vedere cosa sarebbe successo, sicuro di essere pronto a frenare qualunque eccesso.
Lei gli fece cenno di sedersi, e lui obbedì senza neppure tentare di trovare una scusa, visti quali erano i risultati. Non era mai stato desiderato da una donna così matura, e la curiosità lo spingeva più di ogni altro sentimento. Certo era bella, molto bella, ma non lo avrebbe mai fatto, sicuro; forse a Julia sarebbe dispiaciuto, anche se comunque erano liberi di fare ed agire come meglio credevano.
Stava ancora riflettendo quando lei gli appoggiò una mano sul petto: sussultò e provò una sensazione diversa da come era solito sentire con Julia; aveva paura come la prima volta, non osava reagire e si sentiva completamente assoggettato all'altra. Vide la sua bocca priva di trucco avvicinarsi, poi premette sulle sue labbra, muovendosi avida senza lasciargli il tempo di respirare. Sentiva su di lei uno splendido profumo, e si lasciava trasportare, inebriato e sconvolto come se quella fosse stata un vampiro che si stesse cibando del suo corpo.
Intanto gli aveva sbottonato la camicia azzurra, e continuava ad accarezzare la pelle nuda, mentre con la bocca gli assaliva il collo e le orecchie. Lui continuava a non avere alcuna iniziativa, con il volto immerso nei suoi capelli: non vide neppure quando lei gli prese la mano e se la portò sul seno; le dita gli si irrigidirono, ma non faceva in tempo a pensare ad una cosa che già lei gli dava dell'altro cui badare. Sfilò la camicia dalle sue spalle e cominciò a passare le dita sulla cintura dei pantaloni: a quel punto lui si scansò.
"No, basta così!", disse meravigliandosi di persona per la propria sicura durezza, mentre lei si alzava dal divano riportando l'abito al giusto livello.
"Veramente, non posso farlo…", continuò abbassando il tono della voce.
Strana fu la reazione della donna: sembrò rassegnarsi senza troppi complimenti alla condizione di respinta, si infilò le scarpe gettate ai piedi del tavolo e si avvicinò alla porta.
"Va bene, me lo aspettavo", disse facendo una breve pausa, "Sei un tipo fedele…".
Uscì con gli occhi bassi, ed egli rimase seduto, paralizzato: non riusciva a capire se la donna che gli aveva or ora sconvolto la mattinata come un'improvvisa tempesta lo avesse preso in giro, offesa dal suo comportamento, o se avesse invece continuato ad apprezzarlo anche quando le era sfuggito.
La porta era rimasta spalancata, entrava una corrente fresca; si alzò ed uscì di casa, appoggiandosi al muro esterno. L'aria non era ancora stata scaldata dal sole, ed egli dovette avvolgersi le braccia intorno al corpo per combattere il freddo. Con la mano sinistra si sfiorava il petto, proprio sotto il collo, e sentì un leggero bruciore; si portò la mano davanti agli occhi e notò che il dito medio era sporco di sangue, guardò in basso, sul suo corpo, e vide una piccola ferita, recente, di cui non si era accorto, e che probabilmente gliela aveva provocata la cerniera dell'abito di Anne che prima aveva sentito sfregare sulla pelle.
Era ancora stupito per il comportamento della donna, non capiva come potesse essere stata così sfacciata. Ricordava ancora la strana situazione della prima volta che la vide: lui e Julia erano in quella casa da cinque giorni, avevano provveduto ai problemi più impellenti, sistemato le loro poche cose e portato a termine il contratto di vendita, e quel pomeriggio di circa quattro settimane prima si erano ritrovati liberi. Decisero di andare a suonare alla porta dell'altra casa, uguale alla loro in ogni particolare, ed eventualmente di tornare se non avessero trovato nessuno a quell'ora (erano circa le sette di sera). Non fu necessario contemplare questa evenienza: dopo qualche secondo si trovarono davanti al marito di Anne, Ilya.
I due spiegarono le circostanze e si presentarono educatamente, quindi l'uomo fece altrettanto con un misto di signorilità e cortesia e li invitò a conoscere la moglie. Si trovava in soggiorno, e, a quanto pareva dai suoi abiti, una vestaglia rosa ed un paio di pantofole dello stesso colore, si apprestava già ad andare a letto.
La veste da camera le copriva le gambe fino alle ginocchia; il resto di queste continuava in due morbide curve dovute al dolce accavallamento, e le braccia erano stese l'una sul bracciolo di una poltrona e l'altra sulla coscia, sfumando in rosa più scuro la seta dell'abito. I capelli erano sciolti, il volto struccato e liscio come quello di una bambola, e non era comprensibile l'attività che stesse svolgendo: era immobile, solo questo.
Julia aveva già cominciato a scusarsi, credendo di aver disturbato perlomeno la signora, quando quest'ultima si girò verso loro tre con aria annoiata ed assente.
Ilya, quasi più imbarazzato dei ragazzi, le spiegò il motivo della loro visita, dopodiché diede al ragazzo una forte pacca sulla spalla, cosa che forse in una situazione normale non avrebbe mai fatto. Ma ora, in quel frangente, appariva turbato, probabilmente dall'indolente reazione della moglie che ora stava però cambiando atteggiamento.
Quando mise a fuoco i due giovani, infatti, la dura espressione del volto si trasformò in sorriso, e gli occhi le scintillarono quando si posarono con più attenzione sul ragazzo.
All'improvviso anche il marito si rasserenò. Cosa poteva significare? Ilya doveva aver capito cos'era successo; sembrava così smarrito, insicuro, ma in effetti al primo segno di disgelo della moglie quegli stenti erano svaniti. Questo poteva indicare due cose, o che egli fosse succube della moglie e reagisse senza una propria viva partecipazione al comportamento di lei, o che il loro rapporto fosse in crisi ed egli tentasse di recuperare l'irrecuperabile con un modo di fare accondiscendente nei suoi confronti.
La seconda ipotesi era la più plausibile, e fu ampiamente provata quando, una volta sedutisi i tre intorno al tavolo, ed all'ennesima occhiata clandestina di Anne al ragazzo, si dipinse sul viso di Ilya, in cui già prima parevano giocare il tiro alla fune amarezza e falso buonumore, un'espressione di insondabile sconforto. Una costernazione invadente che distrusse il sorriso di Julia, quando distolse gli occhi dalla labbra di Anne per portarli su quelli dell'uomo. La moglie stava parlando senza problemi dei fatti suoi, senza badare a cosa stesse facendo Ilya, il quale pareva colpito da un dolore insostenibile, come causato dalla distruzione dell'ultimo mattone di un profondo sentimento. Non osava reagire, né con lei né tantomeno coi ragazzi, che un altro avrebbe potuto benissimo prendere come colpevoli di quegli avvenimenti; assisteva solo al penoso dialogo che si stava svolgendo sotto ai suoi occhi esterrefatti, che in un continuo vorticare si spostavano prima su di una poi su di un'altra delle persone a loro vicine: ed ora non solo più Julia, ma anch'egli aveva notato il viso dell'uomo, e pieno di imbarazzo cercava di farsi intendere da lei, con un gesto della mano o con un particolare ammiccamento. Sentiva ancora parlare la donna, ma oramai non la ascoltava più, tentando solamente di trarre dall'incresciosa situazione se stesso, Julia ed Ilya.
Per fortuna intervenne il caso a risolvere il tutto; ad un tratto l'orologio di Julia suonò le ore, erano le otto, e l'altro, come avesse sentito una bomba esploderle sotto la sedia, si alzò di scatto in piedi, interrompendo in modo brusco il discorso di Anne.
"Dobbiamo andare, vero?", fece rivolgendosi a Julia con un'irreale impazienza.
Inaspettatamente fu Ilya a rispondere, con uno scatto non secondo a quello del ragazzo; "Sì, anche per noi si è fatto tardi…", disse in trepidante attesa di un qualunque cenno da parte della moglie, sfregandosi le mani in preda al nervosismo.
"Certo, ma…conto di vederci ancora", rispose Anne con dolce quanto falsa risposta, non degnandosi neppure di guardare in faccia il marito.
Era una situazione di stallo: in tre avevano parlato, ed almeno uno dei quattro sapeva che un altro aveva mentito; Julia sapeva che il ragazzo aveva avuto quella reazione solo per sbrogliare una matassa ancora più ingarbugliata, Anne sapeva che suo marito non vedeva l'ora di accomiatarsi dai due, i quali a loro volta sapevano che la donna aveva mentito acidamente, sentendosi frenata da Ilya ma allo stesso tempo non osando iniziare una scenata davanti a chi le interessava.
L'uomo e i due ragazzi, però, benché avversari si erano ritrovati uniti a giocare la stessa partita, e vinsero dando scacco matto alla donna schiacciata suo malgrado. Finalmente si avvicinarono alla porta, e dopo pochi secondi si trovarono a respirare aria meno pesante e scarica di tensione. Si guardarono ed egli appoggiò per gioco le mani sulle proprie ginocchia, come dopo uno scampato pericolo.
"Oddio, ce la siamo vista davvero brutta", disse ansimando guardando la terra.
"Quel poveretto se la deve passare peggio di noi…", aggiunse Julia facendo tornare il sorriso dopo la tempesta, e tentando in qualche modo di sdrammatizzare la faccenda con una battuta scherzosa.
"E poi direi che sei tu ad essertela vista più brutta di me, dato come ti guardava", soggiunse.
L'auto raschiò contro il parapetto, stridendo ed illuminando la notte con una cascata di scintille. Quel suono non aveva nulla a che fare con l'armoniosa melodia che aveva in mente, e che così tante volte aveva sentito suonare…
Erano passati quattro mesi dal loro arrivo e dall'incresciosa situazione che li aveva visti partecipi. Era pieno inverno, gli alberi che fiancheggiavano le due case gemelle si caricavano, spogli, di una gran quantità di neve, ed il manto cupo formatosi le settimane addietro per l'ammontarsi delle foglie morte si era tinto di un bianco sporco, intervallato qua e là da rami spezzati per il troppo peso e da rocce grandi abbastanza da sporgere fra gli spessi centimetri di neve. Il fiume non scorreva più: una lastra di ghiaccio non permetteva di scorgere la benché minima attività di deflusso. Spirava un vento gelido, sussurrante mentre si infiltrava sotto i tetti scompigliando nel silenzio i nidi degli uccelli preparati la primavera passata; al suo passaggio non c'erano più ad accoglierlo le verdi foglie delle piante, frizzanti e vivaci, ma solo rigidi tronchi o miseri steli, e neppure più insetti, o i gorgoglianti mulinelli d'acqua.
I due ragazzi stavano camminando sotto una zona di vegetazione invasa da faggi e da bassi arbusti, là dove una volta gli odori penetravano le narici con un misto di resina e di terra bagnata. Il loro respiro di volta in volta si condensava tra i volti arrossati dal freddo pungente, e le parole uscivano a stento dalle labbra screpolate, come pietrificate nella morsa del gelo. Erano a poche decine di metri dall'abitazione, ed arrivare a quel punto era già stato difficoltoso, dato che ad ogni passo i piedi sprofondavano di una spanna, compattando la neve sul terreno sottostante.
La giornata era meravigliosa: era bastato un pallido e livido sole per convincere i due ad uscire, dopo una settimana di nevicate abbondanti; i tenui raggi riuscivano appena a liquefare la neve sui bordi del tetto, fondendola in gocce scintillanti. A guardare meglio tutto il mondo intorno a quelle due figure stava scintillando; Julia si ricordò del suo mare, sotto il sole estivo, e immaginò di ammirarlo da lontano, magari su una delle alture strapiombanti…dava lo stesso effetto, lo stesso continuo mutare di riflessi, luccichii e riverberi. Si accorse di sentirne la mancanza, e con esso avrebbe voluto rivedere anche il suo sole, e non quel fantasma che incombeva ora sulle loro teste, basso sull'orizzonte, anche se da poco era passato mezzogiorno, e la giornata era appena cominciata. Gli si rivolse con lo sguardo, coprendosi un minimo gli occhi; capì però che non era necessario, i raggi non splendevano, e la circonferenza, netta, spiccava come quella lunare in un'atmosfera di lugubre glacialità. La terra pareva morire sotto la stretta del nord, ed una sensazione di onnipresente angoscia attanagliava lo stomaco, accentuata da un silenzio così innaturale da far ronzare le orecchie.
Il freddo stava davvero facendo saltare le difese sensoriali di Julia; quel clima non faceva per lei, e l'altro se ne accorse. Con i cinque o dieci gradi sotto zero si sentiva solo più una statua di ghiaccio, e una sensazione di caldo umido, provocato dai vestiti impregnati di acqua si stava impossessando del suo corpo che come una fulminea influenza provava brividi incessanti e fastidiose aderenze.
Preferì rincasare, mentre il ragazzo, lasciandole detto che presto avrebbe fatto lo stesso, restò ancora lì a fare qualche passo.
Spalancò la porta e la richiuse per tenere fuori il gelido nemico che con sbuffi veloci cercava di allungare le mani all'interno della casa; non mosse un muscolo, e chiuse gli occhi mentre un caldo torrido ed umido cominciava a pervaderla. Con i piedi in fiamme si slacciò i pesanti scarponi, impacciata a causa degli abiti zuppi; i calzari caddero con un tonfo sul pavimento di legno, rivoltati su un fianco, schizzando qualche goccia d'acqua sul muro, poi ripose con ordine i vestiti su di una sedia davanti al termosifone acceso.
Si tolse prima i pesanti pantaloni blu, quindi la giacca verde chiazzata qua e là di macchie più scure dovute al bagnato. Gettò infine in angolo un maglione bianco ed una maglietta nera.
Si distese sul divano e qui si addormentò coccolata dal tepore che a pochi metri da lei le stava scongelando le ossa intorpidite; un orologio a muro scandiva il passare dei minuti…
Ore 12 e 22 minuti.
Passati pochi istanti l'altro entrò chiamandola a gran voce, ma quando si accorse che era addormentata si zittì, e si spogliò facendo meno rumore possibile. Le si avvicinò e le accarezzò una guancia sorridendo, dopodiché si incamminò verso il bagno per farsi una doccia calda. Girò il rubinetto ed un'attesa pioggia bollente lo ricoprì tutto di un colpo, con uno scroscio continuo che rimbombava fra le quattro pareti del box; restò lì sotto con la testa alzata per degli interminabili minuti. Il ristoro di quell'acqua gli invadeva tutto il corpo. Sentiva le singole gocce sulle labbra, e le orecchie non udivano altro…
Ore 12 e 25 minuti.
Il precario dormiveglia di Julia si interruppe di colpo, gli occhi si spalancarono fissi verso il soffitto, poi percepì la sua presenza e si alzò. Si rese conto di com'era vestita ed indossò un paio di pantaloni leggeri, sempre attenta al rumore dell'acqua che scorreva; come se sapesse esattamente cosa fare si avvicinò al pianoforte tra i due letti, premette un tasto, poi un altro, ripetendo la combinazione per tre o quattro volte…
Ore 12 e 27 minuti.
Egli girò la testa e acuì i sensi smorzati dal fragore dell'acqua, credendo di udire il suono di poche note; i capelli scivolarono insieme a rivoli d'acqua sulle orecchie, e le gocce cadevano sulla spalla sinistra schizzando ed infrangendosi sul viso. Non ci fece caso e tese ancora di più l'udito al fine di afferrare meglio ciò che aveva appena solo intuito, ma tutto tacque di nuovo…
Ore 12 e 28 minuti.
Julia si sedette sullo sgabello di legno rosso; l'antico piano era in cattive condizioni, ma se usato bene poteva ancora dare qualche risultato. Sapeva suonare, e di sicuro non sarebbe stata l'antichità dello strumento ad ostacolarla, bastava fare attenzione, non premere troppo forte e non andare troppo veloce, per il resto era a posto, in fondo lo aveva già usato parecchie volte in quei mesi, ed in un certo senso ne era diventata un'esperta conoscitrice. Affondò le mani come un chirurgo e cominciò a suonare…
Questa volta non poteva sbagliarsi, di là le note dello strumento scandivano una melodia che arrivava fino alle sue orecchie, e le note erano inconfondibili, non poteva non riconoscerle e non ricordarle, erano quelle di… quelle di… ad un tratto trasalì: come mai Julia stava suonando quel brano? Finora non l'aveva mai accennato, neanche ne aveva mai parlato. Si ricordò della villetta con la veranda e le finestre serrate, e la stessa lenta musica che arrivava dal suo interno…Si lisciò i capelli bagnati dietro il capo e spense l'acqua, così che la musica giungesse più forte, così che penetrasse fino al centro del suo cervello emozionato. Ancora una volta gli parve che la memoria stesse cercando di emergere, scavando dolorosamente nel passato, invano, un passato più lontano di quei pochi mesi, anni addietro, la sua vera famiglia, il mare…
Ore 12 e 30 minuti, il pendolo suonò la mezz'ora.
Si rivestì e corse da Julia.
La ragazza, appena lo vide, s'interruppe per salutarlo.
Lui non rispose al saluto, anzi chiese con tono brusco perché stesse suonando quel pezzo, passandosi nel frattempo le mani nei capelli per scaricare il nervoso.
"E' per mia madre", disse, "Oggi sarebbe il suo compleanno; lo faccio sempre…". Voleva continuare quella strana ed insolita giustificazione, questo almeno gli pareva essere dato il tono con cui il ragazzo l'aveva assalita, ma si bloccò capendo l'inutilità di sue altre eventuali parole. Non la stava più ascoltando, l'angoscia era tornata ad impadronirsi del suo corpo dopo il lungo periodo di quieta latenza, ed ormai lei aveva imparato a riconoscerla; la musica aveva attaccato come un potente veleno, dapprima lentamente, sopitamente, poi in maniera esponenziale, fino a perforare il guscio che ricopriva il suo cuore. Il tentativo di dimenticare l'accaduto franò, colpito dalle sottili note che erosero alla base un edificio costruito sull'inganno e la menzogna..
Fu di nuovo messo a confronto con la propria nuda interiorità, battente ed in continua espansione; il confronto con la morte, il sangue e l'amore lo portavano a sentire le vene del collo pulsare, come se il cervello stesse da loro cavando la linfa per nutrire il cancro che faceva marcire le sue cellule. A quel solo pensiero le gambe vacillarono, sottomesse al tiranno più forte che da sopra le governava urlando la propria voglia di liberarsi dallo schiacciante dolore.
La parte razionale della sua testa lo spingeva a fermarsi, a ragionare e a far sì che il tempo ricoprisse un'altra volta, come polvere, il dolore, ma l'istinto gli suggeriva al contrario, con un accenno di subdola curiosità, di proseguire nella ricerca della verità, se mai questa esistesse. Crollò a terra portando con sé i vestiti di Julia ancora appoggiati alla sedia.
Perché stava accadendo di nuovo? Era lontano da qualunque cosa potesse ricordargli il passato, eppure stava facendo sul serio, lo stesso sguardo assente presupponeva quello stato di crisi, era evidente…
Ma cosa?…Julia stava ancora assillando la propria mente per capire cosa avesse potuto causare una simile reazione, il corpo inibito da ogni stimolo di intervento, quando per caso abbassò lo sguardo sulla tastiera del piano. Si morse il labbro inferiore ed accennò con la mano sinistra il gesto di battere su quei tasti; si fermò e rifletté sul fatto che solo la musica in tutta la casa poteva aver rappresentato una novità per il ragazzo, ed aver avuto effetti così devastanti; portò a termine il movimento della mano storpiando per la tensione un paio di note, e quando voltò gli occhi decisa ad intervenire dopo gli istanti di esitazione, lui non era più a terra. In silenzio si era rimesso in piedi e stava lì, fermo, davanti al pianoforte che sembrava opporglisi come un ostacolo insormontabile. Julia si alzò e gli si fece vicina, lo guardò e percepì un vuoto incolmabile: l'azzurro degli occhi si spegneva verso il grigio, ma colpiva lo stesso come in quella notte, anche se in modo differente.
Stava ancora osservando i suoi capelli scomposti, bagnati, i vestiti indossati alla svelta pochi minuti prima, quand'ecco che quello le strinse le braccia intorno al collo e le adagiò il capo sulla spalla destra, con un gemito infantile che le riempì il cuore di compassione. Capì che tutto era tornato alla normalità, sapeva cosa stava facendo lì aggrappato a lei, era il suo modo di fare per rappacificarsi e spesso per chiedere scusa, e funzionava, tanto che anche lei lo strinse allo stesso modo.
"Devo tornare laggiù!", mormorò sottraendosi all'abbraccio e cominciando a girare per la stanza; era invaso da forze inconoscibili, camminava e parlava fra sé e sé a bassa voce, alla ricerca di una briciola di ricordo che potesse spiegare la forza magnetica che lo richiamava con tanto impeto verso quella casa di mare. La musica, certo, ma poteva essere una coincidenza, anche se fino ad allora erano state un po' troppe per sembrare vere. Era stufo di far capitare in modo passivo gli eventi: tempo prima aveva sperato di aver insabbiato del tutto il passato, ma forse il destino non lo voleva, ed aveva solcato una nuova traccia da seguire; non capiva se questa inaspettata apertura giungesse gradita al proprio subconscio, comprese solo che quest'ultimo lo spingeva a penetrarvi con decisione, forse come ultimo segno di rassegnazione al susseguirsi degli avvenimenti, e comunque non svuotato da timori verso ciò che poteva essere svelato. Sapeva con esattezza che la propria storia era ancora oscura; aveva rinunciato a squarciare il velo, d'accordo, ma in fondo non aveva mai rinunciato a sperare di farlo, concedendo a simili pensieri spazi che considerava 'rubati' al normale susseguirsi delle giornate. Sognava la conoscenza perché sapeva di conoscere: ovvero sapeva di avere dentro tutta la verità, ma poteva solo desiderare che un qualcosa la facesse esplodere. La musica non aveva sortito un effetto del genere, ma tanto aveva fatto da far cessare la sua inibizione e da far accendere una piccola speranza nel sottile masochismo della sua anima. Il male futuro era più forte ed attraente del bene presente, anche se quest'ultimo quando il male era nel passato pareva essere la meta da raggiungere…
"Dove? Laggiù dove?", domandò Julia con tono imperioso e possente.
Quello si fermò con la testa bassa, poi si rivolse a lei e disse: "Nella tua città. Sì, è di nuovo laggiù che voglio andare.", così pacato e sereno da far apparire quel luogo una semplice meta di villeggiatura.
"Sai, una volta ho visto una cosa giù in città…dall'interno di una casa giungeva la stessa musica che tu stavi per suonare", continuò, "Beh, comunque non penso che ti interessi, crederai che sia un'altra delle mie visioni…e forse fai bene, certo".
Una pausa gli diede il tempo di scaricare la mente.
"Però ci voglio…andare,…subito…". Dopo queste ultime parole, o piuttosto sillabe, si lasciò prendere dalla stanchezza che percorreva il suo corpo; provò uno stato di benessere per aver parlato, come quello consumato sotto la doccia, mentre si lasciava andare.
Julia fece appena in tempo a sorreggerlo; svenne. Si accorse di quanto fosse debole dal battito del polso e dal colorito del viso imbambolato; lo distese sul divano e prese in considerazione quanto sentito dire. Non avrebbe mai creduto di avere la possibilità di tornare a ***, dove dopo tanti mesi tutto probabilmente era rimasto uguale. Se da una parte la paura del viaggio la spaventava per le condizioni del ragazzo, al quale aveva solo sognato che il tempo avesse guarito le ferite, dall'altra la nostalgia di casa la spingeva alla traversata, pur con tutti i rischi che comportava.
Fissò il suo volto, ancora sereno come quando poco prima aveva pronunciato le parole; pareva stesse solo dormendo…non glielo avrebbe perdonata se avesse preso una decisione contraria alla propria idea, o almeno così finse di credere per risolversi a partire.
La lamiera si spezzò con il doloroso rumore di ferro lacerato, la velocità era troppo forte perché potesse resistere all'impatto; l'auto proseguì la folle corsa…
Correva allontanandosi sempre più dalla città, ripercorreva le strade battute l'estate passata, e osservava i paesaggi trasformati dall'inverno incalzante a cui tentava di sfuggire. Sole, sole, pensava ad esso come ad un miraggio mentre mille ricordi le nascevano nel cuore ogni volta che superava una curva.
Non era passato neanche un quarto d'ora perché prendesse la decisione di partire: questa sicurezza, aumentata dal fatto che là aveva un posto dove stare ed anche di che vivere, era tale da permetterle di abbandonare il precario lavoro di città, dove non sapeva che non sarebbe mai più tornata…
Aveva portato sull'auto il ragazzo ancora incosciente, e questo non poteva che ricordarle la prima volta, quando aveva fatto la stessa cosa, al buio, di notte; ora semplicemente chiuse a chiave la porta di casa e se ne andò, gettando uno sguardo allo specchietto retrovisore per salutare la terra, le case, tra cui quella di Anne ed Ilya. Con un sorriso li vide ancora una volta davanti a sé, eleganti, e ripensò a ciò che aveva visto quattro mesi prima e di cui aveva preferito non dire nulla.
Erano circa le dieci di una ventosa mattina di settembre; il cielo era terso, e lei stava rincasando prima del previsto per ritirare dei documenti e tornare al lavoro subito dopo la pausa. Spesso, dato il suo continuo girare per la città, rientrava per prendere la posta, eventuali altre cose di cui aveva bisogno, o per segnarsi le telefonate ricevute ed alle quali avrebbe dovuto fare riferimento nel pomeriggio. Non potendo essere sempre in ditta, infatti, le telefonate le venivano girate direttamente a casa, in modo che potesse accontentare i clienti con maggiore comodità e validità di servizio.
Di solito entrava dalla porta sul retro, più comoda perché dava sulla strada, e spesso non si preoccupava neppure di guardare se l'altro fosse in casa: faceva veloce ciò che doveva fare ed usciva per andare a prendere le ordinazioni e la merce dai commercianti. Quel giorno però, aperta la porta in silenzio come di consueto, sentì la voce di una donna venire dalla camera a fianco; posò le chiavi senza far rumore, per meglio sentire le parole che da quel poco sembravano calde e fascinatrici, e come un ladro avanzò a passi felpati fino ad osservare la scena, nascosta dall'angolo della parete dietro al divano. Vide Anne aggrappata al ragazzo, al…suo ragazzo: per la prima volta l'aveva sentito come un qualcosa di suo, non c'era mai riuscita, e credeva che neanche in futuro l'avrebbe fatto, perché in effetti suo non lo era…ma tutte queste riflessioni ora erano inutili, lasciavano solo tristezza. Era bastato il tanto esorcizzato tradimento, appena apparente, affinché i sensi trionfassero sulla ragione, e questo voleva dire che fin dall'inizio l'aveva considerato una cosa solo sua.
Si sentì svuotata ed inutile osservando la camicia aperta di lui e lei che con la mano esplorava il suo corpo; ora capiva meglio gli sguardi mirati di cui era stata testimone giorno addietro, ed insieme lo strano comportamento della donna davanti a loro due. Riuscì senza sforzo ad immaginarsi cosa sarebbe successo se lì al posto suo ci fosse stato Ilya…però il fatto che fosse proprio lei dietro alla scena che si stava svolgendo la riempiva d'insicurezza, e a questo non volle pensare. Poteva solo immaginarsi altro, ed a questo si aggrappava con tenacia, trovandoci sempre un nuovo elemento che potesse farle perdere del tempo, per non tornare alla realtà; sì, cercava di prender tempo, sperando con fede che tutto si risolvesse da solo. Le arrivavano immagini confuse, persone conosciute, come Ilya, appunto, oppure del tutto estranee, apparse quasi per schernirla di essersi buttata in un avventura fin dall'inizio così insensata. Forse era stata una sciocca a parteciparvi.
L'udito le comunicava i flebili gemiti della donna, il respiro muto e pesante del ragazzo, ed un odore forte di profumo aleggiava per la stanza: dalla scena madre si dispiegavano un corollario di effetti che arrivavano a stimolare i suoi sensi, mentre fuori il vento soffiava sempre più forte e gelido, schiantandosi sulle finestre con un lugubre rantolo. L'anta di una di queste sbattè contro il vetro; il rumore improvviso eccitò la donna, mentre scosse lei dal suo stato di torpore.
Dopotutto non riuscì a provare rabbia, neppure quando Anne lo baciò, solo un nulla, una terribile ansia che pareva puntare il dito verso la propria persona, incapace di farsi amare.
Tornò nell'altra stanza, appoggiò le mani al muro in preda ad un capogiro simile a quelli provocati dall'alcool, poi uscì; non fece in tempo a sentire che anche la porta sul davanti si era aperta…
Riprese coscienza del presente trovandosi a guardare il volto del ragazzo accanto a lei, beatamente sereno: aveva ricordato l'episodio in una frazione di secondo, ed ora aveva di nuovo davanti la strada e tutto il paesaggio innevato. Un colpo di tosse le fece capire che si stava riprendendo, si girò e non riuscì a spiegarsi perché avesse assunto un'espressione di agitata sofferenza; muoveva la testa e premeva le palpebre come se stesse facendo un incubo, e non accennava a svegliarsi.
Tolse la mano destra dal volante e la adagiò sul suo collo; era caldo, sudato, e sotto la pelle bianca sentiva a stento il morbido rifluire del sangue. Lo accarezzò allora con forza, come volesse massaggiare e plasmare sotto le proprie dita il suo corpo, che reagiva stimolato da quei movimenti ritmici. Il dorso della mano sfiorava la camicia di cotone, ma insensibilmente, mentre i polpastrelli ora si insinuavano fra i capelli. L'altra mano teneva la via, e gli occhi altalenavano un po' davanti a loro e un po' a fianco. Giusto quando lo stavano osservando egli si svegliò di colpo, perdendo ogni afflizione o paura avesse incontrato sulla via del ritorno dal lungo sonno.
Forse perché intontito, o forse perché aveva già chiaro in quali circostanze si trovasse: fatto sta che non fece alcuna domanda, ma preferì congiungere una mano a quella di lei; Julia la sentì fredda come una sbarra di acciaio, e per la prima volta percepì dentro di sé tutta la gelida glacialità di quell'individuo, gli occhi azzurri penetranti le facevano provare solo freddo. Anche se aveva contro l'età, l'indisposizione fisica ed ora un generale intorpidimento, le aveva insegnato molto, certo a modo suo, bisognava interpretare le sue azioni e le sue parole, e non era sempre facile…notò con la coda dell'occhio la leggera curvatura della strada, e dovette intervenire per regolare la traiettoria, poi provò a parlargli.
"Hai visto? Sto andando dove volevi", disse senza voltarsi; egli annuì, le si fece più vicino, aveva un forte mal di testa, la vista annebbiata per il risveglio, disturbata dalla luce del sole. Smise di pensare perché si sentiva protetto dal corpo della ragazza; gli piacque quella sistemazione.
Dopo una decina d'ore, pur viaggiando speditamente non erano che a metà del viaggio; ormai era sera, quasi notte, ma era piacevole muoversi su strade deserte, cosicché preferirono non fermarsi lungo il tragitto e riposarsi una volta giunti a ***.
Alle prime luci dell'alba Julia riconobbe la propria terra: il clima era diverso, più mite, non c'era traccia di neve, e quando comparve il mare con sopra un sole appena sorto i due in segreto ebbero una lieve titubanza al pensiero di dover tornare sul promontorio.
Costeggiarono la città, percorsero la strada illuminata dagli alti lampioni, e finalmente arrivarono a casa: l'abitazione dominava ancora il paesaggio con la sua sinistra presenza, e tranne l'erba incolta tutto era rimasto come nei mesi addietro.
La chiave scivolò nella toppa e la porta si aprì cigolando rivelando il buio delle enormi stanze; erano morti dalla stanchezza, e posate le chiavi su di un tavolo, nell'oscurità, salirono le scale verso il piano di sopra. Lui non era mai stato lassù, seguì Julia come un'ombra e capì infine di essere giunto in una camera da letto. Un lume si accese, ed il viso di Julia, spettrale per la strana angolatura che la debole luce aveva su di esso, risaltò vicino ad una finestra rettangolare.
La lampada fu posata su di un tavolino.
"Io non ce la faccio più…", disse lei con uno sbuffo lasciandosi cadere su di un letto appena rivelato dalla fiammella. Il ragazzo guardò la sua bocca sperando che dicesse ancora qualcosa, ma l'attesa fu inutile: continuò il silenzio per dei secondi, per dei minuti. Non sapeva proprio nulla della casa, e soprattutto di quelle stanze; esitò qualche istante ancora, poi si risolse: si sfilò le scarpe e si distese a sua volta sul letto, sotto le coperte polverose. L'accoglienza del giaciglio e la stanchezza accumulata durante il viaggio fecero sì che egli si addormentasse subito, senza alcun pensiero su cui ragionare. Non aveva spento il lume, che con flebili bagliori continuava ad illuminare una minuscola parte della stanza; la fiamma a gas ondeggiava a causa dei frequenti spifferi che penetravano dalla porta aperta fin dal piano di sotto, gettando impercettibili ombre in movimento contro il muro grigio mentre il resto della casa viveva nel silenzio e nell'oscurità. Il fuoco rischiarava il volto del ragazzo in preda ad un sonno agitato: sognava, ora tendendo i muscoli ora rilassandoli, finché ad un tratto si svegliò di soprassalto; con uno scatto incontrollato di un braccio tornò alla vita cosciente con la fronte sudata, si passò una mano sugli occhi e si accorse della luce alla sua sinistra. Non ricordava di averla lasciata accesa, e con l'animo ancora turbato voltò lo sguardo a destra. Julia era addormentata, era serena, in casa sua, ed aveva le braccia compostamente adagiate sulle gambe reclinate che deformavano le coperte; il viso, nella penombra, risaltava come la piccola finestra sullo sfondo nero, e l'invidiabile serenità della sua espressione riusciva a rischiarare anche la sua…Spense la lampada piombando nel buio e tornò a coricarsi: al di fuori della finestrella gli alberi si contorcevano al passaggio del vento, spogliandosi delle ultime foglie gialle, e piccoli mulinelli sibilavano tra gli intarsi delle imposte.
Quel lugubre e gelido suono lo fece rabbrividire più di una volta, e nell'impenetrabile oscurità ricominciò a sudare in volto e ad essere scosso da leggerissimi tremiti. Era la stanza ad essere fredda, il camino non veniva acceso da mesi, ed i vestiti che aveva indosso erano ancora umidi. Si portò la coperta fin sopra il naso, e nel compiere questo gesto sfiorò con il braccio il corpo di Julia, i suoi abiti ed il suo calore; lento scivolò verso la parte destra del letto, deglutì nervoso e quindi sentì l'ostacolo del corpo. Le gambe di Julia ora erano distese, e lei era voltata dalla sua parte con le braccia aperte; vi si insinuò con un fruscio delle coperte, muovendosi veloce per una frazione di secondo e poi ascoltando in silenzio il risultato del proprio spostamento: ogni volta riceveva solo un leggero sfregare di lenzuola…Arrivò a toccarla con tutto il corpo, con esitazione le avvolse un braccio intorno alla vita, sulla camicetta, e provò un grande senso di protezione, non le era mai stato così vicino.
Julia si svegliò, saranno state le tre di notte, e si sentì un peso sul corpo; di scatto tentò di usare la mano per capire cosa fosse, ma questa era bloccata, e comprese da cosa; credendo che l'altro dormisse, anche perché lui fingeva di farlo, lo strinse a sua volta intorno a sé, appoggiò il mento sui suoi capelli e chiuse gli occhi. Dopo pochi minuti si era già riaddormentata.
Sognò cose appartenenti al passato, vorticose, senza alcun nesso logico, a partire dal giorno in cui le era stato detto, quattordici anni prima, che i genitori erano morti: non ricordava chi fosse stato a dirglielo, la visione onirica le mise davanti come messaggero di quelle notizie il giovane che ora le stava addosso. Lo sentiva parlare, ma spesso come nella realtà non lo capiva, e tendeva le orecchie invano.
"I tuoi genitori non sono più qui…", diceva con un'irriconoscibile e stridula voce, ripetendolo all'infinito sempre con lo stesso tono. Non riusciva a reagire, lo fissava: fissava gli occhi che non sembravano più i suoi, le mani, e…un ciondolo che pendeva dal suo collo. Allungò una mano come per prenderlo quando quello scomparve, si girò e riconobbe la propria casa; i suoi ricordi inconsci si erano spinti ancora più indietro, ed ora poteva vedere sua madre e suo padre. Il sereno ambiente domestico le strappò un sorriso, si diresse verso la donna, voltata verso la finestra che dava sul retro della casa, e dalla quale i raggi del sole inondavano la stanza. La madre si girò come se avesse sentito i suoi passi: in braccio aveva il bambino, suo fratello…e a quella visione lei cominciò ad ansimare, il respiro le veniva meno, le gambe rimasero paralizzate. La luce sparì al passare di un secondo, l'espressione della madre rimase rivolta nel vuoto, mentre tutta la casa cominciò a tremare; guardò il soffitto, le pareti, e notò le profonde crepe che in esse stavano formandosi. Ad un tratto con un esplosione violenta i muri cedettero, e tutta la struttura le rovinò addosso con un immane boato.
Al diradarsi della polvere si ritrovò dove era prima, nel salotto: il sole aveva ricominciato a splendere, ma sia la donna che il bambino erano spariti; sul pavimento dove prima si trovavano vide luccicare qualcosa, piccolo e rotondo, come un pendente.
Aprì di colpo gli occhi e si trovò a fissare il soffitto della stanza da letto. Era mattina, si era fatto chiaro, ed accanto aveva ancora il ragazzo. Abbassò le coperte e gli tastò il collo, sentì la catenina e la fece scorrere tra le dita fino ad avere in mano il ciondolo d'oro. Lo guardò, lo girò, sorrise e se ne separò, ripiombando sul cuscino con le mani dietro alla nuca. Tirò un gran sospiro, poi, come rassegnata ad alzarsi, si sedette sul letto con un colpo di reni, si alzò stirandosi ed andò alla finestra: era l'alba, a est, e dalle colline i bagliori del sole offuscavano lo splendore di Venere; alte nubi si disponevano in volute filamentose, rotte da un vento che dava all'aria un profumo selvaggio e che increspava il mare ad occidente. Brillante, rispetto alla costa che ancora rimaneva buia, un braccio di terra nera come il carbone scintillava di mille piccole luci, una grande isola in lontananza che aumentava con le sue case illuminate il numero ormai esile di stelle in cielo. Solo da lì, dal primo piano, era possibile vedere il mare e l'isola, altrimenti nascosti dalla struttura ondulata della regione, evidente per chiunque viaggiasse per quelle terre.
Si sentì felice osservando il verde ed il bruno al posto del bianco, nuvole sottili al posto di spesse coltri grigie, mare al posto di montagna. Prese un maglione dall'armadio ed uscì dalla stanza; fuori doveva fare freddo, sapeva che il sole in quel periodo non riusciva la mattina ad assicurarsi il potere del tempo; scese le scale di corsa, elettrizzata arrivò nel salone, si guardò attorno e sorrise. Proseguì ed aprì la porta di ingresso, quando una ventata di polvere le assalì il viso: la temperatura era quella prevista, si sfregò le mani e dalla bocca soffiò aria tiepida che subito condensò. Fece qualche passo, lento ed intorpidito, dopodiché si ritrovò ad una trentina di metri dalla casa; l'erba secca rendeva il paesaggio simile ad una brughiera, gli alberi spogli battevano i rami l'uno contro l'altro. A terra cumuli di foglie, alcune allungate, altre rotonde ed altre irregolari, giravano senza meta assecondando i temporanei mulinelli sibilanti. A sinistra la stradina di un tempo si perdeva verso il lago nei canneti, gli unici ad aver mantenuto le foglie, accartocciate come cartapecora e screziate di marrone. Le lunghe ombre degli alberi iniziavano ad apparire, flebili ed offuscate dietro al sole rossastro che saliva lentamente; la quieta natura cominciava a rinascere: l'erba scintillò ricca di rugiada, le ultime oscurità sparirono dietro all'orizzonte, e forse anche se da lì non era possibile vederle le luci dell'isola si erano spente. Julia girò le spalle all'occidente verso la facciata della casa ancora in ombra, da dove era uscita: le sue pietre brillavano ad ogni passo della ragazza proiettando rapidi cristalli di luce, e l'umido che lasciava trasparire le tingeva di scuro.
Fattasi di nuovo vicina alla porta d'ingresso sfiorò d'impulso uno dei blocchi grigi di pietra; restò impassibile al contatto, sentì la gelida e ruvida superficie, si graffiò anche un dito spingendo con forza su di una sporgenza, e il dolore era acuito dal freddo, ma non si rese neppure conto di questo. Entrò in casa, fece per dirigersi verso le scale poi ci ripensò e tornò indietro; si sedette vicino al tavolo, accavallò le gambe ed incrociò le dita sotto il mento. Tutte le imposte erano serrate, tutte le finestre nascoste dai drappi, nessuna luce poteva filtrare, ma non badò neppure a questo.
Attese, fissando in un angolo un antico pendolo dalla cassa in noce fermo chissà da quanto sulle diciotto e dieci: fissava le lancette, i trafori del legno riempivano la sua mente vuota, e più di una volta contò i piccoli archetti che ornavano la parte inferiore dell'orologio.
Si sentì schiacciato contro il sedile nell'attimo in cui l'auto si alzò e le ruote anteriori non toccarono più terra…
Un cigolio sulle scale richiamò l'attenzione di Julia. Si voltò, il ragazzo stava lentamente scendendo dal piano di sopra, teneva un braccio sullo scorrimano, e con la mano sinistra si cingeva il capo come per scrollarsi di dosso il sonno. Al termine dei gradini fece un sonoro sbadiglio, e solo allora notò Julia seduta a qualche metro da lui.
"Ah, sei qui…Perché ci siamo alzati così presto?", domandò stirandosi con le braccia alzate.
Julia continuò a fissarlo ma senza rispondere; si alzò, ed egli strinse i denti non capendo perché non avesse risposto. Guardò il suo viso, poi scese con la vista ancora offuscata verso il pavimento; fra lui e la ragazza, a circa due metri da entrambi, il sole penetrava da una piccola fessura della porta creando un riflesso circolare.
Julia con tre lunghi passi coprì la distanza che la separava da lui; gli si ritrovò faccia a faccia, e come sempre era stato non riuscì a fissare il celeste dei due zaffìri. Calò lo sguardo come macchiata da una colpa, e l'altro ebbe l'ardire di controbattere la sua mossa: strinse fra l'indice ed il pollice il mento di Julia, e così facendo sollevò tutto il suo viso. Quando ebbe di nuovo davanti i tristi occhi scuri si lasciò andare in un sorriso; delicatamente abbassò la mano sulla spalla, e si dovette alzare un po' per appoggiare la guancia sul corpo di lei.
Sentì l'odore del cotone fresco per l'aria del gelido vento mattutino, e riuscì a captare il battito del cuore, lontano come il rombo di un tuono in un lontano temporale estivo. Il suo di cuore invece pulsava veloce, perché era un vortice di amore e di angoscia a costiparlo; tali sentimenti nascevano dal cervello, ma allora per quale motivo sentiva tanto male proprio lì, nel petto?
Si sollevò ancora e raggiunse il suo viso.
B
Nel pomeriggio scesero in città. Erano le due, e la temperatura aveva raggiunto livelli primaverili; non avevano pranzato e neppure venne loro in mente di farlo una volta davanti ai bar e alle tavole calde che affollavano le vie. Lasciarono l'auto sul lungomare, all'ombra di una serie di pini marittimi.
La città si era di nuovo svuotata dopo i grandi affari estivi, ed i vicoli che attraversarono dopo essere sbucati su di un grande viale erano morti, malinconici. Il vento spazzava i marciapiedi scuotendo le foglie e qualche sacchetto di plastica bianca, e le poche persone camminavano a testa bassa muovendosi velocemente con una mano sul capo per non perdere il cappello o il foulard. Qualche donna anziana spuntava dalle finestre delle case, e tutto era silenzio, fatta eccezione per il lontano rimbombo di campane e i cigolii di insegne scolorite.
I due avanzavano sul lato sinistro della strada quando ad un tratto lui girò in una viuzza laterale. Julia lo seguì anche se presa alla sprovvista.
"Sai dove stai andando, vero?", domandò stupita del fatto che si muovesse così sicuro in una città non sua, dove aveva vissuto per pochi giorni molti mesi prima.
"Sta tranquilla, lo so", rispose proseguendo sui suoi passi, deciso come non mai. Camminarono per dieci minuti lungo vicoli bui che nemmeno Julia era sicura di conoscere, e alla fine arrivarono alla meta. Un intenso odore di polvere aleggiava in quel luogo, di fronte avevano una villetta chiusa da un cancello da dove partiva un breve vialetto formato da lastre di pietra; tutt'intorno si estendevano a perdita d'occhio campi e prati di erba secca.
Il ragazzo, con un sorriso, o forse una smorfia di dolore, riconobbe subito l'abitazione…
Anche Julia conosceva la casa; guardò il numero civico su di una colonna e ne fu certa. "Milena", sussurrò.
Lui non capì, e fece finta di non aver sentito.
"Come ho fatto a dimenticarmi…l'ho lasciata senza dirle niente", continuò con il viso verso il basso.
A quel punto egli smise di pensare al passato e disse "Tu conosci il proprietario di questa casa?".
"Sì, certo. E' una mia amica, anzi, forse non dovrei neppure chiamarla così: una volta la consideravo quasi come una sorella, ha quattro anni più di me, l'ho conosciuta dopo la morte dei miei genitori, qui in città. E' lei che mi ha insegnato a suonare il pianoforte…però ci siamo perse di vista circa tre anni fa, quando lei ha cominciato a lavorare all'estero. All'inizio tornava in città d'estate, poi non ne ho saputo più niente…ma come ho fatto ad andarmene senza aver neanche provato a cercarla?":
Ascoltò con attenzione le sue parole, ed intanto notò che le finestre non erano sbarrate come la prima volta che le aveva viste; tutto era più curato, forse voleva dire che vi abitava qualcuno…
Mentre pensava vide sbucare dal vicolo da dove erano arrivati una donna, carica di un pesante cesto di frutta. Julia non poteva vederla dal momento che era girata, ma la sentì e si voltò.
Prima guardò il cestino intrecciato di vimini, pieno di arance, con sopra un borsellino scuro con le rifiniture dorate, poi, alzando lo sguardo, in un abito lungo e semplice seminascosto da una giacca gialla riconobbe il volto della ragazza.
Anche lei la riconobbe subito; corrugò la fronte in un'espressione di evidente sorpresa e lasciò cadere il peso che aveva in mano senza accennare preoccupazione. Il cesto cadde con un tonfo, il contenuto si rovesciò e la frutta cominciò a rotolare sulla lieve pendenza della strada.
Milena diede una rapida occhiata al giovane che era in piedi a poca distanza da Julia, poi tornò su quest'ultima e si aprì in un sorriso. Nella breve frazione di tempo in cui egli aveva avuto davanti il volto di lei non poté fare a meno di pensare: quel viso non gli era nuovo, e poi quel gesto, così veloce quanto dolce, il collo reclinato verso destra, gli ricordavano qualcosa. La vide aprire le braccia verso Julia, ed abbracciarla, ed il suo volto scomparire dietro al corpo dell'amica; restò fermo a ragionare, pareva che tutti si sentissero in imbarazzo.
Lui era troppo preso da quella giovane, e solo una minima parte della sua attenzione era concessa a ciò che Julia aveva detto; un po' lo metteva in soggezione, come se fosse controllato da una persona che conosceva da sempre, e che era capace così di giudicare le sua azioni. Julia stava pensando più a lui che a Milena, e si chiedeva il motivo del suo silenzio trovando la risposta in un giustificabile disagio, mentre Milena aveva la mente rapita dall'amicizia ritrovata, anche se un barlume di confusa curiosità la faceva soffermare più del dovuto sul ragazzo, che ad un tratto la riconobbe…
Come un fulmine a ciel sereno gli sovvenne la scena che aveva vissuto la scorsa estate; in quel posto giù in città, dove si era fermato per mangiare qualcosa, c'era anche lei, e non era sola. Ricordava di averla osservata, era più elegante, e di essere stato turbato quando si era voltata con la precisa intenzione di guardarlo. Aveva un'espressione di pietà, no, più simile a quella di uno che fosse rimasto deluso per qualcosa; rivide i suoi occhi castani, l'amica, bionda, tutto quanto, tutto era limpido come se fosse avvenuto il giorno prima.
Dunque era lei ad abitare la casa da cui aveva sentito suonare il pianoforte, forse erano state le sue dita, le stesse che avevano insegnato a Julia, ad aver interpretato quel brano…
Perché tutto combaciava solo ora? Insieme si erano risolti due degli interrogativi che lo avevano tormentato a partire dalla stagione passata, finalmente poteva conoscere chi aveva provocato in lui tutti i pesanti sentimenti che avrebbero accompagnato la sua estate. La ragazza che aveva di fronte sapeva qualcosa di cui egli aveva bisogno, non doveva tirarsi indietro, adesso, anche se avrebbe fatto meglio a farlo.
Lei si era resa conto che lui la stava scandagliando, al che egli prese in mano la situazione e decise con la propria voce di interrompere il silenzio: "Posso conoscerti?", disse con perfetto autocontrollo. Milena si separò da Julia, fece tre passi indietro poi si mise una mano sul petto e chiese "Dici a me?".
Di tutta risposta il ragazzo alzò le sopracciglia e fece un cenno affermativo con la testa che poteva sembrare parecchio altezzoso. Lei non si scompose, gli si avvicinò superando sulla sinistra Julia e si trovò faccia a faccia con lui. Dopo un breve istante di reciproca difficoltà e di studio si presentò usando le parole più semplici che le venivano in mente, dopodiché aspettò paziente in attesa di una sua reazione.
"Dunque ti chiami così…", disse lui porgendole la mano. Il gesto ruppe la tensione.
"Io sono un amico di Julia, forse non ricordi ma ci siamo già visti".
Perplessa rispose alla mano offerta, poi con uno sforzo di memoria cercò di ricordarsi il suo volto; esitò per una manciata di secondi quindi si ricordò e si aprì in un sorriso.
"Ma certo! Quest'estate, in città!", disse guardandolo e voltandosi verso Julia come per ottenere le sue congratulazioni. Quando si girò di nuovo lo vide chinarsi e raccogliere da terra i frutti vicino al cesto vuoto. Lo fissò, poi tornò su Julia, infine si risolse ed andò ad aiutarlo, prendendo le arance rotolate fino vicino al cancello di casa. Con voce esitante continuò però a parlargli "Mi ricordo che il tuo viso mi aveva fatto venire in mente quello di Julia, era da parecchio che non la vedevo, e…allora, sì, insomma, per un attimo ho pensato a lei, ecco tutto".
Quelle parole non avevano senso, pensò lui. Le si avvicinò sollevando da terra la borsa scura caduta insieme a tutto il resto, quindi non appena ebbe la possibilità gliela porse togliendole di mano la frutta raccolta per portarla nel cesto.
"Grazie", disse facendo cenno ai due di entrare con lei in casa. Aprì il cancello con una grossa chiave. Julia sollevò il cesto e la seguì per prima, poi anch'egli si mosse entrando per il vialetto ed accostando il cancello senza chiuderlo. Gli fece un certo effetto andare proprio là dentro: era un sogno, oppure un incubo se ricordava tutto il male che gli aveva procurato.
Entrando notò subito il piano: era lì, sulla destra, lucido e con la tastiera coperta dai fogli degli spartiti sparpagliati.
Si guardò attorno soffermandosi con particolare attenzione sui piccoli dipinti che costellavano la stanza: i loro colori vivi riflettevano tutta la luce proveniente dall'esterno, soprattutto il rosso. Doveva averli fatti Milena, il tratto era insicuro e alla fine si assomigliavano un po' tutti.
Smise di osservarli quando lei cominciò a parlare "Allora, dove eri finita? Quest'estate ti ho cercata ma a casa tua non c'era nessuno".
Julia espirò sonoramente, quindi rispose "Ecco, ero con lui", fece indicando col capo il ragazzo che ne approfittò per presentarsi.
"Ho vissuto tutto questo tempo a ***, a nord, ed è un caso che ora mi trovi di nuovo qui. Sarei dovuto rimanere là, ma lui mi ha fatta tornare proprio per venire da te".
"Non riesco a capire…lui non mi conosce, cioè l'unica volta che mi ha vista è stato per caso, non può conoscermi", fece lei sedendosi su di una sedia ed invitando i due a fare altrettanto.
Dopo un attimo di pausa lui si sentì ormai in ballo, e cercò di spiegare come stessero davvero le cose "Vedi", disse rivolgendosi a Milena, "Io non sono di questa città". Cominciando così raccontò tutto quanto era successo a partire dal giugno passato: la propria vita con Julia, il viaggio, ogni cosa.
Mentre parlava Julia non lo fissava, anzi come cercando di non sentire ciò che diceva e di allontanare il ricordo che stava a forza rivivendo guardava altrove; il viso però era comunque patito al passaggio delle sue parole. Solo Milena lo ascoltava attenta, ogni tanto annuiva oppure distoglieva gli occhi stupita che raccontasse ogni minimo particolare. In effetti non aveva mai parlato così.
Arrivò a narrare del padre, della sua morte e di quello che era stato il cammino per arrivare a capire chi fosse veramente, le descrisse i propri incubi, e la visione che due giorni prima aveva avuto sotto la doccia. Milena si sentiva un confessore, e non capiva quasi nulla, soprattutto perché dicesse a lei quelle cose; si alzò, sempre composta, si avvicinò al pianoforte e si sedette facendo un po' d'ordine fra le carte. Cominciò a suonare, ed egli per la terza volta ascoltò le note che ormai risuonavano nel suo spirito come un dolce e triste requiem: mentre i tasti salivano e scendevano Julia gli si fece vicina, sapendo il dolore che stava provando in quegli attimi. Gli appoggiò una mano sul collo e gli baciò una guancia, al che egli si alzò lasciandola esterrefatta, fece qualche passo e si accostò a Milena, che smise di suonare portando su di lui gli occhi. Solo allora vide tutto di lui, solo ora che lo aveva così vicino notò il piccolo ciondolo che gli pendeva dal collo, rotondo, lucente, e così…famigliare.
"Perché l'uomo che ti ha cresciuto aveva ucciso i tuoi genitori?", chiese con aria di sfida.
A tale domanda Julia cominciò a sudare freddo senza saperne il motivo: si asciugò nel palmo l'imperlatura della fronte e si bagnò le labbra asciutte. Guardò un po' Milena, poi un po' il ragazzo; la vide riprendere a suonare, ma con un ritmo più veloce, deciso.
Lui non la interruppe, aveva ancora dentro di sé quella domanda, isolata dal resto dei propri pensieri dalla musica; l'interrogativo battente si fece sempre più vasto e dilagante, chiuse gli occhi e si ritrovò di nuovo nel bosco innevato. Vide per la seconda volta se stesso con in mano l'arma, ma ora poteva vedere l'uomo in viso, e non di spalle come gli si era sempre presentato; prima che fosse sferrato il colpo notò una cosa impossibile, non ci credette né ci volle credere. Perché la guancia sinistra di suo 'padre' era bagnata? Erano scese due lacrime dal gelido cacciatore nordico, a creare un'espressione d'incommensurabile dolore provocato da tutto fuorché dalla ferita alla spalle che presto l'avrebbe raggiunto. Di nuovo cadde, ma prima lo vide aprire la bocca: disse qualcosa, sì, aveva detto qualcosa, ma da dietro non aveva potuto sentire, o forse sì, ma comunque solo ora era riuscito a ricordarlo…"Dovevo dirtelo…".
Le due parole lo travolsero, non seppe più a cosa credere, l'ira svanì, ed il pensiero che la sua mente avesse solo trovato una scorciatoia stabilendo senza prova che l'uomo aveva ucciso i suoi genitori cominciò a farsi strada in lui.
Il viso in lacrime urlava talmente di pietà che neppure lui riuscì a stare in piedi: cadde sulle ginocchia, soffrendo. Il suo subconscio pulsava, e ad ogni pulsazione il dolore provato era tale da farlo gridare come un pazzo. Era la verità che affiorava, enorme si faceva spazio fra lo stretto corridoio dei suoi pensieri, procedendo veloce e distruttiva lacerando in più punti le sue pareti come una massa d'acqua tra cunicoli di terra franosa.
Si strinse il capo fra le mani, disperatamente, guardando i propri piedi immersi nella neve; poteva essere possibile che tutto fosse partito da un equivoco, e che lui avesse creduto fino ad ora il falso? Prima il volto in lacrime dell'uomo, poi il proprio folle gesto si avvicendavano nei suoi ricordi: scuoteva la testa, ma era un insetto intrappolato nella tela del ragno…
Le gocce cadevano dalle guance fendendo l'aria, e mentre scioglievano la neve il coltello scavava il corpo dell'uomo, pieno di tutta la forza della rabbia accumulata in brevi istanti di tempo; aveva sferrato l'attacco senza che l'altro avesse potuto reagire, pensava che non si fosse neppure accorto che lui gli stava dietro…ma ora era diverso: ora questi sembrava del tutto conscio di quel che stava per accadere, e lo dava a dimostrare con lo sguardo vago e perso verso l'infinito, oltre gli alberi, oltre le montagne, forse verso ciò che era successo diciassette anni prima, un fatto su cui nei brevi attimi del suo compimento non era riuscito a riflettere lucidamente e di cui magari si era addossato tutta la colpa.
Stava di fatto che lui non poteva sapere, né mai avrebbe potuto, cosa in realtà ci fosse all'origine della morte dei genitori, ma quel pianto silenzioso aveva aperto in lui la via del perdono, e non solo: un angoscioso senso di vergogna colpì il suo cuore; e se tutto fosse stato un incidente? L'uomo si sarebbe addossato per anni una miserabile e indimostrabile colpa, non riuscendo a farsene una ragione neppure dopo aver preso in custodia il bambino, preferendo addirittura morire sotto le sue mani adulte già vittime innocenti delle proprie azioni. Lui avrebbe dato modo al suo volere di compiersi, ma senza alcuna giustificazione, soltanto incitato da un primitivo, rozzo e infondato modo di sentire odio verso chi senza alcuna certezza era considerato il distruttore della propria vita, sradicata e sepolta ancor prima che la ragione intervenisse a comprenderla.
Ora non poteva più credere che fosse accaduto diversamente; non poteva motivare in altro modo il pianto, anche se con orrore da vittima qual era stato diventava carnefice. Tutto si era chiarito, ma in fondo alla fine solo lui si era macchiato di un inutile delitto; i suoi genitori erano morti, ed ormai aveva appurato essere successo in circostanze misteriose e forse accidentali, invece lui aveva ucciso forte della propria volontà, non esitando neppure un istante una volta avuta in mano l'arma. A poco sarebbe servito scagliarsi contro la sempre taciuta verità da parte dell'uomo, e poi gliel'avesse detta non ci avrebbe nemmeno creduto, allora. Era strano come invece ci credesse ora, pur se nessuno fosse venuto a dirglielo e avesse soltanto interpretato l'ultima espressione del padre che da subito gli si era impressa dentro, ma che solo da poco si era accesa come un faro nella nebbia. Il respiro continuava ad essere affannoso, quasi febbricitante: i pesanti colpi che sentiva al suo interno comprese essere nuovamente le note accordate da Milena; era nella stanza, non era passato più di un minuto, e né Julia né Milena si erano mosse da quando si era reso assente.
"Lo sentivo che qui avrei saputo tutto ciò che volevo", disse lui senza rivolgersi a qualcuno in particolare.
Milena smise di suonare, e Julia notando che egli dava segni di stanchezza gli corse incontro, facendo appena in tempo a tenerlo su quando conscio si lasciò cadere. Rotolò sulle sue braccia in uno stato simile a quello del dormiveglia, e intanto anche l'altra ragazza si fece vicina; dopo essersi alzata guardò Julia come per chiederle se tutto era sotto controllo, se avesse bisogno di aiuto. Di risposta ricevette un rapido gesto col capo che significava di stare tranquilla. Julia si sedette per terra insieme a lui; gli accarezzò il viso e lo sistemò come meglio poteva accanto a sé. Milena, sentendosi impotente, scomparve per un attimo, ricomparendo poco dopo con un bicchiere d'acqua; anche lei quindi si mise a terra ed offrì il bicchiere a Julia. "Ora no", disse lei con gentilezza. Lei posò l'acqua, poi guardò il volto del giovane, e non poté fare a meno di notare per la seconda volta il pendente con impresse le due lettere I e G: approfittando di un attimo di distrazione di Julia glielo sfilò dal collo e lo chiuse nel proprio pugno. Subito dopo il ragazzo disteso diede visibili segni di miglioramento, spalancò gli occhi e si guardò attorno stupito dalla posizione in cui si trovava; provò ad alzarsi, ma Julia lo trattenne, quindi si voltò a guardarla e trovò in lei un'espressione seria; infine osservò anche Milena, che invece gli sorrise.
"Va meglio?", chiese lei imbarazzata e stringendo forte nella mano il ciondolo, sperando che egli non dovesse accorgersene.
Al suo nuovo tentativo di alzarsi Julia non riuscì più a bloccarlo, lo lasciò andare e nello stesso momento guardò intensamente la mano destra di Milena. Quest'ultima capì subito che lei l'aveva vista nell'attimo della sottrazione, ed al rapido cenno d'intesa che lei le fece senza farsi notare rispose altrettanto veloce.
Quando tutti e tre furono infine in piedi Julia gli chiese spiegazioni su quel che era accaduto.
"L'uomo che mi ha cresciuto non aveva nessuna colpa…L'unico colpevole di quello che è successo, di tutto quanto ho sofferto e che ti ho fatto soffrire sono io", disse sfiduciato a testa bassa.
"Perché dici questo? Non puoi saperlo!", protestò Julia con sincero risentimento.
"Sì che posso…", continuò.
Julia sentì una strana sensazione a fior di pelle; non riuscì a contrastarla se non aumentando il tono di voce col quale si stava rivolgendo al ragazzo: "Ma come? Non capisco, come?". Era la prima volta che alzava la voce contro di lui.
"Ho sempre saputo che lui non aveva nessuna colpa, deve essere stato un incidente ad uccidere i miei genitori, un inevitabile incidente"; la calma con cui parlava, demotivata e privata di ogni valore, suonava davvero fastidiosa alle orecchie del suo interlocutore. Julia sbuffò non sapendo più cosa dire, presa alla sprovvista dal suo modo di fare: riuscì solo a ripetere quello che già aveva detto, a denti stretti, tentando di scusarsi per l'attacco d'ira con un tono di viva commiserazione. "Perché dici questo?".
Prima che l'altro potesse riprendere la medesima cantilena Milena si mise in mezzo alla discussione; guardò prima l'uno poi l'altra, quindi cominciò a parlare.
"Lo spiego io il perché!", fece secca e decisa. Aprì il pugno e mostrò il pendente; questo roteò nell'aria per degli interminabili secondi, poi si bloccò. Il suo vorticoso oscillare stava ipnotizzando Julia, e le maglie della catena tendevano già a sfocare in un'unica massa dorata poco prima che si fermasse. L'atmosfera si stava caricando di tensione, e l'angoscia si condensava nello spirito dei due ragazzi mentre il destino tesseva la sua trama.
Quando Milena ricominciò a parlare Julia era ormai ai piedi del baratro, ed anche lui aveva perso molta della sua sicurezza, pur se continuava a nutrire la perversa curiosità di conoscere l'ignoto. Entrambi stavano fermi, con le mani distese, ma mentre lui avidamente e senza darlo a vedere attendeva che lei parlasse, lei godeva di ogni secondo arrivasse a salvarla da quel discorso ormai imminente, perché ombre ancora irriconoscibili aleggiavano nel suo cuore come presagi di un'inaccettabile realtà. L'attesa non fu lunga; appena ella proferì parola Julia strinse gli occhi come preparandosi a sopportare un dolore immenso, anche se nel profondo era ancora speranzosa, dopotutto.
"E' vero che fu un incidente. Ma non credo che parlarne sarebbe utile", disse Milena scuotendo la testa ed in preda ad un grande imbarazzo. Egli la pregò di continuare.
"Beh…se tu hai questo…", fece indicando il ciondolo, "…io conoscevo i tuoi genitori".
Julia non capì più il significato dell'universo.
Cosa poteva centrare quell'oggetto con tutta la storia? Come poteva conoscere lei delle persone vissute in luoghi totalmente estranei alla sua vita? Ed estranei dovevano per forza esserlo, vivevano a centinaia di chilometri di distanza, e lei aveva undici anni appena quando erano morti! Non aveva viaggiato, era sempre stata in città…
Milena fece un sorriso; "Non avrei mai pensato di rivedervi uniti!...e mi sembra più uniti di un tempo…". Così dicendo corse dal ragazzo e gli gettò le braccia al collo, "Potevate dirmelo prima, non era necessario preparare questa messinscena.".
Guardò i due, rise convinta di quanto aveva creduto di capire, e non comprese i loro volti seri e lontani l'uno dall'altro.
"Dai, raccontatemi tutto, Julia, come avete fatto a ritrovarvi…oddio, ma ci pensi che sono passati diciassette anni da quando siete stati separati, da…da quando i suoi, i vostri genitori sono morti…".
Julia capì di sapere a che appartenessero le iniziali incise sul ciondolo, e per un momento sorrise arrivando a comprendere che allora era logico che egli conoscesse quella musica. Sua madre, il piano, la vecchia casa…
Tremò valutando l'esatta precisione con cui le età combaciavano. Qualcosa in lei morì.
Non capiva poi perché Milena fosse così felice per quello che era successo; ci ragionò sopra ma non poté arrivarci. In un secondo perse la voglia di fare qualsiasi cosa; indietreggiò ed urtò il tavolo su cui Milena aveva posato il bicchiere. L'acqua si rovesciò sul pavimento di legno e il vetro andò in mille pezzi insieme a tutto quanto era successo prima di quell'attimo.
Trovò una sedia, e vi si sedette barcollando.
"Lascia, non fa…niente", disse Milena in relazione all'incidente appena capitato, con voce sempre più bassa.
"Ma cosa succede?", continuò con l'ennesimo sorriso pietrificato teso a sciogliere la tensione.
Il ragazzo, che intanto aveva sentito tutto, si mosse, lento, poi sempre più veloce; raggiunse la porta ed uscì senza nulla dire.
Rimasero in due.
Fuori era scesa la notte; percorse di fretta il vialetto, raggiunse il cancello, lo trovò aperto ed uscì. Pianse, ma continuò a camminare fra i vicoli scuri ormai famigliari. Le scarpe battevano sul selciato con un sordo scalpiccio e rimbombavano fra le pareti delle case. I rari lampioni proiettavano la sua ombra, grande ed evanescente come una flebile ombra cinese creata da una candela, e nelle lontane notti estive si sarebbero sentiti i lamenti spettrali degli insetti; ora invece tutto taceva, anche le stelle.
Arrivò sul mare da una piccola strada, aveva evitato di tornare sul corso; risalì un poco il lungomare e giunse all'auto, rimasta sola accostata al parapetto di pietra che dava direttamente sulla spiaggia.
Si frugò in tasca, sapeva di avere le chiavi, infatti le trovò ed aprì la portiera.
La via era vuota, e per lui che aveva appena imparato sembrava essere l'ideale. Partì ed accelerò subito, ma solo dopo essere salito sulle scogliere prese la sua decisione.
Finché aveva odiato l'uomo che per anni si era spacciato per suo padre Julia gli era stata vicina, invece ora che aveva ritrovato per lui l'amore ed il perdono se l'era vista sfuggire; non poteva nemmeno pensare alla verità, semplicemente credeva di vivere in un sogno, dove nulla era reale.
E non provò né dolore né angoscia.
Quando l'auto iniziò la folle caduta voltò solo gli occhi verso l'alto.
Julia era ancora seduta al tavolo, a casa di Milena: si alzò di scatto ed afferrò la ragazza per le spalle.
"Ma perché sei così maledettamente felice?…Non vedi che rapporto c'era fra noi due?", urlò con la gola soffocata.
Milena fu colta così alla sprovvista e tanta era la forza che Julia imprimeva sul suo corpo che sull'istante non riuscì a rispondere. Poi si liberò dalla presa con uno strattone, fece qualche passo indietro ed aspettò una sua reazione.
Julia continuò: "Allora? Ti sembra bello, o…o divertente che due…". S'interruppe quando le lacrime le vennero agli occhi, "…fratelli…"; si fermò impedita nella parola da un dolore che la costrinse a piegarsi sulle ginocchia. Lei la guardò sempre più incredula, quindi le prese una mano ed intervenne "Ma cosa dici: voi non siete fratelli! Insomma, per nome lo siete stati per circa sei mesi, ma tu come sai sei stata adottata.".
Julia alzò lo sguardo, e quindi Milena capì tutto.
"Non…non lo sapevi, allora. Ora capisco. I tuoi genitori forse pensavano che fossi ancora troppo giovane per dirtelo, o forse sei tu a non ricordarlo, poi sono morti e tutta la storia è stata sepolta. Anch'io l'ho saputo solo…", ma Julia non la lasciò finire. Corse fuori dalla casa. Milena la seguì; Arrivò al cancello ma lo trovò chiuso, prese allora fra le mani due delle inferriate, ed invasa dal pianto si lasciò scivolare sull'erba già umida per la prima rugiada. Milena si chinò per assisterla, ma non poté fare niente.
L'auto precipitava, e dentro come per incanto egli ritrovò il proprio cuore.
Con il volto sulla terra Julia era ancora attaccata al cancello nell'aria pungente di quella limpida notte.
"Dovevamo crescere insieme…dobbiamo vivere… insieme…". Disse e si sentì lasciare.
A
Camminava, dando le spalle alla pianura fredda che lo aveva visto crescere.
A fianco il fiume, che scorreva limpido, azzurro come i suoi occhi profondi intenti a guardare l’infinito, verso le alte distese ghiacciate. Non sapeva da cosa fosse attirato il suo sguardo, forse perché nei suoi pensieri era altrove, lontano da quel posto che appariva tanto sereno. Non provava più nulla, non riusciva a sentire affetto, ma nemmeno più ad odiare i luoghi che gli avevano regalato felicità, tristezza, e magari qualche amico. Di questi ora non si ricordava, l’unica figura che aveva di fronte e che occupava tutte le sue cellule nervose era il padre; la sua famiglia non era completa, e per lui non lo era mai stata, sua madre era morta senza che avesse potuto conoscerla. Di questo soffriva, ma non era un simile svantaggio ad avergli messo in subbuglio la vita: dopo tutto era fuggita via ormai da tempo… la calma, la pace, le aveva odiate come e più di se stesso. La sua persona appariva schiacciata sotto l’ombra di chi aveva ancora vicino, e non lo voleva ammettere ma questa era la causa originaria del suo essere: una vita come la sua, in un posto come il suo, non poteva aver avuto molte influenze, tranne quella del padre, il vecchio, il passato che egli rifuggiva dannatamente se doveva per necessità rendere il suo vivere, come in effetti era, banale ripetitività, felice ignoranza di non fare nulla di vero, lassù, al nord. Si sentiva ancora un piccolo ragazzo incatenato con la voglia di salire al cielo, forse solo un adolescente silenzioso.
L’uomo che viveva in casa sua non era una persona normale, come tante, ma un militare, grande, possente, e verso cui egli nutriva una sorta di malcelato timore che si esprimeva in un freddo distacco. Non parlava mai della moglie, e questo pesava su di un figlio e su di un cuore che mille volte se l'era figurata cercando di recuperare un ricordo che sapeva inesistente…
Anche ora ci stava pensando.
Non poteva distoglierlo da ciò il ghiaccio che brillava abbagliante sotto i raggi del primo sole primaverile. Passo dopo passo la strada si distaccava dal fiume e proseguiva più a nord, verso il paese, ancora immerso nella neve caduta l’inverno appena conclusosi. Quell’anno era stato particolarmente rigido; molte colture, perlopiù tuberi e foraggio (le uniche che il clima permettesse), erano andate perdute, e l’unica fonte di sussistenza per gli abitanti era rimasta la pesca al salmone.
Il piccolo paese, incastonato fra le vette e i vasti boschi di conifere sembrava svegliarsi come un animale uscito dal letargo da un torpore durato una lunghissima notte. Uomini e donne cominciavano in quei giorni a riprendere le normali attività: la tetra oscurità glaciale aveva lasciato il posto ad un timido sole, e la parvenza dell’arrivo della bella stagione, quella della luce eterna, bastava per alzare il morale di tutti quanti. Durante le giornate buie appena passate, al massimo penetrate da una flebile luce orientale, pochi pensavano a quanto fosse bella la natura: forse solo lui poteva riflettere su quel prodigio, su quel fenomeno ricorrente che nascondeva le ombre, che rendeva tutto spettrale, e che caricava gli spiriti di una strana sensazione di pace angosciosa. Ogni anno, al sorgere del nuovo sole, tutto ciò svaniva, per poi tornare sei mesi dopo, in modo da far impazzire chi per caso non ci fosse abituato. Pochi erano gli stranieri da quelle parti, anzi nessuno, benché gli abitanti del posto fossero ospitali, quasi come rassegnati alla loro condizione di vita estrema, superata senza neppure saperne il motivo.
A volte egli pensava a quante persone non si accorgano di esistere, vivano la loro vita come se essa fosse un duro e faticoso batter di ciglia nell’immutabile trascorrere del tempo che di loro neanche si avvede.
Con tali considerazioni nella mente arrivò senza quasi rendersene conto al paese, calmo e rassicurante. Ma una pace così spudoratamente evidente può influenzare in modo negativo anche il più stabile degli spiriti... Portandosi una mano al collo percepì un insolito senso di calore: un misto di imbarazzo e di terrificante angoscia. Fu come un improvviso sbalzo d’umore, un abito diverso che sembrava circondare di un’aura invisibile la sua persona. Non aveva mai provato una sensazione simile, in un certo senso gli piacque, era pur sempre una sensazione, un qualcosa che non faceva altro che ampliare una segreta volontà di conoscenza.
Non era lontano da casa, anzi, ormai vi era proprio davanti. Eppure, come in un sogno, o meglio in un incubo, quella emozione stava aumentando a dismisura, sempre di più, forte, nuova, terribile ed eccitante. Un senso di paura cominciò a invaderlo tanto da fargli bloccare i piedi e prendersi il viso fra le mani. I capelli fluivano lisci, scuri fra le sinuosità delle dita arrossate per il freddo intenso che ora non era più ciò che dominava i suoi impulsi nervosi. Sotto lo spessore dei vestiti viveva un corpo diverso, capace di stimoli e percezioni al di fuori del comune; nitidamente egli si sentì proiettato in un mondo fittizio, fatto di ombre e ricordi nebbiosi legati assieme in modo incomprensibile. Sembrava che il suo subconscio tentasse di trovare, in un’infinita combinazione di memorie e di oniriche reminiscenze, degli indizi, voluti a tutti i costi da una paura solo celata dietro alla sicurezza in cui aveva sempre confidato. Un’angoscia insopportabile, una precisa e nuova visione impercettibile che di certo si stava esprimendo anche con le azioni. Ma in che modo? Da una manciata di secondi aveva smesso di badare ai movimenti del proprio corpo…era a tal punto preso da quella strana e folle sensazione da non vedere cosa stessero facendo le sue due mani. La mente tuttavia registrava…e annotava ogni cosa. Sangue.
Così come era arrivato, ad un tratto, tutto quel giro di nuove esperienze sparì, facendo ripiombare su uno spirito stremato per ciò che aveva fatto la realtà di quei luoghi.
Lo stupore di ritrovarsi a correre fra la neve lo fece sobbalzare e cadere a terra. La caduta creò un solco nella neve fresca, mentre i fiocchi trasportati dal vento settentrionale avevano ripreso a scendere, come cercando di coprire quel che era successo con un candido manto di purezza, ormai perduta.
E persa, in quel lampo accecante, era anche ogni sicurezza, magari sbagliata, ma pur sempre sua, ora violentata da una buia legge dei sensi che non può evitare di sorgere talvolta nell’uomo.
Alzandosi da quella scomoda posizione non si accorse di essersi fatto male ad una caviglia, pensava ad altro, a quello che immaginava di aver appena fatto. Lo pervase una voglia di fuggire, di allontanarsi per non aver davanti nulla a cui rispondere: tante volte l’immaginazione va così vicina alla realtà da non essere interpretabile come puro sogno, ma come verità effettiva. Spaventato da una simile eventualità riprese a correre zoppicando, ma chissà per quale forza nella direzione opposta a quella della fuga, con ansia mai provata prima, speranzoso di verificare che tutto fosse rimasto al proprio posto.
Davanti alla sua casa, isolata dalle altre, da cui usciva ancora un filo di fumo, giaceva il corpo del padre. L’uomo, riverso all’indietro, non aveva una smorfia di terrore in volto, sembrava invece dormire sereno, mentre la neve che continuava a scendere aveva già steso una patina bianca sulle vesti accese di colore e sui lunghi capelli scuri.
Il temuto si era verificato, ma sullo sguardo del giovane, adesso, non riuscì ad imprimersi uno spettro di paura: solo un indifferente atteggiamento, un rapido sentimento imprecisato che lo colse d’improvviso. Non c’era stato spazio per le spiegazioni, prima: la cecità che aveva prodotto quel delitto aveva impedito le normali regole del civile comportamento umano.
Nonostante ciò egli era contento, di una felicità subdola che si insinuava come ebbrezza dell’animo dopo un faticoso sbandamento. Il tempo si fermò per una frazione di secondo, i fiocchi sembrarono arrestarsi in segno di maledizione per quell’atto.
Il cuore pulsava pesante, tanto da farsi sentire in gola e in tutto il corpo, spandendo un sangue caldo nelle membra indolenzite. Giù, invece, fra la neve, il cuore non batteva più, tutto si era fermato; solo il sangue scorreva tingendo di rosso cupo e creando sbuffi di condensa nell’aria ghiacciata.
Un braccio del ragazzo si alzò facendo scivolare indietro parte della larga veste; ne cadde un pugnale, misero e di poco valore, sporco della sua stessa vita.
Gli occhi blu avevano perso una parte della loro vivida spiritualità, le mani tremavano come steli d’erba al vento, che spirava freddo da nord portando odori nitidi di bosco e di selvatico.
L’immobilità di quella scena durò pochi istanti, che sembrarono però secoli agli occhi di chi ancora poteva valutare il tempo.
Nulla passò e già si ritrovò in casa a cercare ciò di cui aveva bisogno: poco, tanto quanto bastava per cambiare. Voleva cambiare, sì, ma il cambiamento era già avvenuto pochi minuti prima: da opprimente pace esteriore la sua vita era passata a cupa angoscia, non motivata ma neppure inarrestabile. Anche un gesto tanto orribile doveva trovare una soluzione: e avevano dovuto saperlo fin dall'inizio, le sue mani, per aver agito così.
Conscio di ciò riuscì a trovare il necessario, e frettolosamente uscì sbattendo la porta che non si sarebbe mai più riaperta sospinta da quelle mani.
Cadevano le sue convinzioni, cadevano le sue idee universali espresse fino ad ora, mentre camminava con lentezza verso la piccola stazione del posto. La neve scricchiolava sotto i piedi che si alternavano sulla stretta strada. Il suo viso era accarezzato dal vento, che dolcemente arrossava gli zigomi armoniosi. Con gli occhi socchiusi avanzava come un viandante senza meta, non girandosi indietro per cercare di dare un’ultima occhiata alla sua terra.
Gli occhi avrebbero sgorgato lacrime, se lui l’avesse voluto; ma questo non accadde almeno fino a quando non giunse alla stazione: una calda goccia si infranse sulla neve, e lasciò un minuscolo solco come ultimo segnale di addio.
Perché stava piangendo, se non lo voleva? Perché al suo interno qualcosa non lo lasciava libero di partire? Non seppe rispondere a queste domande, ed ingannando se stesso, facendo finta di non ascoltarle, si avvicinò al piccolo treno rosso e grigio già fermo alla stazione, quasi lo stesse aspettando da sempre. Gli scalini di ferro cigolarono sotto i suoi passi con un suono lugubre e malinconico, mentre da lontano suonavano le campane a festa per celebrare la vittoria del sole. I rumori arrivavano alla sue orecchie, ma non lo distrassero, né lo turbarono: i sensi, davanti all'imponenza dei suoi pensieri, naufragarono, senza dare minima prova della propria esistenza. Il liscio e freddo scorrimano scivolava fra le mani al suo avanzare veloce; un turbinio di immagini senza significato, una segreta istintività lo guidava nelle azioni. Non si rendeva conto di cosa stesse facendo.
Fu il fischio del treno a risvegliarlo di colpo da quel profondo stato di torpore che aveva invaso le sue membra. Le pupille ripresero a focalizzare l’immagine e davanti trovarono il volto di una donna bionda; dava l’impressione di una persona del sud, interessante, anche solo da guardare. In lei nulla stonava, ed il gusto per la raffinatezza faceva intendere una discreta vivacità intellettuale.
Il suo sguardo intrigante, per nulla semplice da decifrare, lo ridestò completamente: si sedette di fronte a lei, e non pensò più ai suoi problemi. Il viaggio sarebbe stato molto lungo.
Immerso nel comodo sedile dello scompartimento passò il tempo a riflettere, ed usò i pochi momenti disponibili per parlare con la ragazza: lasciò un po’ in disparte gli altri quattro passeggeri, che continuavano a vomitare parole fra di loro senza mai smettere. Fuori dal finestrino aveva luogo una meravigliosa danza di paesaggi, che cambiavano veloci per dar sempre più spazio al verde, che sottraeva forza al bianco della neve.
Come da lì a pochi giorni addietro il sole non tramontava; giungeva basso, a terra, creando un’atmosfera irripetibile. Quell’ultima neve si tingeva di rosa, per andarsi a specchiare sui vetri del treno che ponevano il confine al cielo rosso e viola nel quale tondeggiava un grosso sole sfocato per la leggera foschia.
All’ultimo riflesso dorato che si adagiò sul suo viso stanco, una parte dei capelli scivolò giù a coprire gli occhi che caddero in preda al sonno.
In un pallido chiarore regnò il silenzio. L’orologio di uno dei passeggeri continuò a ticchettare, tic... tac, tic... tac, tic... tac..., come il lieve battito del cuore...
Il brusco risveglio del mattino fu accompagnato dal rollio delle ruote sui binari e dal vuoto del sedile a lui di fronte. Girandosi un po’ intorno con lo sguardo si accorse di essere solo, ignaro di quanto si fosse allontanato da casa verso sud.
Nessuno là lo avrebbe compianto quel mattino, se si fosse accorto della sua scomparsa.
Erano passate più di ventiquattro ore; si alzò e si sporse a guardare fuori: una giornata limpidissima incoronava una vasta pianura calda ed assolata. Il giallo spiccava nei campi arsi e nell’aria luminosa, non più fredda e cristallina come l’aveva lasciata ore ed ore prima. Il treno stava rallentando, fino a che non si fermò con uno sbuffo in una piccola stazione fuligginosa. Carico di gioia, come carico di rabbia, scese con la sua poca roba e restò fermo incantato dal nuovo spazio di vita. Un vento polveroso spazzava l’aria mentre il treno riprendeva la sua corsa. Chiuse gli occhi ed alla sua mente affiorò il ricordo piacevole di quella gelida natura ormai abbandonata; anche lassù le correnti d’aria sparpagliavano i suoi capelli, come mani aggraziate capaci di far provare sempre sensazioni diverse.
Non volle fare altro che incamminarsi; uscendo dall’edificio vide l’anziano capostazione aggirarsi con andamento pacato sullo sterrato antistante l’ingresso; era curvo, e di tanto in tanto si passava una mano sotto il cappello blu, farfugliando poi qualche parola incomprensibile.
Voltandosi dopo breve procedette per una piccola strada ciottolosa, tra i caldi campi che si estendevano a perdita d’occhio. Il sole rendeva quasi insopportabile il calore, ampliato dal grano che sembrava quasi bruciare sotto il cielo terso ed agitato. Il mare non doveva essere lontano, era presagito da una brezza a lui sconosciuta, inebriante come una droga in quel pomeriggio che stava andando a morire, lì dove il sole non era più destinato a non tramontare.
La sua vita non valeva che una stella in tutto l’universo, e ne era consapevole: provava un profondo malessere mentre procedeva veloce colpendo con i piedi qualche sasso grigiastro.
Camminava già da un quarto d'ora, quando da lontano un sordo brontolio lo fece voltare; stava arrivando un’auto nera, scintillante, e creava un polverone che andava a depositarsi sul ciglio della strada sporcando le erbacce. Tornò a camminare, come privo di curiosità verso quel mezzo potente che poco conosceva.
Fu costretto a girarsi nuovamente quando quel rombo si interruppe proprio dietro di lui; l’auto si era fermata, per qualche secondo non accadde nulla, poi ne uscì una ragazza, alta, snella ed abbronzata.
“Vuoi un passaggio?”, chiese togliendosi gli occhiali scuri e rivelando due occhi neri e profondi. “E’ raro vedere qualcuno che percorre questa strada, almeno che io ricordi...”.
Alzando gli occhi socchiusi per la luce intensa i due si guardarono fintanto che lei non ricominciò a parlare. “Ci sono ancora sette miglia per arrivare al mare, e credo che bruceresti prima. Dai, salta su!”. Rapidamente salì in macchina ed accese il motore: a quel rumore egli, che era rimasto imbambolato per gli avvenimenti appena rotolatigli davanti, fece quei pochi passi che lo distanziavano dall’auto e lentamente vi si ritrovò dentro. Un secondo dopo erano partiti, ed i campi cominciarono a correre sempre più veloci, fino a diventare un’unica massa dorata che a sinistra si mescolava coi capelli dell’autista ai quali il sole donava un colore luminoso. Guidava sicura, con un sorriso sulle labbra che rendeva ancor più dolci i suoi lineamenti. Invece sulla destra i capelli scuri coprivano un capo reclinato, di un uomo in un certo senso a disagio per la sicurezza di quella ragazza. Per i primi minuti l’unico rumore proveniva da fuori, dal frusciare delle piante e dal ronzio degli insetti. Poi, a rompere il silenzio, occorsero le parole impostate di chi stava al volante: “Come ti chiami?”. Risvegliato dai suoi pensieri, l’altro rispose timidamente, alzando lo sguardo per incrociare quegli occhi, misteriosi e bui ed allo stesso tempo rasserenanti e luminosi.
“Io sono Julia”, continuò, “abito a ***, sul mare. E’ una piccola città sulla costa, isolata ma molto suggestiva”.
Guardò il passeggero abbassandosi gli occhiali e gli chiese cosa ci facesse in un posto come quello; a tale domanda dovette rispondere con poca sincerità, con una storia inventata su due piedi. Spiegò che non aveva più nessun legame col luogo da cui proveniva, e che si era spinto fin laggiù per trovare lavoro e sistemarsi una volta per tutte. Era titubante ed ansioso. Con tali parole non pensò di convincere chi aveva fatto la domanda: ma comunque la ragazza stette zitta. Il suo volto dava a dimostrare pienamente i suoi soli diciassette anni, e quindi la difficile verosimiglianza della storia.
La giovane alla sua sinistra doveva avere almeno vent’anni, era vestita molto semplicemente, i capelli le arrivavano alle spalle, ma non le coprivano completamente.
La sua bellezza non nascondeva quello che doveva essere il suo spirito. Fin dal primo sguardo si era accorto che per lui non sarebbe stata una persona qualunque, e questo perché dava a vedere una beltà d’animo ed una grandezza difficili da trovare. Non riusciva neppure a guardarla per più di un secondo: era imbarazzato, ma fatalmente attratto da lei...
L’auto cominciò a rallentare non appena comparvero le prime case, delle basse villette isolate con giardini circondati da cancelli verdi o blu che stonavano con il caldo giallo della natura circostante. In giro non si vedeva nessuno, solo ogni tanto qualche macchina impolverava i marciapiedi di pietra solcati ad intervalli regolari da alti lampioni in stile europeo.
La strada procedeva in salita, ed una collina non permetteva di vedere oltre; in una perfetta simmetria case e marciapiedi scalavano quest’altura, come ignari della pendenza.
In quei pochi minuti passati sull’auto di Julia, vide scorrere davanti a sé un nuovo mondo, un’estate perpetua ignota ai suoi luoghi. Aveva ancora impresso nella mente il ricordo del suo mare gelido, quando l’auto superò la collina e rese accessibile agli occhi una nuova parte della landa pianeggiante: credette di essere uscito da una buia galleria; scorse un panorama che lo lasciò a bocca aperta.
La strada declinava dolcemente verso sinistra, lasciando libera la vista sulla città, a destra. Il mare sovrastava le case, esteso a perdita d’occhio su di una lunga costa color ocra: su di esso sembrava sospeso un sole dalla luce infinita, che dava alle onde, blu come la notte, dei riflessi dorati che andavano ad infrangersi contro la battigia. Di contro tante case bianche ed azzurre in un dedalo di vie e giardini completavano la meraviglia di quel luogo. L’abitato si dilungava, apparendo come inserito in una lieve depressione, per buona parte della zona costiera visibile, e continuava anche dall’altra parte della strada che i due stavano percorrendo, andandosi a mescolare con i campi da cui erano sbucati.
“Fa un certo effetto, non trovi?”, disse Julia sentenziosa. Il ragazzo vicino a lei riuscì appena a fare un cenno affermativo, ancora attaccato al finestrino per contemplare lo spettacolo che gli si era posto davanti così inaspettatamente.
“Va bene se ti lascio qui?”, propose l’autista pigiando sul freno e fermando la macchina.
Dopo una breve riflessione, ostacolata dal fatto che la mente rispondeva male, disse di sì e scese dall’auto chiudendo lo sportello. Dal finestrino abbassato Julia si sporse. “Sei sicuro di non avere bisogno di niente?”. All’ennesima risposta affermativa voltò lo sguardo, prefiggendosi di non voltarsi più a guardare quegli occhi celesti che l’avevano colpita fin dal primo istante.
Si era già girato verso il mare ed appoggiato al parapetto che immetteva poco più in là in una rampa di scale discendenti, quando gli sovvenne il problema di come avrebbe passato la sua prima notte. Soldi ne aveva, ma non a sufficienza per vivere a lungo; in qualche modo se la sarebbe cavata, e così si fermò sereno a guardare lontano. Alle orecchie giungeva il dolce fragore dell’acqua e le narici erano investite da strani ma piacevoli odori mai provati prima. Si sentiva misteriosamente legato a quei posti, a quella terra che profumava di incenso e che riempiva il suo cuore di un’illimitata felice malinconia. Le sensazioni che stava provando non sapeva bene da cosa fossero condizionate, se da una profonda suggestione o se da suoi accattivanti meccanismi interiori. Asciugandosi l’umidità che il vento aveva fatto scivolare fin sulle guance, si spostò verso la scalinata per scendere nel cuore della città.
L’aria si stava affievolendo, ma una sottile brezza marina lo accompagnò nella sua discesa, insinuandosi tra i vestiti e fra il suo viso.
L’ultimo gradino dava inizio ad una lunga stradicciola fiancheggiata da abitazioni esili e da qualche panchina: presumibilmente doveva arrivare sino al mare. Un piccolo muro incrostato dall’edera faceva capolino di tanto in tanto restringendo il passaggio. Sembrava che nessuno lo volesse incontrare, che tutti lasciassero a lui solo la fortuna di ammirare il paese. Saranno state le sei inoltrate, ma ancora il sole non dava segni di voler diminuire il suo calore.
Aveva fame, e ricordandosi di essere a digiuno da quasi un giorno intero cominciò a pensare ad un modo per risolvere la situazione. Bastava rivolgersi ad un passante e chiedergli dove si trovasse un albergo od una semplice locanda: ma non era così facile.
Quella stradina continuò tortuosa per circa duecento metri, poi svoltò bruscamente in un vialetto alberato. Camminando fra i tronchi delle dozzine di strane palme si guardò intorno; l’ombra di un edificio gli copriva il sole, sempre più basso; l’atmosfera si stava facendo davvero suggestiva, sottolineata da una pace misteriosa che gli ricordava le vergini distese di neve della sua casa. Le sue gambe, dritte e ferme nel mezzo della città disabitata, provarono ad un tratto un formicolio, come una sorta di impedimento a proseguire. Era passato pochissimo tempo da quando aveva sentito il cuore sereno, da quando quella strana ed affascinante ragazza gli aveva teso una mano amica, per guidarlo e magari farlo raccapezzare fra le stesse sensazioni che ora lo assalivano tutte riverse contro la sua mente. Forse aveva ragione, aveva davvero bisogno di aiuto, perlomeno per uscire da quei luoghi labirintici, ma una maledetta dose di superbia lo aveva bloccato, in tutti i sensi; non voleva rivivere le esperienze che lo avevano attaccato due giorni prima, cercò di restare calmo, continuando a camminare come un normale passante. Fra sé e sé credette di capire il motivo di una simile sinistra desolazione: quella parte della città, così caratteristica e sottilmente esotica doveva essere viva soltanto d’estate... e mancava ancora più di un mese. Fuori stagione le spiagge erano in gran parte deserte, e come ovvio la popolazione locale si riduceva a poche centinaia di persone, lasciando abbandonati i quartieri in cui si trovava ora a passeggiare. Doveva essere così.
Passarono altri dieci minuti; l’ambiente stava cambiando; aveva seguito la costa, all’interno dell’abitato, quando svoltando da un buio vicolo si ritrovò nei pressi di un piccolo porto. Come un’oasi nel deserto quel luogo pieno di attracchi faceva rinascere la vita: su di un acciottolato sconnesso, rotto ed intermezzato da rigagnoli e pozzanghere, il giorno pigramente stava morendo. Già il rossore occidentale appariva all’orizzonte, tinteggiando le acque di mille caldi colori; le persone, di fretta, si disperdevano in un brusio fra la moltitudine di vicoli, e quei pochi che ancora lavoravano sulle modeste imbarcazioni ritiravano le vele e si godevano in compagnia la magica atmosfera. I pontili rollavano ancora, mentre il mare gorgogliava quasi volesse esprimere i propri sentimenti.
Era bello vivere quei momenti da solo; con disinvoltura si avvicinò ad una piccola barca rossa e gialla, con a bordo un uomo già attempato intento a fumare una sigaretta rivolto verso il mare. Bastò un breve cenno per farlo voltare; al che egli, pochi metri più in là, gli domandò ciò che aveva pensato una mezz’oretta addietro. Il viso dell’uomo, non aggraziato, ma elegante, si aprì in un marcato sorriso, e la risposta uscì chiara dalle sue labbra screpolate: “Se vai per quella strada arrivi in cinque minuti ad un alberghetto...”, fece indicando una movimentata zona del porto; “Ma non aspettarti niente di eccezionale: questo posto diventa importante solo d’estate, quando arrivano i ricchi”, continuò sfociando in un’espressione tra l’amaro ed il rassegnato.
La conversazione si interruppe; ringraziò. L’interlocutore tornò alle sue faccende: forse lo aveva turbato; dal tono di voce non doveva essere molto soddisfatto della propria città, l’aveva descritta quasi come affetta da un cancro che la soffocava e che le impediva di vivere...
La facciata dell’albergo profumava di vecchio. L’insegna luminosa dava flebili impulsi di luce intermittente, e da lontano si sentiva ancora il rumore delle onde che sembravano affievolirsi lentamente come destinate ad addormentarsi al calar della notte. La temperatura era scesa, ma permetteva comunque di sentire sulla pelle un piacevole calore.
Entrò quasi malvolentieri da una porta di legno cigolante e dipinta di un azzurro acceso; si diresse sulla sinistra, dove si trovava un bancone coperto di carte; vide sull’altro lato tre tavoli ai quali erano sedute alcune persone, tutte con lo sguardo fisso su di lui. Erano cinque vecchi dallo sguardo duro, pietrificato; si poteva presumere che passassero lì tutte le loro serate: in quel tardo pomeriggio erano stati premiati dalla fortuna, avevano la possibilità di vedere qualcosa di insolito per quel locale. In effetti il ragazzo, rigido ed imbarazzato, non costituiva il tipico cliente del posto, dove il tempo sembrava non essere mai entrato a creare scompiglio...
La porta sbattuta con forza aveva provocato qualche effetto: uno scricchiolio di scarpe si stava avvicinando lentamente, qualcuno stava arrivando, e si presentò dopo brevi istanti di attesa. Il padrone della locanda era un uomo imponente dagli occhi scavati; accolse il giovane con un’inaspettata quanto calorosa stretta di mano. L’atmosfera sembrò rasserenarsi dopo quel semplice gesto, tutte le anime presenti nel locale parvero tirare un sospiro di sollievo: a questo punto le parole arrivarono su di un campo già arato e pronto per la semina.
I due ben presto si accordarono, ed il padrone invitò l’altro a seguirlo. La porta da dove poco prima era uscito l’uomo, fatta di legno con un grosso vetro circolare, si trovava al lato opposto del bancone da cui il ragazzo non si era mai mosso. Ora, passando vicino ai vecchi per attraversare la sala notò che un poco discosta, dietro agli altri, c’era un’altra persona: prima non era riuscito a vederla. Si trattava di un uomo vestito con un impermeabile scuro che sembrava non essere per niente interessato a quello che gli stava accadendo intorno. Non alzò neppure la testa quando una terza porta si aprì e sbatté rumorosa, proprio vicino a lui; era immerso in pensieri che producevano sul suo volto una smorfia di sofferenza.
La stanza accanto consisteva nella sala da pranzo, interamente in legno, che terminava con una rampa di scale a chiocciola. Incoraggiato dall’accompagnatore, che di nuovo sparì da una piccola porticina nascosta sulla destra, si sedette ad uno dei sei tavoli. Il luogo, che profumava di legno e di segatura, gli ricordava alla lontana un sottobosco; dalle tre finestre triangolari, disposte in fila su un unica parete, si poteva scorgere la strada da cui era giunto, ormai quasi deserta e sempre più buia. Mentre fissava la lunga ombra che ancora proiettava l’unico lampione visibile dalla sua posizione, entrò per quel piccolo passaggio una ragazza. Doveva essere una cameriera, perché stava portando tutto il necessario per apparecchiare la tavola.
Dopo un veloce e timido saluto le sue piccole mani, in modo armonioso, prepararono e disposero sotto gli occhi dell’unico commensale ciò che avevano fin lì portato dalla cucina. La vista di lei non poté che catturare la sua mente: il suo corpo esile era inquadrato da un viso splendente, luccicante come le posate che aveva appena ordinato sulla tavola. Sotto la leggera divisa azzurra e bianca apparivano delle forme delicate ed i capelli legati all’indietro, castani, completavano la figura. Anche gli occhi di lei incrociarono con dolcezza il volto di chi la stava osservando. Il verde iridescente sembrò accendersi, si dilatarono le pupille, ed un rossore verginale elevò la bellezza del suo volto.
Veloce come era apparsa sparì senza essere riuscita a dire una parola. Anch’egli era rimasto in silenzio, col cuore gonfio dell’amore che aveva accumulato durante quella giornata. In balìa di un mare di emozioni riuscì a mangiare ben poco di quello che gli fu servito, poi, fatta domanda alla ragazza, ottenne di sapere dove fosse la propria stanza. Così, salendo la scala a chiocciola, la raggiunse; la chiave era inserita nella toppa: fece scattare la serratura, aprì la porta ed entrò. Gettò la chiave sul primo mobiletto che incontrò, una piccola cassettiera nera, e si mise ad osservare il posto; il letto occupava gran parte della stanza, piccola ma arredata con buon gusto; una porta nascondeva il bagno, ed un’altra, a vetrata, conduceva in uno stretto terrazzo.
Stanchissimo si lasciò scivolare sul letto di legno dalle colorate lenzuola, e, con lo sguardo fisso al soffitto, permise che la sua mente si smarrisse nel ricordo degli avvenimenti che quel giorno si erano impressi in lei. E così poté rivedere molte cose: la donna del treno, la ragazza dell’auto, la cameriera; tutte, a modo loro, gli avevano regalato qualcosa... Si ritrovò senza accorgersene seduto sul lembo del suo giaciglio: era passata forse una mezz’ora, e per rendersene conto si alzò in piedi e decise di uscire in terrazza. Aprì agevolmente la vetrata dopo aver spostato le tende blu che la coprivano. Mentre usciva in quella limpida notte lo raggiunse una ventata, piacevole e tiepida. Avanzò di qualche passo e poi si fermò appoggiandosi alla ringhiera traforata, guardando fin dove la vista lo permetteva.
La notte era ormai scesa ad avvolgere ogni cosa con il suo silenzio rassicurante.
Mai come in quel momento si era sentito così solo; in fondo, però, cosa c’era di più bello se non proprio quella situazione di estrema malinconia, accentuata dal leggero rumore sordo del mare, in lontananza... nessuna voce, nessun rumore poteva rompere la magia di stelle che nel cielo andavano a fondersi con i riflessi argentei della luna sulle onde, giù, verso ovest.
Il vento, come sottomesso al suo volere, cessò di soffiare, caricandosi di un’aura che sembrava sconfiggere l’oscurità della notte. Con lo sguardo ancora perso fece quei pochi passi indietro che servivano per rientrare nella camera; si ritrovò immerso nella luce, la spense: era troppo stanco per fare ancora qualcosa. Vestito si addormentò sulle lenzuola intatte; il peso della vita stava diventando insostenibile. Grande mistero covava quell’eterna notte, bella di un fascino esotico che prometteva quiete e tristezza.
B
Il nuovo giorno causò la rottura dell’incantesimo: una luce inarrestabile, calda, piena di particelle di pulviscolo si spandeva per la stanza ed andava ad illuminare i suoi occhi ancora chiusi: disteso scompostamente con le gambe raggomitolate godeva degli ultimi secondi di sonno, quando i raggi accecanti del sole già alto lo fecero scattare seduto sul letto. Ansimando come dopo un incubo si accorse di essere vestito; si alzò ed andò a sciacquarsi il viso. Si sentiva i piedi pesanti ed anchilosati: aprì il rubinetto, e l’acqua fredda liberò la mente ancora intrappolata nei poco chiari sogni del dormiveglia. Con violenza, per due o tre volte, scosse il capo assonnato, poi restò fermo con le mani piantate sui bordi del lavandino.
Con i capelli ancora bagnati prese la sua poca roba, e senza pensare a nulla di preciso scese di sotto. Attraversò veloce la cucina, si ritrovò nell’ingresso: non si aspettava di vedere davanti a sé la ragazza della sera passata.
Sentendo quei passi sicuri e cadenzati lei aveva alzato lo sguardo, prima basso su di un grosso librone scuro, e più il ragazzo si avvicinava più sentiva crescere qualcosa: le guance si tinsero di un rosa caldo, e in preda ad una profonda stretta allo stomaco riuscì appena a rispondere alla breve domanda pòstale dalla persona che ormai le si trovava di fronte. “Posso pagare a te?”, chiese in tono retorico porgendole un paio di banconote per la cena e la stanza. Durante il passaggio di quel poco denaro i quattro occhi si incrociarono come il giorno precedente: ora però con uno scopo diverso, come per tentare di penetrare i pensieri dell’altro e carpire da essi le sensazioni provate. Istintivamente la mano di lei si spostò su quella di lui, lieve, per poi ritrarsi con un timido movimento; sempre in silenzio il ragazzo firmò il registro dell’albergo, quindi si avvicinò ancor di più al suo viso, che intanto si era fissato sui capelli scuri, umidi, quasi grondanti.
I due potevano sentire il respiro reciproco e la forza tentatrice dei loro volti sui quali era impressa un’espressione severa che copriva il vero stato del loro essere interiore... la mente sembrava parlare da sola.
Non era il momento giusto, lo sapevano entrambi, si scostarono; lei restò ferma dietro il bancone mentre l’oggetto del proprio turbamento si allontanava scomparendo nella luce del giorno. Si portò nervosa un dito sulle labbra, poi richiuse il registro e si voltò.
Fuori il paese era già in piena attività, le strade erano discretamente affollate ed il mare appariva solcato da imbarcazioni di diversa grandezza. Qualche nube verso sud rendeva la giornata meno splendente della precedente, sebbene la temperatura non lo desse a credere.
Pensò che poteva riprendere a viaggiare, oppure sistemarsi in qualche modo in quella attraente città, ed attendere. Il giorno appena passato aveva ben ritenuto di risolvere i problemi con calma, ma ora non potevano più essere rimandati, doveva trovare il modo di metterli a tacere... Non credeva fosse tanto difficile: era solo, privo di un qualsiasi aiuto esterno, e si sentiva un estraneo nella laboriosa cittadina che aveva di fronte. Viveva ancora in un mondo tutto suo, ascoltando i rumori che lo circondavano come da una bolla chiusa ed invisibile alla vista degli altri; mentre passo dopo passo superava le basse case ed i giardinetti verdi incontrava gente di ogni tipo e di ogni età: qualcuno si girava a guardarlo, perché di certo non passava inosservata la sua figura alta ed importante, ma era solo un istante. Neppure se ne accorgeva, era immerso nei suoi pensieri... ma forse era proprio quello il modo per crearseli.
Esplorare da solo un luogo del tutto nuovo dava un’eccezionale senso di libertà, un’emozione forte: poteva risultare positiva, ma dentro di lui ebbe un effetto devastante. Non si trattava di un viaggio lontano da casa di un semplice giovane turista, andava ben oltre, era... era il totale distacco dal mondo dove era cresciuto, una lacerazione troppo forte per non sentirne il dolore in tutti i suoi strappi.
All’improvviso, senza un vero motivo, fu assalito da un forte senso di nausea, lo schiacciante peso del ricordo lo lasciò in balìa di una visione. Cadde in ginocchio con gli occhi sbarrati. Forse era l’inizio della punizione, dell’eterno supplizio che egli stesso inconsciamente si stava scagliando addosso, forse era il momento di ricordare qualcosa che aveva censurato dal profondo... Non sentì dolore, al contatto col suolo; percepì soltanto una veloce scossa ormonale, come una pugnalata al cuore, la stessa che si era visto davanti pochi istanti prima.
Le mani si sporcarono di polvere, e i capelli si scomposero coprendogli la vista già annebbiata.
Intanto si erano fatte intorno a lui parecchie persone, spaventate ed incuriosite; due uomini, all’unisono, lo aiutarono a rialzarsi. Era ancora intontito da quel malore. Non sentì con chiarezza le voci dei due, ma tuttavia rispose con delle parole concitate: “Non è niente, Julia...”, veloci quanto strane: la ragazza dell’auto non era lì, ma forse avrebbe voluto che ci fosse.
Passandosi una mano sulla tempia sinistra riaffinò la vista ed identificò i suoi due aiutanti: si erano spostati di un paio di metri. La piccola folla si diradò, ed anche i due uomini, dopo aver toccato la mano del ragazzo in segno di amicizia, si allontanarono.
Il sole era ancora là, come se nulla fosse accaduto; il mistero della scelta di quel nome, Julia, lo tormentò ancora a lungo: non ne capiva le ragioni, lui che era abituato ad amministrare da sé le proprie emozioni. Al terribile ricordo di quei pochi giorni addietro il suo ego aveva ceduto: aveva dovuto affiancare il nome di qualcuno a ciò che non era riuscito a gestire da solo, era riuscito addirittura a mistificare il verbo del suo padrone, pur di sopravvivere... un meccanismo alquanto oscuro. Poteva significare un’avvenuta esplicitazione a se stesso dei propri sentimenti, quelli non veicolati dalla ragione, la vergogna, l’amore, oppure qualcosa d’altro... non riusciva più a raccapezzarsi. Si sentiva bene, ma in fondo il suo animo era turbato da una grande emozione che gli sconquassava il cuore. Il fisico ne risentiva, poteva capirlo, ma come prima non percepiva dolore, attenuato da una misteriosa dolce melodia che riecheggiava da lontano. Un mondo a sé si stava creando da quel nucleo di pura emozione, davanti ai suoi occhi e nel profondo del suo spirito, precipitato veloce nell’oblio dei sensi.
Riusciva ad avanzare sulla strada soleggiata, ma le persone sembravano passargli accanto senza provocare in lui alcuna variazione, perché il tempo era fermo; casa dopo casa la città pareva infinita, eternamente destinata ad essere il luogo della sua piacevole dannazione. Non riusciva a convincersi di essere malvagio, pur dopo ciò che aveva fatto: il rosso del sangue, ed il pugnale così luccicante ancora fra le sue mani parevano una finzione, una farsa teatrale, tragica ma lontana all’infinito. Un subdolo modo per negare a se stesso l’evidenza? O forse una prova lampante del perdono divino? Non poteva rispondere, solo a pensarci sentiva la fronte imperlarsi di un freddo sudore colpevole...
Ma poi perché tutto ritornava alla mente proprio ora e non il giorno prima? Il tempo non stava cancellando le ferite, stava aprendo una piaga sempre più profonda, provocata dalla morte dell’unica persona rimastagli cara... ed era stato lui! Eppure no, non amava il padre, non lo aveva mai sentito vicino (così almeno credeva), non gli aveva mai parlato dolcemente come un genitore. Quel terribile giorno aveva scoperto la verità su di lui; aveva avuto ben ragione dei propri sentimenti... il padre non era più tale, era...
Un gradevole suono interruppe le sue riflessioni, come se il destino volesse farlo soffrire a poco a poco. Era giunto ai limiti del paese, più avanti si estendevano i campi, e poi i prati; sulla destra c’era un’abitazione molto particolare: una villetta con un ampia veranda, a cui si poteva accedere tramite una stradina pietrosa che aveva inizio da un cancello di metallo mezzo arrugginito. Sembrava disabitata, le finestre erano sbarrate e la condizione dell’ingresso non era delle migliori, eppure da dentro arrivava una musica che non aveva mai udito, ma che gli pareva tanto famigliare...
Le note di un pianoforte stavano scandendo dei suoni tanto lenti quanto tristi; erano reali, ma il dubbio che a crearseli fosse solo l’immaginazione lo scosse con forza. Quel ritmo rimbombava nelle sue orecchie anche lassù, lo ricordava, ma più rapido ed incessante: tuttavia non era riuscito ad evitargli di compiere lo spaventoso delitto... il suono ora si stava affievolendo, mentre cercava di trovare un motivo per quel gesto. Ricordava solo una strana condizione fisica e mentale, e poi il rosso cupo... la memoria aveva cancellato dei secondi, o forse dei minuti, trascorsi prima della visione della morte. Che in essi fosse nascosto il motivo della sua fuga? Sentiva lontana la risposta a questa domanda, remota come la fonte da cui proveniva la musica.
Qual era il senso della propria vita? Perché poco fa aveva creduto di comprenderlo, ed aveva avuto veloci squarci di quel ricordo dimenticato? Il padre non c’era più; oltre che il suo corpo stava svanendo anche la sua stessa identità. Aveva sempre voluto che il figlio diventasse come lui, abile, forte, ma non riuscì mai a soddisfare le sue intenzioni; l’odio del ragazzo cresceva di giorno in giorno, non si dava pace. Ricordava ancora la volta in cui era scappato nel bosco, ai margini del lago: aveva tirato fuori uno strumento di legno che si era costruito rozzamente con un coltello arrugginito, ed aveva cominciato a suonare. Il padre lo aveva raggiunto. La fragile arpa andò in mille pezzi sotto i suoi piedi possenti: non poteva sopportare che si comportasse così.
Ma quello non poteva bastare a giustificare una vendetta così cruenta: cosa c’era d’altro?
Credette di impazzire; indietreggiò di pochi passi e poi, senza riflettere, si mosse rapidamente verso una strada ombreggiata. Sentiva nel cuore solo più una lenta messa di requiem...
Un campanile batté dodici cupi rintocchi, segnavano la fine della mattinata, e l’inizio di un interminabile pomeriggio. Non aveva fame, ma quasi per istinto entrò lo stesso in un locale, forse solo per riposarsi: aveva girato per tutta la città, senza uno scopo, e d'altronde non sapeva nemmeno perché vi si trovava.
La modernità della tavola calda stonava con l’antica via dove era collocata, ancora lastricata in pietra e fiancheggiata da bassi lampioni lavorati.
Dicendo di trovarsi a proprio agio avrebbe mentito: una rapida occhiata alle mense di legno chiaro gli mostrò una clientela tutt’altro che affabile... In un angolo discosto notò due ragazze che valeva la pena di osservare. Erano composte, e spesso sorridevano con un’espressione che deformava piacevolmente le loro labbra; decise di andarsi a sedere proprio laggiù, e con passo deciso cominciò il breve cammino. All’improvviso le ragazze avevano interrotto le loro discussioni: si erano fatte ormai molto vicine, poté distinguerne gli abiti, semplici, ma di una graziosa finezza che esaltava la loro femminilità, esuberante come la primavera, tinta di colori caldi e solari, giallo, rosso e arancio.
Alzarono il capo; lo videro sedersi lì accanto, poi, discrete, riabbassarono lo sguardo con una certa timidezza. Finirono di bere le gocce rimaste negli alti bicchieri azzurri; ripresero a parlare, a bassa voce, i capelli corti slanciavano la loro figura, ed ancor di più quando si alzarono in piedi. Dopo aver avvicinato le sedie al tavolo cominciarono a muoversi verso l'uscita; quando furono a qualche metro dal luogo dove erano sedute, la bruna si voltò verso il ragazzo con la precisa intenzione di guardarlo. I suoi occhi vibravano in un modo che non era quello di una ragazza che osservava un uomo, si trattava d'altro, come di chi provava pietà per qualcuno: riuscì a vederla bene, ed un istante bastò per imprimersi nella mente quei dischi castani pieni di angosciosa malinconia.
Se ne stette lì seduto a consumare qualcosa; sembrava che quella ragazza lo avesse già accusato e compatito, che tutti sapessero tranne lui, straniero.
Una bottiglia cadde per terra frantumandosi: mille cocci brillarono sotto il sole che penetrava con i suoi raggi all’interno del locale; il cameriere che ne era stato responsabile, al bancone, si affrettò subito a rimediare al danno chinandosi sul pavimento. Qualche vetro era arrivato fino al suo tavolo, ed un riflesso verde lo distolse dagli occhi tristi e profondi che aveva ancora davanti; si alzò, raccolse il piccolo pezzo color smeraldo e insieme ai soldi per il conto lo portò al proprietario chinato faticosamente sulle ginocchia. Si diresse verso l’uscita.
In strada dovette abbassare lo sguardo per abituarsi al sole: non poteva più girovagare in quel modo, non avrebbe combinato mai nulla, i soldi stavano per finire, ed il suo morale era a pezzi...
Come per incantesimo i chiari raggi solari stavano di nuovo lambendo il mare, verso l’orizzonte; si trovava ancora fra gli oscuri vicoli, a camminare senza meta, le ombre sempre più lunghe: la gente scompariva, mentre le prime stelle facevano capolino come impaurite flebili fiamme.
Non si sentiva sicuro, al contrario un timore prima soffocato stava esplodendo; aveva creduto di poterlo domare, ma invano: contro la sua volontà l’oscurità stava calando, e così gli ultimi barlumi di sicurezza. Il dedalo di vicoli pareva ora più che mai un luogo del non ritorno, dove le più pesanti paure riuscivano finalmente a rivelarsi. Era una premonizione, o forse un oscuro gioco della sorte, fatto sta che ogni rumore rimbombava nelle orecchie e non voleva più uscirne, attaccandosi alla sua testa come il rintoccare di centinaia di campane.
Non doveva essere lontana la serena camera dove si era ritrovato il giorno precedente, ma era impossibile rintracciarla, ora: tutto cambiava ogni secondo, la mente non aveva il tempo di ambientarsi, ed i suoi passi acceleravano, come per istinto; non voleva provare paura, ma di tanto in tanto non poteva fare a meno di voltarsi.
Il pomeriggio non era stato poi così lungo, in un batter di ciglia la luce era sparita, ed un manto di tristezza era piombato sulla città; era lì solo da due giorni, ma credeva ormai di conoscere alla perfezione le case, i vicoli, le persone... non riusciva a capire cosa gli rendesse tutto così maledettamente famigliare...
La morsa allo stomaco divenne penosa, si sentì di nuovo male, come poche ore addietro; era l’aria del posto a provocare un simile avvelenamento. Con la mano al ventre gli occhi si socchiusero, ma ora non c’era nessuno intorno pronto ad aiutarlo. Avrebbe voluto resistere. Una profonda fitta non glielo permise, e cadde a terra seminascosto nell’oscurità; restò conscio ancora per poco, tanto per emettere un flebile respiro affannoso... le percezioni stavano svanendo a poco a poco, l’oblio si avvicinava sotto forma di un terribile incubo, come quelli che si provano durante il delirio delle febbri. La sua malattia non era fisica, era provocata da chissà quali verità di cui non era a conoscenza, sul suo passato, sulla sua stessa persona...
Era svenuto, il respiro rallentò e divenne sempre più flebile; gli occhi, nascosti dalle palpebre abbassate, sussultavano, e le mani davano segni di vita tanto evidenti quanto tristi a vedersi su quel corpo. Qualcuno c’era a guardare il ragazzo; nell’ombra non aveva voluto farsi riconoscere, ma ora uscì allo scoperto e fece pochi passi verso ciò che sembrava un cadavere riverso. Si chinò, fissò il viso patito, non era ancora sicuro del proprio agire; in ginocchio, all’incrocio di due viottoli bui, si guardò intorno: non c’era traccia di gente indiscreta. Dolcemente adagiò una mano sotto il capo reclino del giovane, e con l’altra accarezzò la guancia già ruvida di una sottile barba. Lo chiamò per nome, ma non ottenne risposta, allora lo sollevò un po’ fino a metterlo seduto, sostenendolo da dietro, ma la reazione fu la stessa.
Senza pensarci due volte afferrò un braccio e se lo portò intorno al collo, poi, con notevole sforzo, riuscì a sollevarlo in piedi. La strada da fare non era molta: l’automobile era vicina, era là dove le strade si facevano larghe abbastanza per permetterne il passaggio; il peso che gravava sulle spalle era insopportabile, ma più ci pensava e più diminuiva di intensità. Superò le poche decine di metri necessarie per raggiungere la vettura: era ferma in un’ansa sterrata e polverosa, ai lati di un’abitazione in rovina; da lontano si sentivano gli ultimi rumori del porto, soffocati dal mare che borbottava alzandosi nella notte.
Aprì la portiera di destra con un semplice gesto e fece sedere il suo fardello: la testa rimase bassa senza dar segni di ripresa. La chiave scattò anche a sinistra, e finalmente il motore si avviò rombando. Passarono pochi minuti, erano già fuori da quel luogo maledetto: il conducente immise l’auto su di una larga strada che portava fuori, verso la campagna dell’entroterra, mentre il ragazzo dormiva sottratto al veleno della città, rappresentata solo più da luci che si allontanavano nell’oscurità. Pochi lampioni illuminavano la parte di collina che stavano percorrendo, a poca distanza dal mare: la loro luce accendeva ad intermittenza i volti dei giovani seduti in macchina. Al volante lei gettava rapide occhiate ai suoi capelli che scintillavano a tempo, come le creste delle onde che riflettevano la luce della luna: gli sfiorò una mano, fredda, come per riscaldarla ed infonderle sicurezza. Sperava che allontanandolo da laggiù si sarebbe sentito meglio, che si sarebbe risvegliato avendo in mente solo un lontano incubo, doloroso ma non reale.
Nello specchietto retrovisore apparivano solo più campi, ma ancora la situazione non migliorava: continuò a guidare, c’era un eterno silenzio che rendeva magici quegli attimi che trascorsero finché l’auto non si fermò.
Si erano allontanati di un paio di chilometri dal mare, e non c’era già più traccia di insediamenti umani. Solo una grande casa, antica ed immersa nel verde celato dalla notte. Uno stretto vialetto congiungeva la strada principale all’abitazione, e continuava ancora, andando a perdersi in giunchi e canneti che tradivano la presenza di un lago.
Scesa dall’auto prese una boccata d’aria e si sedette su di una roccia appiattita e infestata dall’erba: conosceva bene quel posto, ma lo stesso cominciò a contemplarli come se la presenza del ragazzo li rendesse migliori... Un leggero vento caldo scuoteva i radi cespugli che fiancheggiavano il cammino sterrato, ed il tenue ma battente ronzio dei grilli completava l’atmosfera estiva, su cui si affacciava una pallida luna ormai morente.
Sebbene fosse mezza nascosta dalla notte, riusciva a vedere sul volto del ragazzo un’espressione più serena: ormai sembrava solo semplicemente addormentato; non volle che si svegliasse sullo scomodo sedile dell’auto, per questo si alzò e con la stessa fatica di quando l’aveva fatto salire ora lo fece scendere. Adagiò il corpo a pochi metri dalla strada, lungo un declivio naturale che saliva in direzione della casa; dopo avergli appoggiato il capo sull’erba si sedette a fianco ed attese. Tutto taceva.
Infilò una mano nella tasca destra della giacca, e dopo aver trovato ciò che cercava ruppe il silenzio accendendosi una sigaretta: ogni volta che la portava alla bocca ed inspirava questa sfrigolava, inebriandola col fumo caldo che andava a mescolarsi con l’aria afosa ed umida che spirava dal mare. Fissò il tizzone rosso fuoco chiudendo prima uno poi l’altro occhio, osservando il piccolo cilindro di carta spostarsi a destra e a sinistra in un semplice gioco di prospettiva.
Era in tensione, si era accorta che le labbra del ragazzo stavano vibrando e che tutto il corpo stava dando segni di ripresa; non poteva sapere come avrebbe reagito, così rimase immobile finendo con ansia la sigaretta, guardandola di tanto in tanto come in preda ad un tic nervoso...
La prima sensazione fu di grande calore, poi sopravvenne il ricordo dell’accaduto. Alzò il busto e tastando il terreno con le due mani aperte si rese conto di essere su di un prato; solo in un secondo momento alzò gli occhi. Subito fece come per difendersi dall’ombra che si trovava a pochi metri da lui, poi la riconobbe, e si tranquillizzò. “Julia?”, domandò timidamente.
Il “sì” pronunciato dalle labbra di lei lo riempì di una strana ed intensa gioia che non gli fece ricordare neppure di chiedere spiegazioni; la ragazza si alzò invitandolo a fare altrettanto, poi, vedendolo ancora vacillante, lo aiutò, ed insieme si diressero verso l’ingresso dell’abitazione.
Il profumo della notte penetrava le narici dei due, mentre come vecchi amici avanzavano a piccoli e lenti passi: intontito dal profondo dolore appena passato si appoggiava al collo di lei, andando a sfiorare con i capelli il suo viso; avrebbe voluto evitarle la fatica, ma non ci riusciva, era debole, i piedi si trascinavano a stento, e l’altro braccio ciondolava alla sua sinistra come un peso morto... Una miriade di domande si accavallavano nella sua mente, la bocca, serrata in un’espressione di totale sconcerto, non riusciva a pronunciare nemmeno una parola; cercò di capire cosa stesse succedendo, perché quella donna lo emozionasse così tanto da fargli dimenticare le proprie pene, perché un solo sguardo avesse la capacità di stordirlo e di rasserenarlo allo stesso tempo senza che una frase intercorresse a darne una spiegazione! Il suo viso muto, il suo collo su cui egli appoggiava la mano spazzavano via ogni preoccupazione ed ogni sofferenza. Sentiva di avere con lei un rapporto profondo; straniero e lontano da casa era sicuro di aver finalmente trovato chi lo potesse aiutare, l’oggetto del suo incomprensibile viaggio, che tanto inutile e senza motivo gli era apparso fino ad allora.
Quei luoghi, da ostili quali erano apparsi, si stavano facendo più benevoli, pronti ad accettare anche un estraneo peccatore le cui colpe cominciavano a scorrere via rapide, sciolte e liberate da un fatto, ormai compiuto, naturale ed inspiegabile.
Quando aveva udito quella musica soffusa non aveva potuto fare a meno di desiderarla accanto a sé; la credeva lontana, ma non sapeva quanto fosse vicina... si ricordava bene il loro primo incontro: fulminante, silenzioso, si erano studiati in modo accurato, avevano tentato di scoprire le intenzioni dell’altro, e lui di certo non si era dimenticato di lei, né fra i vicoli della città né fra gli occhi della giovane ragazza della locanda...
Così ora erano là, sui gradini che portavano al grande portone d’ingresso fatto di legno, con due possenti serrature. A stento riuscirono a fare la breve rampa di scale, ed una volta giunti sulla sommità egli poté riposarsi contro il muro grigio; ansimante accennò un “grazie” che si dipinse sulle sue labbra tremanti per lo sforzo: lei rispose con un sorriso, quindi fece scivolare una mano nella tasca per trarne fuori un mazzo di chiavi. Aprì la serratura, la porta si mosse verso l’interno, e l’ultima luce lunare penetrò nella stanza buia e fredda. I due avanzarono con la stessa difficoltà di prima, ed una volta dentro Julia fece sedere il ragazzo su di una piccola poltrona, che una volta accesa la grande candela sciupata che si ergeva in mezzo ad un tavolo a tre gambe si presentò verde e consunta.
La casa era vecchissima: la luce non arrivava, e sulle scale che portavano al piano di sopra un drappo rosso copriva in parte due gradini rotti da chissà quanto tempo; la alte finestre erano nascoste da ricchi tendaggi scuri, ed il grande tavolo spadroneggiava al centro della sala. L’ambiente era spettrale.
Seduto in un angolo, con gli occhi rivolti verso alcuni quadri appesi disordinatamente qua e là, impolverati e quasi incomprensibili, non riusciva a concentrare lo sguardo su di lei: era in piedi, immersa nella luce fioca della candela, e lo fissava nella penombra che nascondeva in parte la sue pupille dilatate.
Non riusciva ancora a dargli una spiegazione per quanto aveva fatto, preferiva rimandare, così quando quello fu sul punto di aprir di nuovo bocca si limitò a soffiare sulla fiammella ed a rimanere immobile. Il vento, fuori, creava un rumore soffuso, lei sentiva il suo debole respiro, e chiuse gli occhi come per sognare; poi si allontanò, si diresse verso le scale, le raggiunse, e cominciò a salirle facendo perdere dietro di sé il lugubre scricchiolio del legno. L’altro rimase dov’era, col buio serrato davanti al proprio corpo, con l’anima scavata dalle lacrime.
Stette fermo tentando di captare fino all’ultimo il rumore dei passi, e solo quando questi divennero troppo distanti si lasciò andare; doveva essere molto tardi, la sua mente era ancora confusa: quell’amore lo spaventava, perdurava, solido, e demoliva la figura ancora viva dentro di sé del padre, che per un istante credette di non aver mai amato... Chi era quella ragazza? Un giusto compenso per qualcuno che non aveva mai provato un legame così forte, o la punizione per il suo comportamento freddo e discostato, giunta per fargli rimpiangere la miriade di altri affetti mancati?
Ora preferiva dimenticare il passato, magari crearsi un nuovo presente, per sfuggire perlomeno alle catene del rimorso: era egoista, e allora? Un motivo per il suo gesto doveva esserci ben stato, anche se non se lo ricordava, sicuramente!
Ma più pensava a questa scusa più non ci credeva: si sentiva cambiato, sentiva il proprio cuore arido e rattrappito, dal momento in cui la neve era diventata rossa di qualcosa di suo...
L’uomo non può essere così sprezzante, ma cosa poteva fare se gli mancava il ricordo? Era come incolpare qualcuno senza prove, col timore di far del male a se stesso o agli altri, a seconda dell' innocenza o della colpevolezza.
Non poteva dirsi innocente, ma neppure colpevole, forse solo vittima di chissà quale cieca forza; sicuro era che quel processo, di cui non sapeva le motivazioni e di cui forse mai le avrebbe sapute, doveva essere superato.
Col cuore in agitazione chiuse gli occhi ormai abituati all’oscurità, e si decise a non pensare più a nulla. Anche Julia era ormai coricata, vestita, in una grande stanza della casa che da molti anni ormai apparteneva alla sua famiglia; vedeva intorno a sé i quadri e gli antichi mobili intarsiati, ma non era questo ad arricchire la sua esistenza, ora: era al piano di sotto che sgorgava un’energia vitale, sconosciuta ai vili oggetti, che stava andando ad infrangere ogni ancor minima sua titubanza. Erano amati: dovevano amare; il saldo legame che legava le due esistenze, incrociatesi per caso nel veloce trascorrere degli eventi, non doveva più essere spezzato. Neppure il sonno, quando prese il sopravvento, riuscì a spegnere il desiderio, destinato solo a non venire più percepito dai sensi; scivolarono nello stesso istante in uno stato di estremo benessere, lontano dal male dei giorni passati, che si assopì con loro, battuto, ma purtroppo non vinto.
C
Alzò la testa di scatto ed un fascio di luce lo costrinse a ripararsi con una mano: davanti a lui, su di una sedia di legno scuro, più esile di quella in cui si trovava, riconobbe la figura di Julia; non era stato solo tutta la notte: anche se ormai era sveglio e la luce del mattino rendeva meno spettrale la casa, questo lo rincuorò.
Aveva uno scialle verde sulle spalle, e probabilmente era lì già da un bel po’: era addormentata, il viso era reclinato in avanti, assopito in una dolcissima espressione che la faceva sembrare una bambina. Non ebbe il coraggio di destarla, se ne stette lì, a guardarla mentre lento un orologio a pendolo scandiva il tempo, poi sempre con gli occhi fissi su di lei si alzò e percorse qualche metro fino alla porta: era socchiusa, qualcuno doveva averla già aperta, ma non ci fece caso, da fuori il sole appariva ormai alto, sopra una collina oltre le cui alture si trovava il mare, e con il suo calore sembrava poter dare la forza di fare qualsiasi cosa. Si limitò a guardarsi attorno, e finalmente si rese conto di come fosse quel luogo che ricordava solo con una vaga visione annebbiata: tutt’intorno, lontano dalla strada, il verde contrastava con il giallo bruciato del paesaggio estivo; una brezza del tutto nuova scuoteva pacata gli alberi bassi e fitti, sotto i quali procedeva con difficoltà un piccolo sentiero infestato dall’erba. Una natura così raggiante pareva parlargli di cose lontane: miriadi di pensieri invadevano quei posti, prati, boschi e rocce, come esili fantasmi scaturiti da una mente malinconica. Qualche nuvola contribuiva a rendere più variopinto il paesaggio, rovinato solo dall’automobile, sulla destra.
Pensò ad una musica celestiale, e musica fu; fuori e dentro il paradiso che stava tentando di crearsi inghiottì come un buco nero tutto ciò che lo circondava: era sicuro che quella giornata valesse molto, per lui.
Il suo corpo, che pur non andava di pari passo con i giochi danzanti della mente, avvertì un peso sulla spalla sinistra: Julia, in silenzio, senza farsi sentire, si era alzata, ed era arrivata fin lì per appoggiare un braccio su di lui, sicura di ricevere un valido appoggio.
Con un sorriso sulle labbra si girò lentamente, liberandosi dall’abbraccio: non trovò chi sperava di guardare in volto. Come se la scena si stesse ripetendo al rallentatore, una, due, tre volte dovette fissare la faccia del padre, pallida, cupa, dai tratti morbidi ed evanescenti. Un breve sussulto di stupore e paura, l’affanno profondo che schiacciò dall’interno i suoi polmoni lo costrinsero a far cedere le gambe; finì a terra, seduto: la natura era diventata malvagia. Dietro a lui Julia non poté capire cosa fosse successo, solo si chinò per aiutarlo, l’ennesima volta. Lo scosse, lo chiamò, ma non sembrava reagire, anzi, era paralizzato; teneva gli occhi chiusi, erano umidi, le guance erano sporche di terra, ed il marrone bruciato stonava con il resto del viso che a parte tutto appariva luminoso e riposato.
Per un secondo temette il peggio, poi, quando il corpo fu preso da un debole tremito, si tranquillizzò. Poco dopo tornò in sé, e quando si rese conto che quella figura era stata ricacciata nelle sue cellule nervose, abbracciò avidamente la ragazza per farsi forza. Smise di pensare, e si concentrò solo sul corpo di lei, là, in mezzo al verde ed al vento che spandeva e mescolava i capelli lisci e liberi. In quegli attimi ai due parve di conoscere il mistero della vita: ora il trascorrere del tempo poteva anche fermarsi, e la terra, solita a guerre e distruzioni, prostrarsi davanti alla loro unione, delicata come una rosa al primo sole primaverile.
Si sfogò su di lei, rigettò sulla donna tutto il suo soffrire, tutta la sua disperazione per aver compiuto qualcosa di terribile per cui rischiava di perdere la propria stessa identità mentale. Ogni volta sperava che quella schiavitù avesse fine, ma il petto continuava a ricevere pugnalate, dritte, giù fino a cuore, quando meno se lo aspettava. Rivisse il momento in cui in città le forze lo avevano abbandonato, lasciandolo nudo e spoglio su di una buia stradina anonima: il vibrare degli occhi, l’amaro sapore in bocca, il senso di calore che derivava il suo essere dal rosso, bollente calore che aveva tinto anche la gelida neve del nord. Cedevano le sue membra, ma soprattutto la sua testa: in vent’anni si era andata accumulando una strana sensazione di odio represso, esploso in unico attimo di cieca rabbia. Non gli era ancora comprensibile il motivo, mancava il ricordo, un buco copriva col vuoto la vera ragione dei suoi cattivi pensieri: e non lo sopportava, voleva essere padrone della propria mente, ma a conti fatti non era così.
La triste scena metteva in luce anche l’impotenza della ragazza, immobile; lo osservava e soffriva; non era bastato il suo intervento la sera precedente, il medicinale era entrato in un corpo già martoriato dalla malattia.
Lui non aveva la forza per guardarla, forse si vergognava: non poteva non fare nulla, in qualche modo doveva reagire, aveva ancora un briciolo di orgoglio nelle vene, non era un ragazzino malato privo di forze per alzare in alto la testa; si decise; “Dobbiamo andarcene da questo posto!”, disse con vigore alzandosi dritto in piedi.
A quelle parole Julia si fece attenta, sinceramente attratta dalla proposta di fuggire davanti ad un luogo dimostratosi così pericoloso. Ad un tratto, come se le forze perse fino ad allora fossero rientrate fino nell’ultima cellula dei loro corpi, erano pronti ad andarsene; la giornata cominciava adesso, si erano risvegliati da un incubo. Julia rientrò in casa sicura che l’altro la avrebbe seguita. Accadde così, al che la padrona di casa cominciò a parlare come se stesse per partire per una piacevole vacanza di riposo: “Non credo che ci serva molto”, disse scandagliando con gli occhi la grande sala. “Per i soldi non penso di avere problemi...”, continuò interrompendosi per cercare un po’ ovunque il denaro, in preda ad una fretta ingiustificata che si scontrò con le pacate parole del giovane sulla porta: “Ma come fai ad andartene? Immagino che tu non sia sola in città. Non posso costringerti ad abbandonare tutto, fra noi è stata una cosa così veloce, vedi, prima non sono sicuro di essere stato io a parlare, forse mi hai frainteso... non, non intendevo così in fretta...”. La voce divenne rotta ed insicura.
“Non ho nessuno che mi possa compiangere, qualche amico, mah..., niente di più, i miei... lasciamo stare, io voglio venire con te”, rispose: per la prima volta aveva espresso la seria volontà di rimanere con lui, tuttavia rimaneva un alone di mistero a circondare la sua vita e la sua persona, e questo la rendeva ancora più affascinante; pensandoci su non riuscì a trattenere un sorriso. Lei interpretò diversamente la sua reazione. Rientrò in casa trotterellando come una bambina.
In cuor suo aveva sperato fin dall’inizio che lei fosse sola, e non si preoccupava di nascondere a se stesso la punta di egoismo che quel pensiero portava con sé; finalmente era sicuro di voler partire; prima di ricominciare a vivere una vera vita rimaneva una sola cosa da fare, non semplice, e non poteva solo sperarlo, questa volta: doveva mettercela tutta per recuperare il ricordo, per far luce su quella che era stata la sua esistenza prima dell’incontro del giorno precedente. La sua colpa era inespiabile, solo la conoscenza dei minimi particolari, di quei dannati motivi o oscuri meccanismi che avevano regolato gli attimi del delitto potevano forse attenuarla.
In fondo si sentiva libero dalle ripercussioni della legge umana: nessuno sarebbe venuto a cercarlo in un luogo così lontano... la giustizia che lui voleva era un’altra... era lui che voleva perdonare se stesso...
Julia chiuse la porta a chiave; il ritorno alla realtà fu brusco come il colpo con cui il legno sbatté sordo contro il muro della casa.
Nessuno esitò più un momento, fecero incontrare gli occhi per l’ultima volta sui gradini di pietra. L’azzurro glaciale che sembrava aver preso il freddo dalle bianche distese da cui discendeva andava a rischiarare il suo animo lunare: il gelo dava vita ad un’evanescente fiamma bluastra che accendeva i due ragazzi, intrappolata ancora da una spessa corazza di ghiaccio sporco, nero per l’orrenda macchia di uno dei due.
Julia non sapeva nulla dell’orrore che aveva ricoperto la neve decine di ore prima, né in generale dei segreti del ragazzo, ma il suo subconscio era stato così penetrato dalla pur debole parvenza di poterli conoscere (era ovvio che quel ragazzo nascondesse qualcosa), che stava accelerando i passi per affrettarne il momento. Entrambi avevano tutta una vita da raccontare: era così poco tempo che attingevano ad una fonte di esperienze comuni…
D
La partenza fu improvvisa, salutata solo da una cornacchia appollaiata su di una betulla. L’auto percorse la stessa strada da cui era arrivata il giorno prima, ma in senso opposto, allontanandosi sempre di più dalla città; la terra verde aveva cambiato del tutto il paesaggio rendendolo più fresco e delicato. Le colline, lineari e squadrate, si succedevano innalzandosi su canali e fiumiciattoli che da lì a poco sarebbero sfociati in mare.
Tutto era accaduto così velocemente: la neve, le case, il verde... non poteva nascondere che temeva dovesse succedere qualcosa di sgradevole... il finestrino impolverato rifletteva il suo volto grazie al sole che vi batteva sopra: osservava il susseguirsi delle piante, il volo degli uccelli lontani, con uno sguardo che a sua volta rifletteva una spiegabilissima malinconia. Poteva essere felice, ma non ci riusciva. Era sicuro delle proprie azioni, ma non era soddisfatto. La soddisfazione non era cosa fatta per gli uomini.
L’apparire di un piccolo lago, deserto, catturò più di ogni altra cosa i suoi occhi; si girò verso Julia con un’espressione che sembrava volerla implorare, con gli occhi sgranati e vagamente languidi. Lei si fermò, proprio nel momento in cui lo specchio d’acqua era ormai vicinissimo alla strada.
“Vieni!”, fu la sua prima parola dopo quei pochi minuti di viaggio, “Voglio farti vedere ancora una cosa”; in piedi, sul ciglio della carreggiata, indicò uno stretto sentiero che dalla sponda opposta del lago sbucava, fra giunchi e sterpaglie, proprio lì a pochi metri da lei. Anche lui scese dall’auto: notò che solo la riva dove loro si trovavano era priva di vegetazione; sull’altro lato poteva scorgere un piccolo attracco di legno: legato c’era ancora qualche barchino fatiscente, in disuso da chissà quanti anni. Spingendo lo sguardo ancora più in là vide il sentiero perdersi oltre il lago: forse era lo stesso che aveva visto la sera prima, pensò. Voleva chiederlo, ma se ne dimenticò: la ragazza si era già incamminata, era meglio seguirla. Spirava il vento, e portava con sé un odore di alghe e di piante lacustri che stimolava l’olfatto; delle fragili onde increspavano le acque grigio-azzurre, facendo sbattere contro il minuscolo molo una delle barche. Sembrava il rintocco di un orologio.
Julia si era diretta verso la fonte di quel rumore, lui le stava sempre dietro: occorsero un paio di minuti per arrivare, poi lei si avvicinò ad una delle imbarcazioni e spostò una coperta che si trovava al suo interno; ne tirò fuori una bottiglia nera mezza vuota, quindi tornò da lui.
“Quando mi sentivo…", esitò, "…cioè ero sola venivo qui: mi sentivo subito meglio”.
Cosa significavano quelle parole? Non capiva: non avevano molto senso: e poi vedeva nei suoi occhi una tristezza antica, riportata in vita dal ricordo di quanto aveva detto...
Sembrava che avesse bisogno di aiuto, non parlava più; ad un tratto capì di essere stato molto presuntuoso a non averle mai chiesto nulla sulla sua vita, forse era questo, si era presentato come uno che aveva tutto da chiedere ma niente da offrire, forse doveva cominciare col porgere almeno le proprie orecchie agli esseri umani, non l’aveva mai fatto... ed in effetti dalla sua bocca non riuscì ad uscire che un goffo “Vuoi parlarmi di qualcosa?”, che però sembrò bastare.
Lei annuì con un cenno del capo.
Aveva ventiquattro anni.
Che pazzo! Non le aveva mai chiesto neanche l’età!
Da quindici era sola. Cominciò a singhiozzare, ma non stava piangendo. Sembrava più che altro un riflesso incondizionato quel singulto che ogni tanto spezzava una parola all’interno delle frasi. Il suo racconto procedeva in modo disordinato, blando a prima vista, eppure lo affascinava: notava una partecipazione di emozioni da parte di lei sempre più crescente, non pronunciava mai parole come gioia, amore, tristezza, ma l’intonazione della voce, lo sguardo, l’assenza di qualsiasi gesto, avevano in sé qualcosa di coinvolgente, di trascinante. Era la prima volta che la sentiva parlare così tanto, forse gli fece effetto, forse no, non sapeva bene cosa la rendesse incredibilmente capace di farsi ascoltare.
Sì, seguiva la storia della sua vita, il suo passato, ma era lontano, aveva vicina solo la melodia della sua voce: due ragazzi, un lago, la natura, vista da fuori la scena poteva sembrare idilliaca. Anche lui pensò che lo fosse.
“... quattro uomini in divisa...”, continuò lei dopo una breve pausa.
Quattro uomini in divisa: i tutori della legge: cosa c’entravano, si chiese; capì di aver seguito poco; due paia di uomini in divisa avevano ridestato la sua attenzione... ricominciò ad ascoltare con maggiore interesse.
Da bambina aveva sempre desiderato ricevere un elefantino di pezza, ma quello che le regalò una signora con gli occhiali, in un grande stanzone bianco, non riuscì a farla sorridere: non capiva cosa stesse succedendo, laggiù era pieno di uomini vestiti di blu, di telefoni rumorosi, senza alcuna attrattiva. Aveva nove anni, anzi, ancora per poco, eppure nessuno voleva spiegarle dove si trovassero i suoi genitori, e suo fratello.
Non li rivide più, da quel giorno; solo dopo parecchi mesi seppe che erano morti, solo quando si trovava in un’altra casa, con dei genitori che non erano i suoi. Abbracciava l’elefante di stoffa, la vita era cambiata a causa di un incidente, le dissero.
A diciotto anni se ne andò; appena ebbe la ragione per farlo tornò nella sua vera casa, e la ritrovò uguale a come l’aveva lasciata quando erano entrati gli agenti... al piano di sopra c’era ancora la culla del fratello, impolverata, e poi la sua stanza, con l’antico pianoforte che la madre suonava durante i giorni di pioggia. Ricordava con piacere l’acqua che gocciolava dalle grondaie con un suono metallico, e dentro le agili dita che a ritmo scandivano le musiche che avevano accompagnato la sua fanciullezza. Il padre aveva in braccio il fratello con il suo berrettino rosa, tranquillo, in quelle giornate di brutto tempo. Al piano lei vestiva di abiti lunghi, belli come il suo volto biondo che con dolci espressioni seguiva la musica. Stava in piedi ad ascoltarla, attratta soprattutto dallo strano pedale che veniva ripetutamente premuto... ora non si muoveva più, tutto era sparito, ed anche il piano era rotto, dava solo dei flebili e tetri singulti che ferivano il cuore.
Nei sei anni successivi aveva sempre lavorato, e con soddisfazione era riuscita a laurearsi in medicina all’università di una grande città dell’interno: attualmente prestava servizio nell’unico ospedale del suo paese, e la sua carriera procedeva bene, ma non era soddisfatta; amici, storie, e poi ancora lavoro: veniva spesso in quel luogo a leggere, ma sempre sola.
Forse prima o poi sarebbe partita lo stesso, per un motivo o per l’altro, fosse stato anche solo per non essere costretta a sopportare oltre la tristezza che le faceva ogni casa di quel luogo sul mare. Anche se i ricordi degli anni passati si stavano lentamente cancellando voleva andarsene... del padre ricordava la figura giovanile, sbarbata, gli abiti chiari, oppure i giochi che faceva con lei nei pomeriggi liberi. Poi la morte.
Si sentiva nata adulta, non aveva avuto una vera infanzia, o perlomeno, per fortuna o no, non ricordava quasi nulla di essa. Il resto del mondo non poteva capire questo.
Ascoltando tali parole egli comprese il perché della sicurezza dimostrata il giorno precedente: per sei lunghi anni non aveva avuto nessuno di veramente vicino; quella sua forza scaturiva da una grande precarietà di emozioni serene, era altera, e chiudendosi in se stessa creava un bozzolo impenetrabile che solo pochi sarebbero riusciti a scalfire, così da riportare la sua persona alla normale condizione di umana cautela e incertezza. Pareva che ora ciò potesse essere successo, era al limite del pianto, non doveva più tenere per sé, come scudo protettivo, le proprie pene.
Portava avanti il discorso con rapidità, con lo sguardo quasi assente; quando terminò, la bottiglia stretta nella mano destra cadde spandendo sull’erba un liquido scuro sciropposo. Parte del liquore rimase dentro, rotolando insieme al vetro dal leggero pendio verso l’acqua melmosa.
“Questo è tutto...”, volle concludere quando i cerchi concentrici si fecero troppo larghi e sottili per essere percepiti. Aveva terminato in pochi minuti, ed ora forse attendeva una reazione, proprio come quella che sperava di avere quando si trovava lì da sola. Le mani le vibravano, come se avesse freddo; cessarono il loro movimento solo quando furono ostacolate dal corpo del ragazzo, che adesso era lì. Una pelle chiara, rosata, appena imperlata di un timido sudore che si mescolava all’asciutta compostezza della peluria del polso, ne coprì un’altra che appariva d’ebano. Julia si sentì stringere in una morsa da cui volle uscire per vergogna; si alzò di scatto, credendo di essere seduta da un’eternità. Lasciò incredulo chi aveva tentato di rassicurarla.
Anche lui si mise in piedi, a pochi metri dall’acqua che rifletteva il sole coperto da sottili strati di nuvole. Non volle demordere, anche se nella sua inconsapevole giovinezza non poteva capire come si sentisse una donna ben più matura: aveva solo diciassette anni, pensava Julia, non aveva la possibilità, forse neanche il diritto di impegnarlo in un’amicizia così immortale... ma come fosse lei l’incosciente minorenne, invertendo le parti che parevano essersi formate, stava ferma aspettando che l’altro agisse. Viveva una situazione di stallo, voleva andare avanti ma si sentiva spinta verso l’indietro, poiché due opposti stimoli maturavano nella sua mente. Tremava, consapevole del brusco evolversi degli eventi che li avevano portati ad un legame solo apparentemente libero dal passato: ora quest’ultimo risorgeva, come sempre, con prepotenza, ponendo un freno alla libera affezione delle loro anime.
Ora come ora avrebbe potuto reagire in qualsiasi modo ad un’avventatezza del ragazzo, od anche soltanto ad una sua parola. Tutto era così facile da immaginare allora, ma quando in quei frangenti le sue speranze stavano realizzandosi sorgevano anche incubi dettati dal rimorso e dalla moralità.
Si innalzava sulla sponda del lago, con la sua bella figura coperta da un gilet nero. Quando lui la sfiorò il suo corpo reagì con una contrazione dei muscoli, per poi rilassarsi come sottoposto ad un piacevole massaggio. Le mani asciutte cominciarono a salire, sul collo, accarezzando con infinita delicatezza i capelli scuri che si alzavano per ricadere poi a ciocche sparse. La pelle si comprimeva leggera, e i muscoli assecondavano le dita che passavano su di loro; il suo petto venne a contatto con la schiena di Julia, le mani scivolarono sul suo stomaco ed il viso reclinò con gli occhi chiusi sulla spalla destra, a contatto con il cotone nero.
Non poté celare un certo imbarazzo, ma poi si lasciò vincere dai sensi, appoggiando sul volto di chi le era così vicino il palmo sinistro: sentì una barba sottilissima, le sensazioni che le fece provare le piacquero; si separò dall’abbraccio e si diresse verso il sentiero con ritrovata sicurezza, non sapendo se sarebbe stata seguita.
Fu così.
Dopo poco, per l'ennesima volta, entrambe le portiere scattarono e si richiusero.
“Io voglio che tu sia sicuro...”, disse Julia con voce rotta perché certa di stare per infrangere con delle semplici supposizioni una complicità che durava da quattro giorni. “Spero che non sia ingenuità a spingerti in questa storia: se così fosse, non so, in futuro potresti pentirtene, e magari non riusciresti neppure a tirarti indietro, davanti a me…e non voglio che sia così, davvero”, aggiunse toccando nervosamente le marce ed il volante.
“Penso di sapere a cosa vado incontro", ribattè, "e anche il motivo per cui lo faccio"; strizzò gli occhi, ci pensò un po' su e poi continuò con una frase che non sembrava avere alcuna attinenza con quanto detto prima: "Un giorno confido che anche tu possa capire insieme a me la condizione di chi ha commesso azioni vergognose, delle quali ancora non conosce neppure la causa...”.
“Che vuoi...”, provò a domandare Julia prima di essere interrotta dalle dita del ragazzo sulle sue labbra.
“Non è il momento, credimi”.
Come poteva l’animo di un ragazzo così giovane dimostrare una simile vastità, capace a dir poco di offuscare i suoi sette anni di differenza per raggiungere una maturità tanto incredibile?... maledisse di essere nata con quei sette anni di anticipo che ora creavano un’apparente difficoltà, almeno nella sua mente.
In verità non era maturo, no, non lo era affatto.
Accese il motore ancora caldo e l’auto partì lasciando dietro di sé un polverone che calò lentamente trasportato dal vento.
Le nuvole che prima velavano il cielo si erano addensate, e l’afa si stava facendo insopportabile allorché il sole raggiunse la posizione più alta.
Un’ora dopo già non si sentiva più la delicata brezza che spirava dal mare; le colline avevano lasciato il posto ad alture più imponenti, e la strada cominciava ad essere meno desolata e monotona.
Fecero sosta in un piccolo paese sorto intorno ad una pompa di benzina, e in un minuscolo bar consumarono un pranzo che superò comunque le aspettative.
“Dove ci stiamo dirigendo?”, chiese il ragazzo finendo di pulirsi le dita con un tovagliolo di carta, dando l’aspetto di essere sereno, ma sinceramente impaziente.
“A nord, a ***”, rispose Julia mentre osservava il barista che asciugando i bicchieri tendeva un po’ troppo l’orecchio.
Sentendo quel nome un brivido gli risalì la schiena, e la prima cosa a cui si rivolsero i suoi pensieri era che fosse troppo vicino alla sua terra: aveva giurato da troppo poco tempo di non tornarvi, non avrebbe resistito così prossimo alle sue case, così vicino al peccato che solo la lontananza ancora poteva respingere. Si sentiva morire, la sua testa era così presa da quello scenario disarmante che il bar scomparve in un vortice bianco che lo riportò sulla neve immacolata delle montagne...
Era inginocchiato, spessi fiocchi bianchi ricoprivano il suo corpo in un silenzio che neppure lui con la propria voce riusciva a rompere: imprigionato in una campana di vetro non poteva gridare, perché le parole gli si soffocavano in gola, e alzando lo sguardo al cielo la vista si annebbiava in un cadere infinito di gelo. Quando si voltò, una terribile scossa psichica lo fece cadere a terra; chi era quell’uomo in piedi a pochi metri da lui, e perché fingeva di non vederlo e camminava spaventato guardandosi intorno? Urlò ancora, ma l’effetto fu lo stesso: la neve che inghiottiva corrodeva le sue corde vocali, e solo gli occhi lo legavano al mondo circostante. Vide l’uomo cadere, provò un lancinante dolore di pietà; non si rialzava, abbattuto da chissà quale forza che da dietro lo aveva colpito. Il bosco che circondava la piccola radura sembrò spezzarsi e piombare addosso ai due, che stesi per terra erano stati ricoperti in fretta dal manto bianco. Alcuni uccelli mormorarono, e ad un tratto il vetro si ruppe in milioni di pezzi che si unirono a ricomporre le caratteristiche del locale su cui aveva ancora lo sguardo puntato. Guardò il barista, ma non era lui l’uomo dell’allucinazione. Erano passati pochi secondi.
“Andiamocene!”, disse ad alta voce a Julia, che lo seguì stranita dopo aver pagato.
Il suo passato doveva risolversi per forza, ora; e solo lassù poteva scoprirne la realtà: decise di non dire nulla a Julia, ma di andare con lei nel posto che si era prefissata di raggiungere. Dio doveva aiutarlo, e a Dio pensò per il resto del viaggio.
L’auto sfrecciò sulla strada per tutto il giorno: dentro, poche parole che rimbombavano tra i finestrini riempiendo i momenti più noiosi; qualche casa compariva, a destra e a sinistra, ma per la maggior parte il paesaggio era monotono: aumentavano gli alberi e i boschi, ma il verde pallido creava una patina opaca e priva di sfumature. Contribuiva al grigiore della natura il cielo, che dalla mattina non aveva smesso di cambiare in peggio, e che dava ormai l’impressione di scatenare tempesta. Un tuono in lontananza distolse lo sguardo del passeggero, imbambolato davanti alle mani che tenevano con leggera fermezza il volante, sempre fermo, a causa della regolare direzione del percorso.
Laggiù, a nord, il cielo assumeva tinte ancora più cupe e minacciose: nubi gonfie si accavallavano a formare incredibili forme... l’Olimpo si scatenava, gli dei erano irrequieti, provocati dall’uomo che a loro non credeva più. In quel momento Julia interruppe il silenzio citando una frase che in un simile frangente pareva assumere un particolare significato: “Gli dei disdegnano le nostre famiglie mortali, non accettano più che la luce del giorno li tocchi...”. Sconcertato, folgorato da una frase che sembrava essere nata direttamente dai propri pensieri, gli stessi di pochi secondi prima, riuscì solo a balbettare: “Cosa significa?”.
“Oh, niente, una frase... deve essere un ricordo di scuola...”, rispose pronta.
La semplicità con cui pronunciò quelle parole ed i movimenti delle sue labbra lo fecero sorridere. Era meraviglioso il taglio degli occhi di Julia, alto ed un po’ orientale, e poi il castano delle sopracciglia, e dell’iride. “Beh, non ci crederai ma anch’io stavo pensando alla stessa cosa...”. Abbassò lo sguardo con timidezza.
“Bene, ci intendiamo!”, disse lei cambiando marcia a causa di una leggera curva a sinistra; a dire il vero si aspettava una reazione più entusiasta, ma mettendo a tacere i propri desideri si fece bastare quelle poche parole.
Si stavano dirigendo là dove la notte sostituiva il sole in pieno giorno: la luce accecante di poche ore prima stava velocemente svanendo per lasciare spazio ad una cupa atmosfera; solo i loro volti restavano luminosi.
Quando scese la sera decisero di fermarsi; non importava dove, non avevano preferenze, erano solo troppo stanchi per proseguire senza prima riposarsi, e troppo preoccupati per la pioggia che iniziava a cadere. In fondo avevano tempo. Un motel con una luminosa insegna rossa e gialla poteva andare benissimo: posteggiarono la macchina e dopo pochi metri sotto l’acqua furono dentro. Entrando sporcarono un tappetino nero posto in una grande stanza in legno rifinita con bordi e scorrimano dorati: un vecchietto che sembrava non essere neppure vivo riceveva i clienti a quell’ora tarda della sera. “Ha ancora libero qualcosa o è già tutto occupato?”, chiese Julia ad alta voce temendo che il vecchio non ci sentisse bene.
L’ometto, con la sua divisa verde scuro, controllò rapidamente, e poi (era ancora buono d’orecchie) rispose a tono: “Sì, i camionisti non si sono presi tutto: però è rimasta solo una doppia...”. Da dietro al bancone scandagliò i due dalla testa ai piedi. “Allora?”, disse con un sorriso. “Va benissimo la doppia, spenderemo di meno”.
Quello segnò la richiesta sul registro, mentre Julia, dopo aver parlato, chiese conferma al ragazzo che distratto si stava guardando attorno. Senza troppa attenzione fece un cenno di assenso, sorridendo al vecchio che secondo procedura chiese una firma ad entrambi. Non avevano bagagli, raggiunsero la camera seguendo le indicazioni del padrone che scomparve attraverso una porticina privata scusandosi di non poterli accompagnare.
Il posto gli ricordava la locanda dove aveva dormito due giorni prima, ma era strano, gli infondeva una sorta di claustrofobica angoscia che gli accelerava il respiro. Da un momento all’altro si aspettava di veder uscire la ragazza dagli occhi verdi, magari da una delle dodici stanze dell’albergo, ma tutte le porte, allineate su di una sola parete, erano chiuse, compresa la loro, la settima; il padrone si era scordato di consegnare loro la chiave, cosicché Julia si offrì di andarla a ritirare.
Il corridoio era immerso in una discreta oscurità, e solo una piccola luce verdastra illuminava la fine delle scale che salivano fin lì al primo piano; fermo, con le braccia conserte, ad un certo punto sentì una voce maschile; allorché si girò cercando di non badarci, ma non potè fare a meno di ascoltare i mormorii provenienti dalla camera accanto: un uomo, robusto a quanto poteva sembrare dal timbro della voce, bisbigliava qualcosa ad un'altra persona, ma non così piano da non farsi sentire da lui che aspettava fuori. Non gli interessavano quelle parole, ma soltanto sapere di non essere solo, lassù; voltò la testa dal muro guardando rassicurato il punto dove Julia era scomparsa.
Gli occhi si stavano abituando al buio, e percepirono una figura che aveva appena salito l’ultimo gradino; con un sorriso si accostò alla porta sicuro che fosse lei di ritorno con la chiave, ma nel momento in cui vide più distintamente un uomo, in religioso silenzio, si rese conto di essersi sbagliato. Davanti a lui, a pochi metri, c’era una persona di mezza età dai capelli brizzolati, forse un tempo neri come i suoi occhi. Il calore che emanava il suo sguardo lo catturava, ed egli se ne stette imbambolato mentre la mente lavorava cercando di capire se già lo conoscesse: almeno, quella era stata la sua prima impressione.
Pensava, pensava, ma non si rendeva conto di esserci già arrivato…tergiversava, tentava di trovare un’altra soluzione, diversa, più semplice: ingannava se stesso, e così riuscì a resistere per qualche misero secondo, poi esplose.
Ad un tratto sentì un freddo pungente, la sensazione di rivivere un’esperienza già provata, ed allora gli venne in mente tutto: era in quel mondo fittizio che lo aveva visto, in mezzo alla neve della sua immaginazione, in piedi, come ora, e poi a terra, disteso. Un dolore infinito, un passato cancellato che suscitava in lui solo una profonda pietà verso quell’uomo che non aveva mai visto nella vita reale: eppure possedeva qualcosa di familiare, di terribilmente vicino alla sua persona; potesse essere lui la soluzione al tormento della sua vita…Se lo chiedeva ma quello stava ritto senza pronunciar parola: bisognava sbloccare la situazione, altrimenti come poteva scoprirlo?
“Chi sei?”, disse allora lui pur sapendo di non star parlando con nessuno. Ricevette solo un gesto: dal collo pallido si sfilò un pendente che luccicava luminoso nel buio corridoio.
Lo osservò e subito gli venne una gran voglia di piangere; riconobbe lo stesso oggetto che aveva lui intorno al collo, una catena d’argento che terminava in un ciondolo con sopra incise due lettere che non era mai riuscito ad interpretare. Perché era in mano sua? Era lo stesso, o forse uno del tutto simile?… Glielo aveva dato il padre, l’aveva trovato per caso in mezzo alla neve, gli aveva detto così, ora cosa c'entrava?! All’inizio non voleva portarlo con sé, ma poi fu attratto da esso in modo inspiegabile, tanto che dal giorno del suo nono compleanno non se l’era mai più tolto: chissà, di chi era. Credette di impazzire nell’istante in cui quello se lo sfilò e glielo offrì: cercando a tutti costi di resistere sporse il braccio e tentò di prendere l’oggetto, ma il suo slancio verso avanti andò a vuoto, colpendo un’immagine che aveva visto solo la sua mente. Cadde per terra in ginocchio ed il mormorio che di tanto in tanto aveva continuato a percepire cessò di colpo. Restò con i pugni piantati sul pavimento, con lo sguardo basso tanto da poter vedere i piccoli boccoli di polvere volare in balìa della leggera corrente che spirava lungo tutto il piano.
In quel mentre arrivò Julia con la chiave, sollevata in segno di vittoria come dopo una battaglia durata quei due o tre minuti. Resasi conto della situazione subito abbassò il braccio esultante e s’infilò le chiavi in tasca, poi corse dal ragazzo ed infine si chinò per accertarsi delle sue condizioni. “Sto bene, non ti preoccupare!”, accennò con un sorriso. Lei si fece più tranquilla; “Possibile che appena io mi allontani un minuto a te capiti qualcosa?”, disse in tono scherzoso. Il sorriso si allargò, e riuscì a rimetterlo in piedi dopo una poderosa spinta.
Finalmente entrarono nella camera, ma si resero conto con disappunto dell’assenza della corrente elettrica. “Dovevamo aspettarcelo con la miseria che abbiamo pagato”. Non se la ebbero più di tanto, anche perché trovarono sull’unico tavolino, tastando al buio con cautela, una lampada a petrolio, ancora carica del liquido nero ed oleoso.
Stanchi com’erano optarono per andare subito a dormire: uno dei due letti era posto vicino ad una finestra; l’altro giaceva a destra dell’ingresso, come per dare già al primo colpo d’occhio una sensazione di povero squallore. Con la sua coperta marrone e ruvida dava infatti un’idea di patetica rustichezza.
Dopo essersi di nuovo guardati in segno di reciproco compatimento si prepararono e spensero la luce, mentre le lancette segnavano l’una passata.
Fermo nel giaciglio, non poi così scomodo come poteva apparire, riusciva a guardare fuori del piccolo oblò privo di tende o imposte: credeva di essere in prigione lì dentro, chiuso fra quattro mura che sembravano restringersi nel buio. All’esterno continuava a piovere un’acqua spessa, con intermittenti rovesci di grandine che almeno dovevano sciogliere le cupe nuvole che aveva visto per tutto il giorno.
Dopo pochi minuti non sentì più il caldo muoversi delle coperte nell’altro letto: Julia doveva essersi addormentata, smettendo così di girarsi nervosamente. Anch’egli scivolò in un leggero sonno, cullato dagli scrosci di pioggia a cui ormai si era assuefatto. Non ricordò nulla di quel breve torpore quando si destò due ore dopo: come d’incanto si ritrovò con gli occhi aperti, fissi di nuovo sulla piccola apertura, identica a come l’aveva lasciata. Stava per sgombrare la mente per la seconda volta, e ripiombare col viso teso verso l’alto nel guanciale quando uno scricchiolio di legno calpestato attrasse la sua attenzione. Non vedeva nulla, ma si rese conto di un fresco spiffero che arrivava dalla finestra; si accorse di essersi sbagliato, prima: qualcuno l’aveva aperta e poi accostata. Non gli dispiaceva in quell’afa un po’ d’aria sulla pelle, che lentamente s’intrideva d’umidità a causa dell’acqua che fuori stava ancora colando. Lo spiffero profumava di bagnato, riempiva le narici dell’odore di terra e di erba zuppa, e liberava dallo stato di torpore dovuto all’improvviso risveglio.
Si mise seduto, per pochi secondi, e poi si diresse verso l’unico punto di contatto con l’esterno; oltre il vetro scorgeva appena qualche dettaglio della natura circostante, sul retro dell’albergo correva un ruscello notevolmente ingranditosi che si andava a perdere nei campi deserti, ancora sotto il benefico influsso del primo acquazzone estivo.
Mentre tentava di portare il suo sguardo oltre uno spelacchiato cipresso, sentì da dietro la voce di Julia: “Come mai in piedi?”. Sobbalzò per lo spavento, non se lo aspettava davvero, ma poi si girò in cerca della figura di chi aveva appena parlato.
A mala pena scorgeva, dall’altra parte della stanza, la sedia su cui avevano appoggiato gli abiti: seduta c’era Julia, vicina al letto disfatto, davanti alla porta; il buco della serratura brillava a causa della tenue luce del corridoio.
Aveva indosso il reggiseno: i pantaloni nel buio avevano perso il colore, ed apparivano come un’unica massa scura piantata sul pavimento.
Avvicinandosi la figura di Julia appariva sempre più chiara: aveva le mani appoggiate sui braccioli della vecchia sedia di legno dipinto, e il corpo ben saldo contro lo schienale. “Avevo caldo… non riuscivo a dormire”, disse a bassa voce come per non farsi sentire. “Spero di non averti svegliato…”.
“Come si fa a dormire con quest’acqua…?”, rispose mentendo, fissando il volto ancora immerso in un grigiore impenetrabile. Si inginocchiò, fino a portare il viso vicino alle gambe di Julia; si appoggiò ad esse, e cercò di chiudere gli occhi: sul collo scoperto il pendente scivolò sempre più in basso, si arrestò. Julia lo vide: cercò di osservarlo meglio reclinando il capo, poi lo sfilò sfiorando le spalle ed i capelli del ragazzo. Quando lo ebbe tra le mani lo esaminò più da vicino. Notò le due lettere e si fece pensierosa, tanto che il suo sguardo quasi assente indusse l’altro ad intervenire: “Cosa c’è? Cosa hai visto?”.
“Niente, solo che queste iniziali…I.G.…mi ricordano mio padre”, disse passandosi una mano fra i capelli, “Beh, una sciocchezza…mi piace, comunque”. Gli ridiede l’oggetto, e stava per ritirare il braccio quando se lo sentì stringere: non oppose resistenza, attese solo che succedesse qualcosa.
“Perché stiamo andando in quel posto? Che c’è da fare? E poi, credi che là qualcuno ci possa aiutare davvero?”, chiese il ragazzo forzando la presa. Lei gli pettinò con la mano, come una sorella maggiore, un ciuffo di capelli reclinato sulla fronte, poi rispose: “Vedi, lassù i miei hanno…avevano una casetta: credevo fosse meglio vivere in un posto più lontano e più piccolo di quella casa… ma se a te non va…”, la voce si faceva sempre più rotta, mentre l’altro ascoltava di fronte a lei con una certa impazienza.
“Ti prego, non chiedermene il motivo, non sono ancora in grado di spiegartelo, ma non penso di riuscire a vivere in quel luogo”, finì per dire senza averci troppo pensato su. Si alzò in piedi.
Julia si portò una mano sulle labbra, poi cominciò a muoverla nell’aria, davanti a sé, come in cerca di un’ispirazione. Non sapeva cosa dire, cosa aggiungere; gli fece segno di avvicinarsi, e accostò il proprio volto al suo, tanto che i capelli si sfiorarono: “Non preoccuparti…”, disse a due centimetri dalla sua bocca.
E
Al mattino si svegliarono con il sole negli occhi: lui con il capo immerso nel suo corpo, come un bambino, lei con una gamba anchilosata ed un peso non indifferente addosso.
Anche il ragazzo si alzò intorpidito, e notò subito nella calda atmosfera mattutina un gioco di ombre che andavano e venivano, prodotte da un sole che ancora a fatica sbucava qua e là dalle nuvole bianche. Mentre Julia osservava ogni suo movimento, si rivestì e corse a sciacquarsi il viso nel misero lavandino vicino al letto in cui aveva dormito le poche ore di quella notte: pur dopo tutto appariva fresco, riposato, con una pelle timidamente arrossata per il calore che non era abituata a sopportare. Non si asciugò, lasciando colare sulla camicia bianca le gocce che scivolavano scomposte dalle guance, dove una barba sottile le tratteneva come per riceverne refrigerio. Julia continuava ad osservarlo, i suoi modi di fare, la camicia ancora fuori dei pantaloni, i capelli spettinati, l’espressione che assunse quando si accorse di non trovare una delle due scarpe. "E’ qui!”, disse porgendogli la scarpa nascosta sotto la sedia. “Bisogna che mi prepari anch’io…”, continuò con fatica alzandosi dalla scomoda posizione.
Lui era pronto, sollevò le coperte alla meglio e finì di abbottonarsi i polsini. Dopo pochi minuti erano di sotto: credevano di essere stati i primi, ma non era così, incontrarono infatti più di sei uomini nel cortile dell’albergo, intenti a preparare i loro camion o a parlare animosamente fra di loro.
C’era anche il vecchio padrone, che fece appena in tempo a vederli con la coda dell’occhio ed a salutarli con un sorriso mezzo rovinato.
Era curioso, ma non riconobbe nel gruppo la voce sentita la sera prima come un bisbiglio da un pertugio di una camera; guardandosi ancora intorno e sperando nella fortuna entrò in macchina, bagnata e profumata di pioggia.
Si sentiva un po’ a disagio, perché aveva l’impressione di aver sentito parlare anche di loro nei discorsi rubati fino ad allora ai clienti del posto. Ma in fondo credette di non doverci badare, anche quando vide dal finestrino un grosso uomo con una sigaretta in bocca e un cappellino da benzinaio giallo e blu: stava gracchiando qualcosa nella sua direzione, scoppiando infine in una risata demente seguita a ruota da un risolino dell’unica donna che aveva vicino.
Guardò Julia, che anche se avrebbe voluto non riuscì a tirar fuori una sola parola: partì e pigiò sull’acceleratore fino a quando non vide più nulla nello specchietto retrovisore. Lui non pensava fosse stato giusto fuggire via così, evitare la realtà ancora una volta per poi accettarla passato il pericolo: ora, si era trattato di una piccolezza, ma non è ben da queste che poi nascono le cosa più grandi? Aveva fame, era arrabbiato con lei, e non smetteva di pensare a quel che era appena successo. Per la prima volta nella settimana che stava per chiudersi si sentì in imbarazzo vicino alla ragazza di cui non sapeva che poche cose: cercava nella sua espressione il sorriso offertogli in quegli afosi campi di grano prossimi al mare, ma ne traeva solo una bocca dura e stretta sui denti. Era un momento di gelo, una semplice fase di egoismo passeggero utile per capire quello che era accaduto; lui la sua risposta l’aveva già trovata, ora doveva solo aspettare che anche Julia la trovasse perché la situazione tornasse alla normalità.
“Scusami…”, tentò di dire dopo qualche chilometro Julia, a bassa voce, come se qualcun altro potesse sentirla. Sul suo volto tornò il sorriso quando capì che il ragazzo aveva già da tempo accettato le sue scuse: strinse con più forza le marce dell’automobile da cui di rado staccava la mano destra.
La tensione sparì come una bolla di sapone, ed il paesaggio ricominciò a suscitare un certo interesse nei due non più attenti a come l’altro potesse reagire ad ogni proprio minimo gesto. Per breve tempo avevano cercato di adottare quelli che dessero più fastidio, ma ora non se lo ricordavano più.
Julia estrasse dal cruscotto le solite sigarette, ne accese una mentre cominciò a raccontare i particolari che di proposito aveva omesso il giorno prima. La mano dovette separarsi dall’asta delle marce. Mentre il sole era tornato a vincere sulle nubi egli venne a sapere, per esempio, e non gli sembrò per nulla una sottigliezza, che aveva imparato a suonare il pianoforte da una donna amica del padre che viveva giù in città; non si vantava di essere particolarmente brava, ma mentre che discorreva e i bordi delle labbra premevano sulle guance per articolare dei sorrisi, avrebbe desiderato ascoltarla, in qualsiasi luogo.
Julia contava di arrivare in serata almeno nella capitale, la città che si ergeva in una grossa piana sotto le montagne; di lì si dipartivano tutti gli impulsi vitali della regione, e si edificavano i pilastri dell’economia e del commercio i cui introiti correvano poi verso la costa e verso l’interno per essere amplificati. Era probabile che nei due intensi giorni di treno egli fosse già passato da quelle parti, ma avendo dormito gran parte del tempo non se ne era accorto. Durante la giornata non riuscì a riconoscere neppure un particolare del luogo, che si stava facendo sempre più fresco e lunare.
Percorsero in auto più di seicento chilometri, si fermavano saltuariamente per fare il pieno di benzina o per mettere qualcosa sotto i denti in paesi che via via si facevano più importanti e popolati. Ad osservare la gente apparsa un po’ dovunque si girasse rammentò il porto di ***, dove però le persone sembravano più disponibili e calde; l’ambiente era cambiato in modo così veloce, chi vi era immerso aveva ora la fretta di chi è inseguito e deve scappare sfruttando ogni minimo istante. Il perché magari non lo sapeva, lo muoveva l’inconscio, e così, anche se avrebbe potuto agire con più calma, correva senza troppo indugiare a guardarsi attorno. Anche loro due sembravano essersi adeguati a quel modo di agire.
Solo quando cominciarono ad apparire le indicazioni stradali per la capitale egli, come se avesse già tagliato il traguardo, propose di prendersela con più calma. La sera stava incalzando il giorno, sempre più vicina a mano a mano che si spingevano a nord, ed un piccolo torrente iniziò a costeggiare la strada, che spesso lo scavalcava con ponti di pietra bassi e stretti. Avevano abbandonato la via principale a favore di piste secondarie per non dover entrare in città e subito riuscirne spinti dall’afflusso impetuoso delle auto. La natura non cedeva ancora alla tipica configurazione urbana: qualche luce sottolineata dal buio incombente brillava lontana, ma in quell’epico tramonto discendente verso i monti che facevano del posto una valle larga ed imponente, stuzzicava più i sensi l’acqua dolce perfettamente udibile, quieta e gorgogliante, il vento che aveva spazzato il cielo, la luna che già prolungava le sagome nere dei picchi. Tutto fuorché l’uomo sembrava esserci a pochi chilometri di distanza. Per quella notte decisero di non penetrare nella civiltà, ma di stare ancora ad ascoltare i consigli dell’aria aperta e sconfinata, come avevano sinora fatto. Attirava troppo il silenzio rotto dal gracidare delle rane nel torrente, ed il pensiero di doverlo condividere con l’altro, trasgredire ad ogni regola e dormire all’aperto.
Le due luci bianche dei fari da poco accesi si spensero, e l’auto si fermò dove la strada diveniva abbastanza larga da creare una piccola piazzetta erbosa e sterrata, a poche centinaia di metri da un casolare diroccato.
Julia staccò le mani dal volante e se le portò dietro la nuca, desiderosa di riposarsi dopo il lungo viaggio e di ammirare senza altre preoccupazioni il paesaggio. Scese dal veicolo e si appoggiò ad esso; si strinse nelle spalle perché non si aspettava il brusco abbassamento di temperatura a cui erano andati incontro. Stette ferma per qualche minuto, mentre lui rovistava nel cruscotto in cerca di un po’ di musica. Julia sentì il rumore e si sporse dentro, poi, capendo le sue intenzioni, rientrò sbattendo il portello. Notò però che non aveva bisogno di aiuto, ormai sembrava conoscere ogni più piccola parte dell’auto, compresa l’autoradio. Inserì una cassetta arancione e premette un paio di pulsanti, poi tornò composto contro lo schienale con le mani in tasca.
“Vedo che ci sai fare”, concluse lei mettendosi comoda e riassaporando il tepore che aveva perduto là fuori. La voce fu smorzata dalla musica che cominciò a diffondersi dalla scatola magica: stette immobile per riconoscere il pezzo e poi spense la lucina gialla sopra le loro teste.
"No, che fai?!", la ammonì l'altro.
"…Non avrai paura spero?", rispose trattenendogli la mano che stava tentando di riaccendere il piccolo occhio di plastica.
Fu così che rinunciò, e ricadde nel silenzio illuminato solo più dalle prime flebili stelle. Nulla stuzzicava i sensi, solo la potente musica, non ostacolata da altre immagini, suoni, fragranze o sensazioni tattili riempiva la mente distendendola e cullandola con la sua dolce nenia. Ogni singola nota riportava alla vita un'idea, una reazione di gioia, un brivido, oppure soltanto un sorriso.
Di fianco a lui in quegli istanti c'era uno spirito con cui fondersi, con cui vivere attimi di rilassata seppur incredibile felicità. Sentiva il suo respiro vicino, sempre più vicino alla tempia, e la camicetta bianca elettrizzava già la sua pelle, scura ed ingannevole a vedersi nell'oscurità. Era paralizzato, la musica non terminava mai, si ripeteva con lo stesso ritornello: si sentì premere su una gamba, chiuse gli occhi e dalla fronte un ricciolo di capelli lo solleticò alzato lentamente dal dito della ragazza. Non credeva che l'avrebbe fatto, ma cominciò a sudare freddo, rendendo ancora più forte quell'afflato tiepido che ormai sentiva vicino alla guancia; si inumidì le labbra asciutte e si fece piccolo sul sedile, sempre cieco verso quanto stava accadendo, ma con le orecchie ben aperte sulle note al ritmo delle quali Julia sembrava muoversi.
Mise in avanti una mano, come per destinare ad un altro senso ciò che non aveva la forza di affidare alla vista, colpì la camicia e lì si fermò, per poi salire fino al collo, a pochi centimetri sporto verso il suo. Accarezzò i capelli dietro al capo: riusciva a sentirli, neri e scorrevoli come finissima sabbia scaldata al sole; la sensazione era la stessa, mutò solo quando spostò la mano sulla guancia. Era fresca, liscia.
Pensava a come fossero soli nel raggio di qualche chilometro, e che solamente una rara automobile illuminava di tanto in tanto le palpebre chiuse dei suoi occhi, fermi e sempre più agitati. Il freddo che provava non capiva se arrivasse dal finestrino socchiuso o se invece dall'idea che a poche dita di distanza dalla sua bocca ci fosse quella di Julia. La mano continuava a premere sulla coscia ormai dolente, ma quest'ultima rimaneva ancora ferma, sottilmente compiaciuta del dolore provato.
Il respiro di Julia, cadenzato, sferrava le sue labbra raffreddandone il sottile umidore; il dorso della mano ancora appoggiato sulla guancia venne a contatto con la parte bassa del proprio viso, i piedi si irrigidirono e gli occhi si spalancarono. Julia fu colpita fino all'ansia dall'azzurro che neppure la notte riusciva a coprire: abbassò lo sguardo, erano due cristalli d'acqua che riflettevano la sua immagine, lucidi e vividi di fiammate blu che colpivano dritte l'immaginazione. Le pupille non si muovevano minimamente, piantate sulle altre prossime ormai tanto da sentirne gli impulsi nervosi diretti al cervello; i due nasi si sfiorarono e non si toccarono, la seconda mano di lei puntò sull'altra gamba, dando la definitiva spinta in avanti.
Egli vide ancora, distogliendo nel buio gli occhi da dove li aveva tenuti fissi da quando li aveva riaperti, le labbra sottili di Julia leggermente aperte; abbassò il mento insieme ad essi, ma di scatto si ritrovò gradevolmente stretto contro lo schienale.
Da quando la lucina si era spenta non erano passati che pochi secondi.
Provò una nuova sensazione di bagnato sulle labbra che intanto al richiudersi degli occhi si erano un poco aperte. Anche lì vi entrò la musica, riempiendogli la bocca, mentre tutto il corpo della ragazza premeva contro il suo. Petto a petto, labbra a labbra, ventre a ventre, solo le mani si muovevano in direzioni differenti: quelle di Julia sempre piantate sui jeans, le sue in imbarazzante ed affannosa ricerca di un sostegno, pur essendo in perfetto equilibrio sul sedile.
Al termine del brano proveniente dal cruscotto Julia si separò con un veloce movimento, mollando ovunque la presa e ripiombando con tutto il suo peso dalla propria parte. Egli non osò muoversi, né girare tantomeno la testa: era rimasto con la bocca aperta, sempre più asciutta ed ammutolita. Deglutì, e sgranò gli occhi verso il vetro dell'auto.
Questa volta Julia fu rapida, ma con la solita grazia gli si avvicinò, fino a sedersi sullo stesso sedile, accavallando una gamba sopra la sua. Reclinò il capo e si appoggiò su di lui, con le braccia raggruppate. Egli non poté reagire, e si addormentò con quel peso sul corpo e con l'autoradio che andò avanti tutta la notte, sulla piazzola sempre più abbandonata e sovrastata da stelle.
Il nuovo contatto della bocca con la realtà fu diverso da quello con cui l'aveva abbandonata qualche ora prima: svegliandosi si ritrovò le labbra impastate, piene di un sapore amaro che non vide l'ora di scacciare. Julia era scivolata sulle sue ginocchia, e dovette spostarla con fatica per potersi muovere. Scese dall'auto e con piacere percepì sulla pelle l'aria frizzante che da giorni non sentiva più di buon mattino; avanzò ciondolante verso il torrente e lì, specchiandosi, si risciacquò il viso, poi si riassettò i vestiti e si massaggiò la schiena indolenzita.
Mentre si allungava con le braccia sporte al cielo si sentì chiamare da dietro, si voltò e vide Julia venirgli incontro. Dopo aver attraversato un sentierino fra l'erba piena di brina si sedette noncurante del terreno bagnato, con in volto un'espressione di velata sfida, come volesse raggiungere qualcosa se pur a conoscenza della difficoltà.
Con gli occhi bassi, intenta a lisciarsi le pieghe della camicetta, si mise a parlare: "Voglio sapere qualcosa della tua vita", disse in tono serio alzando di scatto lo sguardo.
"Ho diciassette anni, e puoi ben immaginarti come sia stata la mia vita, no?", rispose a tono a quella sfida lanciata. Sicuro che l'altra tacesse si girò e fece per tornare indietro, ma il brusco "No!" di lei lo fece sussultare, ed indietreggiò: continuava a darle le spalle, sperando di non sbagliare una seconda volta nel credere che non avrebbe proseguito.
"Alla tua età non dovresti essere solo. Qualcosa di diverso dagli altri ragazzi devi averlo per forza. Quando dormi sembra che il tuo sonno sia disturbato da qualcosa che non riesco ancora dannatamente a capire…l'altra sera in camera parlavi di quel pendente: perché non mi vuoi dire cos'è, cosa c'entra con la tua vita…chi sei tu? Ho otto anni più di te, e credo di poter capire le tue preoccupazioni e i tuoi sbagli…".
Egli riprese a camminare, "Mi dispiace, ma prima devo capirli io…".
F
Erano all'incirca le nove quando le guglie dell'imponente cattedrale gotica sfrecciarono nel cielo biancheggiando d'avorio.
La costruzione si ergeva nel cuore della metropoli, e a mano a mano che l'auto si infiltrava fra le vie periferiche scompariva coperta dalle case più basse. Gli edifici non avevano nulla a che fare con la tranquilla e soleggiata campagna litorale, con le sue piccole abitazioni recintate o i lunghi viali alberati costeggiati dai prati verdi e gialli; tutto sembrava più grande di qualche misura, monumentale: i colonnati e i portici erano anneriti da anni di inquinamento, ed i balconi più antichi spadroneggiavano con la loro solennità. Il moderno non si armonizzava con quello che doveva essere stato l'illustre ed esuberante passato; una targa qua e là sulle costruzioni più significative, i vecchi lampioni riverniciati di blu fosforescente e le fermate degli autobus asimmetriche con tanto di paline rosse. Epoche e periodi si erano accavallati per dare origine ad un ambiente fuori dalla portata umana, eppure migliaia di persone si agitavano brulicando, frenetici e disinteressati mucchi di gente che rispecchiavano già i tipici caratteri nordici.
Dopo essere riusciti a districarsi da una lunga coda, svoltarono a sinistra, dove il flusso pareva interrompersi. Un cartello indicava il centro storico, ed entrambi decisero di non farsi sfuggire l'occasione di fare almeno un giro fino al duomo; lasciarono l'auto in un parcheggio semideserto e si incamminarono su di un acciottolato irregolare di antica fattura. I pochi negozi di antiquariato erano serrati con pesanti saracinesche, ed un odore di polvere si alzava di tanto in tanto dalle viuzze laterali.
Giunti in piazza videro ergersi al centro come una montagna inespugnabile la chiesa, scura e fuligginosa nella parte bassa e più chiara verso l'alto, per terminare con pinnacoli bianchi a circa centocinquanta metri di altezza. Una decina di turisti stava testando la sua solidità accarezzando il marmo freddo e opaco vicino all'enorme portale di legno; si entrava all'interno da un piccolo ingresso secondario, situato sul retro, stretto e schiacciato contro la parete di un edificio senza finestre.
Julia entrò senza dire niente, mentre l'altro ancora si stava girando attorno per capire da dove provenisse una cadenzata musica che sibilava fra i numerosi scolatoi dalle forme più strane. Quando abbassò la testa catturato da una vena di colore più chiaro sulla facciata capì di essere rimasto solo, e non senza qualche indugio fece i pochi passi che lo separavano dalla porta. Quest'ultima girò sui cardini con un cigolio sinistro, mentre la musica aumentava in un crescendo di inarrestabile frenesia. Si fermò ancora nella piccola anticamera, tappezzata di avvisi e orari, respirò, e come dovesse rimanere in apnea entrò nella vastissima navata centrale; non c'era anima viva, ed un organo con centinaia di canne districava quella musica per tutta la struttura della chiesa. Fece pochi passi, poi alzò gli occhi per osservare archi e strutture marmoree piegarsi morbidi sotto l'influsso allucinogeno delle note che si attaccavano ai suoi pensieri. Contrariamente a quanto aveva creduto dal di fuori, quell'ambiente era confortante, rasserenante, forse solo perché vuoto infondeva un'irruente gioia, un misto di piacere e di crescente emozione per le centinaia di tonnellate di pietre che incombevano da ogni lato.
Il cuore cominciò a battergli più forte nel turbinoso vorticare di sensazioni provenienti dalla vista e dall'udito: le pareti decorate si fondevano con l'assordante musica, l'immagine diventava suono ed il suono immagine, come se lì dentro i sensi stessi perdessero la propria valenza. Il contatto con il marmo ingiallito del pavimento gli provocò una scossa di gelo lungo tutto il braccio, mentre le dita dei piedi sembravano penetrarlo come quando le piccole pietre rientrano nelle suole di gomma comprimendole.
Con il corpo era ben piantato al suolo, ma con la mente viaggiava tanto vicino alla materia da entrare a farne parte; gli occhi, fissi nel punto dove due archi confluivano sul corrispettivo pilastro, vibrarono ed ingigantirono l'immagine, che cominciò a pulsare sdoppiandosi e muovendosi in cerchio. Nella breve frazione di tempo in cui tutto ciò accadde amò quell'ambiente; sentiva vicini gli uomini che l'avevano costruito, e Dio…Dio: quando al suo interno risuonarono queste tre lettere provò il desiderio di sedersi, trovò una panca e fece cadere il corpo, e solo per un attimo puntò verso il grande crocefisso dorato sopra l'altare, poi all'improvviso la voce di Julia rimbombò dietro le sue spalle: "Veramente spettacolare!", disse con lo sguardo verso la decorazione dorata di una colonna.
Egli si voltò appoggiando i gomiti sullo schienale della panca, fece un lieve gesto di assenso, anche se lei non stava osservando, e si alzò. A causa della musica non aveva sentito alla perfezione le parole di Julia, ma aveva capito a sufficienza per avere la certezza che il posto le fosse piaciuto.
Le si avvicinò con le mani in tasca, e per la prima volta si accorse degli abbondanti cinque centimetri con cui lo superava in altezza: strano che non lo avesse mai notato, o forse era lei che aveva fatto in modo che non se ne rendesse conto? Solo ora che stava lì in piedi, ferma e prolungata verso l'alto per cogliere il più piccolo particolare della decorazione, mostrava interamente tutta la sua figura; il collo metteva a dura prova i tendini, che si innalzavano sotto la pelle come pieghe su un abito di seta. Le spalle erano distese, e le braccia, dopo un leggero inarcamento centrale, poggiavano sugli stretti fianchi, dove i pantaloni restavano impercettibilmente schiacciati a causa del sottile sudore delle mani abbronzate.
Gli aveva parlato pochi secondi prima, ma quando le appoggiò una mano sulla vita sussultò, girando e abbassando di colpo la testa. "Oh, scusa…", disse quando lo riconobbe, mostrando sul viso un certo qual imbarazzo. Si fregò le mani come una bambino sgridato e cambiò argomento, cominciando a parlare di quel che aveva appena visto. Era strano, ma ogni tanto aveva l'impressione che Julia fosse in soggezione: insomma, quasi sempre la vedeva sicura di sé, ma in qualche caso, spinta da chissà quale meccanismo, si irrigidiva, come il giorno prima in auto, ed allora reagiva col silenzio o con strani cambiamenti di discorso. Più passava il tempo e più avrebbe dovuto conoscerla bene, ma sempre trovava un aspetto imprevisto nella sua personalità di cui forse neanche lei era del tutto a conoscenza.
Magari Julia pensava lo stesso di lui, o forse no; magari anche Julia non gli aveva detto tutto della sua vita. Che stupido…era lui a nascondere tutto, come poteva pretendere che lei gli rivelasse ogni più piccolo particolare!
Scosse il capo mentre la ragazza stava ancora finendo di parlare: gli dispiacque di non averla ascoltata, credette di prenderla in giro a fissarla così, pensando ad altro, però non gli chiese di ripetere, anzi fece un mezzo sorriso che sembrò riaprire lo spirito affannato di lei, la quale con ogni probabilità non aveva dato molta importanza alle proprie parole.
Nella chiesa entrarono i turisti che avevano visto fuori; si fecero il segno della croce e cominciarono sempre attaccati a dirigersi verso una delle quattro cappelle, con l'aria imbambolata e persa. I due si lanciarono un'occhiata di intesa ed uscirono: sembrò un altro mondo la città; abituati ormai a quel fragoroso interno si sentirono spaesati nel vuoto e nel silenzio della piazza. Pareva che ora tutti potessero ascoltare le loro parole, anche se non si vedeva anima viva e solo una fontanella gorgogliava allegra.
Si era fatto mezzogiorno, ed il sole, velato e freddo, non ricordava per nulla l'astro ardente dei giorni passati. Mentre tornavano all'auto notarono che i bar e i ristoranti erano stati aperti, e per non perdere tempo per strada decisero di fermarsi in uno dei locali, pur essendo presto e la fame poca.
Per la prima volta dopo tanto tempo non gli dispiacque entrare fra quattro pareti calde ed accoglienti: l'aria fuori era pungente, ed anche se la sua pelle era abituata a temperature ben più rigide, provava un certo fastidio, dopo tutto il caldo della costa. Come in strada anche l'interno era quasi vuoto; oltre ai due camerieri al bancone solo un ragazzo sedeva ad un tavolo con davanti del cibo ed una bibita. Alzò gli occhi quando sentì la voce di Julia ordinare il poco che avevano intenzione di prendere, vide i due, e tornò a fissare il cibo dopo essersi messo in bocca un pezzo di pane.
Andarono ad aspettare al tavolo più vicino, e quando arrivò il cameriere col necessario cominciarono a pranzare. Il pasto caldo scivolava giù più facilmente del previsto, creando un piacevole senso di benessere che né l'uno né l'altra vollero rovinare con l'acqua ghiacciata che traboccava dai bicchieri. Dopo aver dato l'ultima forchettata gli cadde l'occhio sul ragazzo che aveva di fianco a non più di due metri: notò la barba incolta, più fitta intorno alle labbra, e lo zigomo che di profilo appariva alto e pronunciato; ad un tratto quello si voltò, i due sguardi si incrociarono per un millesimo di secondo, poi il primo, rosso per l'imbarazzo, rientrò a fissare Julia che intanto, terminato il proprio impegno, aveva appena alzato gli occhi dal piatto. Con la bocca chiusa accigliò il viso, non cogliendo il motivo dell'espressione tanto confusa di chi aveva davanti. "Cosa succede?", chiese timidamente per non aggravare la situazione, non sapendo che si trattava invece solo di una sciocchezza. "Niente, niente…", disse lui con voce sempre più impacciata, "Andiamo pure, se abbiamo finito".
"Beh, se hai fretta va bene", ribatté Julia alzandosi in piedi.
Egli non volle neanche tentare di scusarsi, ma zitto zitto la seguì fino all'uscita dopo averla vista posare il denaro ed una consistente mancia sul tavolo. Salutarono e tornarono per le fredde vie.
Venti minuti dopo erano già fuori dalla città; sapevano che da quel giorno il sole non sarebbe più tramontato, ed egli provò un senso di piacere pensando che da ora in poi non sarebbe stato più lui lo spaesato forestiero.
G
Giunsero in vista della loro meta parecchie ore dopo, ma ciò non contava nulla considerando che ormai giorno e notte non scandivano più il passare del tempo; potevano avere a disposizione dieci minuti come un'intera giornata, e in gran parte era il gelo a spingerli avanti fino alle prime case dai tetti innevati. Julia non nascose gesti di stupore, ammettendo di non ricordare nulla di quell'unica volta che era stata lì: aveva ancora in mente le montagne, ma la loro vista così imponente non si aspettava di ritrovarsela davanti come in un immenso teatro naturale.
La scena era occupata dai ghiacciai che si incanalavano fra le insenature e fra le vallate rocciose, e dalle foreste pietrificate dal freddo, dove solo le punte degli alberi più alti mostravano il loro cupo verde perenne; tutto il paesaggio assomigliava in modo impressionante ai suoi luoghi, il fiume dall'acqua grigia densa e pastosa, la piccola ferrovia a cremagliera che si inerpicava sulle pendici della vallata, solo il paese era diverso, più grande e moderno, con due chiese di massicci blocchi bianchi ed un'antenna televisiva che doveva aver portato un po' di progresso nelle menti dei pescatori della zona.
L'auto procedeva a passo d'uomo sulla strada lastricata di ghiaccio, ed egli poté così vedere con la coda dell'occhio, su di un cartello, il nome di uno dei picchi a forma di becco proprio davanti a lui; era il vecchio ***, o perlomeno la parete opposta a quella della valle natia. Non riconobbe su di essa i tre pennacchi sui quali per ultimi il sole batteva d'inverno, ma lo stesso una profonda malinconia lo prese nel rivederlo ancora una volta: al di là della catena c'erano le sue case, la sua abitazione, il corpo del…; se lo rivide davanti, col volto sprofondato nella neve che continuava a scendere, livido, fermo, come se nessuno si fosse accorto del suo giacere eterno.
Nell'aria trasportata dal vento aveva la sensazione di poter sentire l'odore del miele coltivato sopra la sua terra, dolce, fluido, degli stessi fiori su cui ora era riverso suo padre…il profumo si tramutò in olezzo immondo di cadavere, e con un conato di vomito si sporse dal finestrino in cerca di aria. Il freddo intenso lo fece tornare in sé, ed inspirò il gelo con tanta avidità da perdere, per la temperatura, la sensibilità al naso arrossato.
Gli occhi socchiusi e doloranti fissavano il bosco, misteriosamente attratti dal tranquillo timore che circonfondeva.
"Fèrmati!", disse bruscamente a Julia, la quale, prendendolo come un ordine, si bloccò in mezzo alla carreggiata.
"Cosa succede, non siamo ancora arrivati…", reagì dopo un attimo di silenzio. Di tutta risposta l'altro spalancò la portiera e schizzò fuori; scavalcò la protezione sul ciglio della strada e corse verso gli alberi attraverso una distesa di neve fresca e profonda. I suoi piedi affondavano, ma con un enorme sforzo riusciva ogni volta a ritirarli su e così ad andare avanti a fatica, senza ascoltare Julia che da dietro gli urlava di fermarsi.
In preda ad una crisi, come in un sogno che non sembrava terminare arrancava senza cedere; ormai i piedi gli bruciavano, ed i muscoli dei polpacci gli provocavano fitte dolorose, ma non voleva fermarsi per così poco ed esporsi alla vergogna del cielo. Non aveva meta, solo ideali a cui aggrapparsi per risolvere i casi della propria vita. Si stava sfogando in un paesaggio che come il suo ubriacava l'anima già satura di vino, un liquido scuro, simile al sangue versato da un animale morto.
Aveva l'impressione di non muoversi di un centimetro, di saltare solamente e creare un buco largo e profondo dove sprofondare, dove essere ricoperto dalla prossima nevicata. E magari se lo stava anche augurando. Si ricordava ancora la folle corsa, il delirio che aveva accompagnato i suoi gesti ma non il suo ricordo; ora era così, provava lo stesso male, zigzagando tra i pini in una radura dove la neve si faceva più bassa.
Aveva paura che il cuore gli scoppiasse per la fatica ed il dolore che lo avevano spinto fin lì; all'improvviso una scarica di odio silenziò la natura quand'egli cadde con i pugni in avanti, all'ombra di un abete. Ansimando abbatté una mano sul suolo con forza, versando tre lacrime calde che cominciarono a sciogliere la neve sporca di terriccio. La mente, capace di infondergli in corpo laceranti sensazioni come quella, ora stava passando in rassegna tutti gli argomenti che poteva trovare contro il padre, alla ricerca di almeno uno valido da proporre come giustificazione; cominciò a provare disprezzo verso tutte le sue dimostrazioni di severità, a non volere più scuse per tutte le volte che aveva ostacolato il suo modo di essere. Agiva per malvagità, per odio, che raggiunse il culmine quando un giorno gli disse la verità sulla sua esistenza, la rivelazione. Forse per questo la molla era scattata: i muscoli tesi fino allo spasimo non avevano più potuto e voluto sopportare oltre, ed avevano reagito nel modo più orribile, vibrando un colpo decisivo, mortale.
Quando l'arma era caduta cadde anche la sua voglia di ricordare quanto successo; un blocco gli attanagliò la mente, un blocco che fu destinato a sciogliersi a poco a poco in seguito a devastanti esperienze dovute al mondo esterno. I suoi mali, i suoi incubi erano causati dalla memoria che tentava di tornare, e che ora alfine, alla vista della valle, era violentemente esplosa.
"Sì! Ho fatto bene!", urlò a gran voce con la testa alta versi i rami più bassi dell'abete. Un senso di liberazione pervase le sue membra a quelle parole: chi aveva ucciso non era chi credeva…meritava di morire.
"Si!", si diffuse come l'ululato di un lupo per tutto il bosco, rimbombando ed amplificandosi nelle orecchie di lui che non sentiva il freddo intenso alle ginocchia ed alle mani.
Da dietro, stanca ed affannata, arrivò Julia; "Ssss…", disse per prima cosa coprendo con una mano la sua bocca ancora impastata da quel monosillabo. Accarezzò poi i capelli bagnati e massaggiandogli la schiena accostò le labbra calde sulla sua guancia destra: con gli occhi chiusi continuò a rincuorarlo, e l'altro si tranquillizzò.
"Cosa ti prende, eh?", sussurrò Julia con la bocca ancora ostacolata sul suo viso, convinta quasi di avere a che fare con un bambino. Lui alzò la testa di colpo ed abbracciò la ragazza. "Ho capito, capisci?".
"No", rispose scuotendo il capo amareggiata per la propria impotenza.
"…capisci?", continuò l'insopportabile cantilena con sguardo perso ed imperscrutabile, con occhi che penetravano il mondo squarciando il sottile velo dell'apparenza. Finalmente si era spinto oltre l'illusione delle proprie convinzioni, ora era libero di capire azioni e pensieri di una parte della sua vita.
Sorrise guardando il cielo; "Cos'è questa sensazione che mi riempie il cuore di felicità e di angoscia?", chiese senza un vero destinatario.
"Può essere l'amore…", azzardò Julia con cautela, di certo non sicura che l'altro la stesse ascoltando. Quasi con sorpresa si sentì dare risposta, "No!…tu devi sapere, ora!".
"Che cosa?".
"Quello che successe il giorno della mia fuga da questi luoghi".
Julia aggrottò la fronte: restò stupita al sentire che egli proveniva da una regione così settentrionale; ovvero, il suo aspetto non dava proprio a vedere la sue origini, e poi pensò di essere stata una stupida a non avergli mai chiesto da dove venisse. Con questa convinzione si alzò in piedi, sbattendosi i pantaloni pieni di neve.
L'altro la seguì con gli occhi ancora rossi, dopodiché si mise a camminare molto lentamente; Julia gli tenne dietro.
Cominciò a parlare con le gambe ancora indolenzite "Io non ho mai conosciuto davvero mio padre, sai?", disse come scocciato di dover dare un doloroso ma necessario resoconto. Julia cercò in tutti i modi le parole per rispondere; "Credevo che fosse tua madre ad essere…".
Fu interrotta da una risata, acida quanto falsa; "Mia madre!…quella che credevo fosse mia madre non deve essere neanche esistita! Nulla di più facile!".
"Io non ti capisco…", disse lei, assalita dallo sconforto.
Era incredibile come in quei pochi minuti cambiasse espressione ed intonazione così tante volte: ora sembrava malvagio, privo di ogni emozione, gelido espositore dei fatti.
"Non ho più il cuore puro: ho amato la morte", continuò, "Ho fatto del male, e ora non posso tirarmi indietro".
Dopo una pausa servita per mordersi il labbro inferiore cambiò faccia: si rasserenò di colpo, poi si rattristò, sempre sotto gli occhi increduli di Julia.
"Ma è stato lui a spingermi", disse quasi balbettando, "Mi aveva mentito fin dall'inizio, su tutto, su ogni cosa!". Si portò una mano sulla fronte e ricominciò a singhiozzare, senza però che le parole venissero smorzate: "Quel pendente che tu hai notato l'altra sera…", e finalmente parve che il suo discorso dovesse avere un destinatario, "Me lo diede lui come presunto ricordo della sua famiglia: solo pochi giorni fa, oddio sembrano anni, mi ha rivelato la verità. Le due lettere stanno per il nome e il cognome del mio vero padre, l'ultimo suo ricordo quando me ne separai a pochi mesi…ed è stato lui ad ucciderlo, sì, lui!".
Un silenzio pieno di rabbia rese ancora più teso l'ambiente, che da un momento all'altro sembrava poter esplodere; Julia non l'aveva mai visto tanto sicuro del suo odio: camminava rigido, con i pugni chiusi, girando la testa in cerca di qualcosa d'inesistente.
Nel frattempo erano giunti in una radura; il resto del bosco non era fitto, ma qui gli alberi si allontanavano per lasciare spazio ad un teatro dove si stava allestendo la scena.
Si fermò al centro, vicino ad una roccia che sbucava dalla neve, grigia e ricoperta dai licheni. Era come se conoscesse il posto: guardava senza indugio dei punti precisi, come per darsi delle coordinate, e annuiva forse neppure rendendosene conto; l'espressione era particolare, vedeva qualcosa che Julia non poteva e non aveva ragione di vedere.
Anche lei si fermò, a pochi passi, e cominciò a parlare ricucendo il discorso: "Tu stai sognando! Come puoi dire una cosa del genere…". Avrebbe voluto continuare, ma si accorse che l'altro non la stava più ad ascoltare: stava vivendo una scena tutta sua, forse di un dramma.
Sapeva di star rivivendo l'esperienza già occorsa in quel locale, ma ora era tutto vero, sentiva il freddo sulla pelle, il dolore alle gambe, e si aspettava allora di rivedere l'uomo, la sua sofferenza, la sua caduta…e la propria angoscia paralizzante.
Eccolo, tra gli alberi, al margine della radura: lo svolgersi dell'azione pareva più lento; ne approfittò per guardare in volto l'uomo, chino e curvo.
Perplesso, ma soddisfatto per i pezzi del mosaico che cominciavano a combaciare, riconobbe per la seconda volta la persona del motel, ma la sua fierezza e la sua compostezza, come di un uomo dai doveri gravosi, adesso erano scomparse, lasciando il posto ad un decadimento fisico penoso ed inarrestabile.
Doveva essere successo tutto in brevissimo tempo.
All'improvviso arrivò il colpo definitivo, devastante.
Sì, doveva essere accaduto proprio così, glielo aveva raccontato lui, non aveva avuto alcuna pietà per l'uomo e tantomeno per la moglie, la sua vera madre… A sangue freddo aveva ucciso prima lui e poi lei col fucile da caccia che la sua dannata mentalità da povero montanaro gli faceva sempre portare appresso, anche lontano da casa.
Ma poi con che razza di sentimentalismo, o di vergogna mascherata da benevola compassione era riuscito a prendere con sé il bambino, ad allevarlo e a tenerlo all'oscuro di tutto? Forse non sospettava dell'esistenza del suo futuro figlio, ma quando i capelli della donna smisero di muoversi ed aderirono al suolo creando un tappeto di lunghi intrecci castani, allora sentì qualcosa provenire dall'auto della coppia, un gemito che ora egli sperava solo se lo fosse impresso nell'anima per l'eternità a suggello della propria infamia.
Lo ferivano la spudoratezza e la noncuranza con le quali gli aveva riferito questa storia del passato: pareva che il tutto non lo riguardasse, non prestava attenzione ai particolari, e delineava ogni cosa a grandi linee come se non lo interessasse o fosse solo il resoconto di un avvenimento come tanti altri.
Del raccapricciante racconto ricordava poche parole scolpite nel marmo con stentoreo vigore, poche sentenze che distrussero il suo modo di vivere nell'arco di pochi secondi. Deglutiva a stento per la rabbia e le lacrime trattenute con sforzo immane; le mani, incapaci di stare ferme e sussultanti per l'eccitazione si gettarono sul banco degli attrezzi, proprio quando il loro proprietario aveva voltato le spalle, concluso il penoso ricordo. Ora stava in silenzio, magari convinto nella sua inimmaginabile protervia di ricevere comprensione.
No, non avrebbe più ricevuto nulla di simile, né affetto né tantomeno il perdono; le dita del ragazzo si strinsero attorno all'impugnatura del maledetto coltello: quest'ultimo si sfilò dolcemente con un sottile rumore metallico, ed egli assaporò il gusto del ferro, pesante, pronto a servirlo in ogni impresa. Per la prima volta ebbe in mano un'arma col preciso scopo di servirsene per offendere, la tensione saliva, e gli occhi sgranati fissavano la schiena di quello che era stato loro padre per diciassette anni.
Le gambe tremanti si irrigidirono, il passato gli turbinò davanti in una ricerca furiosa ed inconscia di un qualsiasi motivo utile per rinunciare allo sconsiderato gesto. L'anima razionale tentò per l'ultima volta di avere il sopravvento su quella istintiva, ma invano: senza alcuna ragione apparente gli sovvenne la figura materna che il 'padre' aveva inventato, ma tanto cara alla sua infanzia ed alle sue preghiere; anch'essa era sparita, l'uomo che aveva davanti aveva ucciso tre persone, una delle quali in quegl'istanti.
Non trattenne oltre le lacrime; appena sentì bagnata una delle guance agì, spronato dall'odio al suo apice.
Fu rapidissimo, il pugnale si conficcò fra le scapole, l'uomo cadde fulminato, insieme alla capacità di ragionare dell'omicida. Corse via, libero.
D'un tratto tornò al presente, completamente rinsavito dalle fumose ossessioni della memoria che era riaffiorata. Davanti a lui c'era Julia, impegnata a studiare quale sarebbe stata la sua prossima mossa; si era accorta che l'altro era tornato alla realtà, perché stupito si era guardato intorno per rendersi conto di dove fosse.
Julia gli fermò il volto: "Ehi, sono qui…", azzardò.
Dopo averla guardata la vide e la riconobbe. Si aprì in un sorriso; "Si!", disse abbracciando la ragazza che non fu colta alla sprovvista: e con passione lo strinse al proprio petto come per proteggerlo. Aveva capito poco di ciò che era successo, ma non dovette aspettare oltre, dato che questi cominciò a narrarle la propria storia.
In breve tempo venne a sapere tutto: la morte dei genitori per mano dell'uomo che si era spacciato per suo padre, l'uccisione di quest'ultimo, la perdita della memoria.
"Mi dispiace…", riuscì a dire attonita e stupita dalla tranquillità con cui ora egli parlava dei fatti che tanto dovevano averlo distrutto in passato e poco prima di quel momento.
Nessun dolore soprattutto provava verso la persona con cui aveva vissuto diciassette anni; si sfogava, sì, ma con punte solo di rabbia, e non con un logico rimorso per chi in fondo aveva amato, ed a lungo. Una ferocia incomprensibile, probabilmente lo avrebbe ucciso di nuovo, nelle stesse condizioni, e senza neppure tanto esitare.
Julia fu felice di quella strana confessione, perché comprese quanta fiducia avesse egli in lei; tanto male le aveva fatto la risposta che ricevette la mattina stesse quanto ora provava gioia per aver capito il suo significato: non aveva detto quelle parole per mancanza di fede nei suoi confronti, ma perché davvero non sapeva cosa dirle della propria vita, ancora avvolta nel mistero e ricca di particolari da chiarire.
In lui l'ira ora stava calando, era sicuro di avere finalmente in pugno la situazione, la verità, per quanto terribile e più spaventosa di quanto avesse immaginato.
Nei giorni passati il cuore era stretto in una morsa incontrollabile, che pulsava, allentandosi o stringendosi in base al peso del ricordo; ora era stato schiacciato da un masso, ma almeno era rinato, più forte e pronto a sostenere il dolore che confidava in quel giorno fosse veramente terminato.
Riuscì a rialzarsi senza il minimo senso di vertigine, tanto che Julia si stupì di non doverlo aiutare in alcun modo; si incamminò perché voleva farla finita con quel posto. Partirono.
PARTE SECONDA
A
Era solo sull'auto che sfrecciava per le stradine di campagna, vicino all'alta scogliera a picco sul mare. Era notte, ed aveva capito che quello dei mesi addietro non era stato l'ultimo dolore; piangeva per se stesso, per Julia che non avrebbe più rivisto, e con più rabbia per l'uomo che aveva ucciso e per cui ora aveva ritrovato l'amore, un poco d'amore.
Perché anche allora, lassù, il suo ricordo aveva sbagliato? Perché mentì spudoratamente, fino alla fine, fino ad ora, sconfitto dall'assedio delle parole di chi era sicuro di aver ragione? Le lacrime gli annebbiavano la vista, si passava la mano sulle guance, mentre fuori la luna irrompeva in tutto il suo splendore, in una notte tersa e stellata. Il parapetto di volta in volta si allontanava e si avvicinava: poteva lasciarsi andare da un momento all'altro, ma ancora non aveva la forza di desistere. Non passavano auto, era pieno inverno, anche se la temperatura poteva sembrare primaverile: proveniva dal nord, ed era ancora vestito pesante, gli abiti lo ingombravano, dura era la mano che calcava sul volante, e premuto il piede sull'acceleratore. Quante speranze nutriva mentre procedeva, che tutto si risolvesse, o addirittura che nulla fosse vero; ma la realtà l'aveva ben davanti, già delineata come la strada che stava percorrendo. Non c'era più nulla da cambiare, la vita era stata vissuta, e nulla lo stava seguendo per dirgli di fermarsi, che c'era stato un errore, che Dio non voleva così…
I cinque mesi di serenità erano volati via, ora li stava ricordando, e cercava di capire dove avesse sbagliato, disperatamente ansioso di trovare ciò per cui restare ancora legato alla terra; non poteva essere una persona, e qui il cuore gli urlò, perché l'unica ad aver reso felice la sua vita, Julia, si era allontanata, lacerata dall'orribile ignominia di cui scoprì essersi macchiata. Tutti gli esseri con cui egli veniva a contatto parevano cadere nel peccato, era una creatura del demonio, e per questo non aveva voglia di ricominciare a macchiare il mondo; aveva solo diciotto anni, ma credeva di aver già vissuto abbastanza, era stanco come un vecchio, insanguinato come un criminale, e Dio solo poteva perdonare la tremenda verità che or ora aveva scoperto. Si sentiva sporco, inutile, le convinzioni ed ogni più piccola certezza erano cadute, e poi nessuno d'altronde, come era stato per suo 'padre', si sarebbe accorto della sua mancanza, credeva, e sterzò bruscamente…
Avevano lasciato ben presto le nevi alle loro spalle; Julia ora sapeva che lì non avrebbero mai potuto vivere, oppressi da ricordi ed ombre lontane. Preferirono spostarsi in una cittadina vicina alla capitale, tanto vicina che nelle giornate più limpide si poteva scorgere la guglia maggiore della cattedrale. La fortuna volle che trovassero presto dove sistemarsi: nella zona di espansione residenziale, dove piccole villette sorgevano ogni giorno più rapidamente, acquistarono una modesta abitazione, e dopo neppure un mese erano pronti ad iniziare la nuova vita.
La diversità di quelle quattro mura li aveva caricati di ottimismo: risolsero al più presto i piccoli problemi insorti a causa delle regole di una vita mai sperimentata fino ad allora, e si abituarono alla compagnia di nuove persone. Soprattutto nei vicini trovarono una strana amicizia: si presentarono loro già durante la prima settimana di permanenza. Abitavano nella casa che sorgeva dall'altra parte del vasto prato incolto; a destra delle due abitazioni c'era la strada principale, trafficata e piena di negozi, mentre a sinistra scorreva il fiume dalle limacciose acque grigiastre. Un vicolo secondario tagliava la via più importante, e cento metri più avanti solcava il fiume con un piccolo ponte di legno attraversabile solo a piedi. Stranamente, in tutta quella foresta di cemento e di lavori edili, c'era ancora lo spazio per un folto bosco, tutto intorno al fiume: allora era d'argento per l'imminente autunno.
Civiltà e natura si susseguivano senza confine, ed era una piacevole sensazione, la mattina, svegliarsi con una foglia che cadeva lenta e veniva portata via da un'impercettibile corrente.
I vicini vivevano lì già da qualche tempo, erano due coniugi quarantenni, interessanti, o perlomeno diversi dalla maggior parte delle coppie del luogo. Lui aveva i capelli chiari, come gli occhi, un fisico elegante e che dava a vedere un'età inferiore; lei, già vedova e risposata (chissà perché lo volle far saper quasi subito), portava in viso una bellezza ancora fresca, fiorente: in quei mesi che trascorsero lassù mai una volta riuscirono a vederla vestita in maniera semplice; in un modo o in un altro, magari a proposito, cercava sempre di apparire con abiti che insieme al trucco impegnavano gli occhi di chi la osservava, rendendola ancora pienamente desiderabile per un giovane dall'alto dei suoi trentotto anni. Sembrava che tenesse a quei due ragazzi che un giorno avevano bussato alla sua porta, e ben presto aveva dimostrato in modo aperto la sua affezione.
Circa un mese dopo il loro arrivo, quando Julia era riuscita a trovare un semplice lavoro da fattorino, e questo perché per la casa era necessario cercare almeno una piccola fonte di guadagno, lui restava solo gran parte delle giornate. Anne, questo era il nome dell'affascinante signora, chissà come sapeva tutto, addirittura conosceva gli orari di lavoro della ragazza: stava via tutta la mattina, pranzava fuori e rientrava verso le tre; l'altro si occupava della casa, o almeno a modo suo, cosa che comunque bastava all'animo femminile di Julia, che quando tornava poteva riposare senza troppi problemi. Forse avrebbe voluto aiutarla diversamente, magari lavorando a sua volta, ma lei non voleva, si opponeva con tenacia quasi come una madre
Dopotutto così vivevano bene, anche se l'appartamento era ancora spoglio, come l'avevano trovato: in camera c'erano soltanto due letti, un armadio ed un pianoforte, mentre nell'altra stanza un tavolo, quattro sedie, un fornello ed un divano. Si entrava proprio di lì, e quel giorno Anne suonò alla porta sicura che egli fosse solo. In effetti erano da poco passate le dieci, e dopo essersi alzato stava pigramente facendo colazione. Senza pensarci su andò ad aprire la porta: si svegliò del tutto quando vide la donna in uno splendido abito da sera nero, con un grosso décolleté ed un vertiginoso spacco laterale. A quell'ora era molto strano vedere una donna vestita così, e non celò meraviglia quando gli chiese di entrare; continuando a guardare fuori dalla porta anche quando Anne era già entrata sussurrò "Posso aiutarla?".
Lei si guardò attorno girando per la stanza, poi disse, come se l'altro non avesse parlato "Come mai così vuoto, qui?".
"Beh, siamo appena arrivati, contiamo di pensare un po' alla volta a queste cose…", rispose imbarazzato.
"Bene, ora sei solo, vero?", chiese ancora quella, passando una mano sul tavolo.
"Sì, perché?".
"Ecco, anch'io la mattina sono sempre sola, sai mio marito lavora fino a sera, è nel settore immobiliare, e io in questo posto desolato non so proprio mai cosa fare". Prese il tono da vittima.
"Io invece qui mi trovo bene…".
"Oh, solo perché ci sei da poco, te lo assicuro, poi la solitudine diviene insostenibile".
"Ma io non sono solo…", ribadì, poi subito arrossendo pentito per ciò che aveva detto.
"Già, e non ancora capito che rapporto ci sia fra te e quella ragazza…Julia".
Quella donna sapeva tutto, i loro nomi, e chissà cos'altro: si stava divertendo a metterlo in imbarazzo, era entrata in casa, ora si stava sedendo e Dio solo sapeva cosa avrebbe ancora fatto.
Chiuse la porta e si avvicinò al divano dove si era seduta, appoggiandovi da dietro la mani. Lei gliele sfiorò.
"Lo sai che sei il ragazzo più carino che abbia mai incontrato…".
Veloce allontanò la mano, facendole percepire la tensione che stava per assalirlo, allorché Anne continuò: "Guarda che è solo un complimento!".
"Sì, sì, grazie, ma ora avrei da fare…", cercò di dire sorridendo, pentendosene di nuovo e più di prima. Era in una situazione difficile, e stava sbagliando tutto; si trovava in casa propria ma provava un forte imbarazzo, mentre lei appariva decisa e così dannatamente provocante. Aveva un viso rosa pallido, i capelli castani tendenti al biondo, e dei meravigliosi occhi verdi disposti in modo obliquo e dolce sul volto. Con l'aria annoiata se ne stava lì seduta, aspettando una mossa del ragazzo ed escogitando la sua prossima.
Non era arrabbiato per la sua sfrontatezza, viveva quegli attimi come un sogno irreale, con un misto di orgoglio, timore e vergogna. Il cuore accelerava, e decise di attendere ancora, di vedere cosa sarebbe successo, sicuro di essere pronto a frenare qualunque eccesso.
Lei gli fece cenno di sedersi, e lui obbedì senza neppure tentare di trovare una scusa, visti quali erano i risultati. Non era mai stato desiderato da una donna così matura, e la curiosità lo spingeva più di ogni altro sentimento. Certo era bella, molto bella, ma non lo avrebbe mai fatto, sicuro; forse a Julia sarebbe dispiaciuto, anche se comunque erano liberi di fare ed agire come meglio credevano.
Stava ancora riflettendo quando lei gli appoggiò una mano sul petto: sussultò e provò una sensazione diversa da come era solito sentire con Julia; aveva paura come la prima volta, non osava reagire e si sentiva completamente assoggettato all'altra. Vide la sua bocca priva di trucco avvicinarsi, poi premette sulle sue labbra, muovendosi avida senza lasciargli il tempo di respirare. Sentiva su di lei uno splendido profumo, e si lasciava trasportare, inebriato e sconvolto come se quella fosse stata un vampiro che si stesse cibando del suo corpo.
Intanto gli aveva sbottonato la camicia azzurra, e continuava ad accarezzare la pelle nuda, mentre con la bocca gli assaliva il collo e le orecchie. Lui continuava a non avere alcuna iniziativa, con il volto immerso nei suoi capelli: non vide neppure quando lei gli prese la mano e se la portò sul seno; le dita gli si irrigidirono, ma non faceva in tempo a pensare ad una cosa che già lei gli dava dell'altro cui badare. Sfilò la camicia dalle sue spalle e cominciò a passare le dita sulla cintura dei pantaloni: a quel punto lui si scansò.
"No, basta così!", disse meravigliandosi di persona per la propria sicura durezza, mentre lei si alzava dal divano riportando l'abito al giusto livello.
"Veramente, non posso farlo…", continuò abbassando il tono della voce.
Strana fu la reazione della donna: sembrò rassegnarsi senza troppi complimenti alla condizione di respinta, si infilò le scarpe gettate ai piedi del tavolo e si avvicinò alla porta.
"Va bene, me lo aspettavo", disse facendo una breve pausa, "Sei un tipo fedele…".
Uscì con gli occhi bassi, ed egli rimase seduto, paralizzato: non riusciva a capire se la donna che gli aveva or ora sconvolto la mattinata come un'improvvisa tempesta lo avesse preso in giro, offesa dal suo comportamento, o se avesse invece continuato ad apprezzarlo anche quando le era sfuggito.
La porta era rimasta spalancata, entrava una corrente fresca; si alzò ed uscì di casa, appoggiandosi al muro esterno. L'aria non era ancora stata scaldata dal sole, ed egli dovette avvolgersi le braccia intorno al corpo per combattere il freddo. Con la mano sinistra si sfiorava il petto, proprio sotto il collo, e sentì un leggero bruciore; si portò la mano davanti agli occhi e notò che il dito medio era sporco di sangue, guardò in basso, sul suo corpo, e vide una piccola ferita, recente, di cui non si era accorto, e che probabilmente gliela aveva provocata la cerniera dell'abito di Anne che prima aveva sentito sfregare sulla pelle.
Era ancora stupito per il comportamento della donna, non capiva come potesse essere stata così sfacciata. Ricordava ancora la strana situazione della prima volta che la vide: lui e Julia erano in quella casa da cinque giorni, avevano provveduto ai problemi più impellenti, sistemato le loro poche cose e portato a termine il contratto di vendita, e quel pomeriggio di circa quattro settimane prima si erano ritrovati liberi. Decisero di andare a suonare alla porta dell'altra casa, uguale alla loro in ogni particolare, ed eventualmente di tornare se non avessero trovato nessuno a quell'ora (erano circa le sette di sera). Non fu necessario contemplare questa evenienza: dopo qualche secondo si trovarono davanti al marito di Anne, Ilya.
I due spiegarono le circostanze e si presentarono educatamente, quindi l'uomo fece altrettanto con un misto di signorilità e cortesia e li invitò a conoscere la moglie. Si trovava in soggiorno, e, a quanto pareva dai suoi abiti, una vestaglia rosa ed un paio di pantofole dello stesso colore, si apprestava già ad andare a letto.
La veste da camera le copriva le gambe fino alle ginocchia; il resto di queste continuava in due morbide curve dovute al dolce accavallamento, e le braccia erano stese l'una sul bracciolo di una poltrona e l'altra sulla coscia, sfumando in rosa più scuro la seta dell'abito. I capelli erano sciolti, il volto struccato e liscio come quello di una bambola, e non era comprensibile l'attività che stesse svolgendo: era immobile, solo questo.
Julia aveva già cominciato a scusarsi, credendo di aver disturbato perlomeno la signora, quando quest'ultima si girò verso loro tre con aria annoiata ed assente.
Ilya, quasi più imbarazzato dei ragazzi, le spiegò il motivo della loro visita, dopodiché diede al ragazzo una forte pacca sulla spalla, cosa che forse in una situazione normale non avrebbe mai fatto. Ma ora, in quel frangente, appariva turbato, probabilmente dall'indolente reazione della moglie che ora stava però cambiando atteggiamento.
Quando mise a fuoco i due giovani, infatti, la dura espressione del volto si trasformò in sorriso, e gli occhi le scintillarono quando si posarono con più attenzione sul ragazzo.
All'improvviso anche il marito si rasserenò. Cosa poteva significare? Ilya doveva aver capito cos'era successo; sembrava così smarrito, insicuro, ma in effetti al primo segno di disgelo della moglie quegli stenti erano svaniti. Questo poteva indicare due cose, o che egli fosse succube della moglie e reagisse senza una propria viva partecipazione al comportamento di lei, o che il loro rapporto fosse in crisi ed egli tentasse di recuperare l'irrecuperabile con un modo di fare accondiscendente nei suoi confronti.
La seconda ipotesi era la più plausibile, e fu ampiamente provata quando, una volta sedutisi i tre intorno al tavolo, ed all'ennesima occhiata clandestina di Anne al ragazzo, si dipinse sul viso di Ilya, in cui già prima parevano giocare il tiro alla fune amarezza e falso buonumore, un'espressione di insondabile sconforto. Una costernazione invadente che distrusse il sorriso di Julia, quando distolse gli occhi dalla labbra di Anne per portarli su quelli dell'uomo. La moglie stava parlando senza problemi dei fatti suoi, senza badare a cosa stesse facendo Ilya, il quale pareva colpito da un dolore insostenibile, come causato dalla distruzione dell'ultimo mattone di un profondo sentimento. Non osava reagire, né con lei né tantomeno coi ragazzi, che un altro avrebbe potuto benissimo prendere come colpevoli di quegli avvenimenti; assisteva solo al penoso dialogo che si stava svolgendo sotto ai suoi occhi esterrefatti, che in un continuo vorticare si spostavano prima su di una poi su di un'altra delle persone a loro vicine: ed ora non solo più Julia, ma anch'egli aveva notato il viso dell'uomo, e pieno di imbarazzo cercava di farsi intendere da lei, con un gesto della mano o con un particolare ammiccamento. Sentiva ancora parlare la donna, ma oramai non la ascoltava più, tentando solamente di trarre dall'incresciosa situazione se stesso, Julia ed Ilya.
Per fortuna intervenne il caso a risolvere il tutto; ad un tratto l'orologio di Julia suonò le ore, erano le otto, e l'altro, come avesse sentito una bomba esploderle sotto la sedia, si alzò di scatto in piedi, interrompendo in modo brusco il discorso di Anne.
"Dobbiamo andare, vero?", fece rivolgendosi a Julia con un'irreale impazienza.
Inaspettatamente fu Ilya a rispondere, con uno scatto non secondo a quello del ragazzo; "Sì, anche per noi si è fatto tardi…", disse in trepidante attesa di un qualunque cenno da parte della moglie, sfregandosi le mani in preda al nervosismo.
"Certo, ma…conto di vederci ancora", rispose Anne con dolce quanto falsa risposta, non degnandosi neppure di guardare in faccia il marito.
Era una situazione di stallo: in tre avevano parlato, ed almeno uno dei quattro sapeva che un altro aveva mentito; Julia sapeva che il ragazzo aveva avuto quella reazione solo per sbrogliare una matassa ancora più ingarbugliata, Anne sapeva che suo marito non vedeva l'ora di accomiatarsi dai due, i quali a loro volta sapevano che la donna aveva mentito acidamente, sentendosi frenata da Ilya ma allo stesso tempo non osando iniziare una scenata davanti a chi le interessava.
L'uomo e i due ragazzi, però, benché avversari si erano ritrovati uniti a giocare la stessa partita, e vinsero dando scacco matto alla donna schiacciata suo malgrado. Finalmente si avvicinarono alla porta, e dopo pochi secondi si trovarono a respirare aria meno pesante e scarica di tensione. Si guardarono ed egli appoggiò per gioco le mani sulle proprie ginocchia, come dopo uno scampato pericolo.
"Oddio, ce la siamo vista davvero brutta", disse ansimando guardando la terra.
"Quel poveretto se la deve passare peggio di noi…", aggiunse Julia facendo tornare il sorriso dopo la tempesta, e tentando in qualche modo di sdrammatizzare la faccenda con una battuta scherzosa.
"E poi direi che sei tu ad essertela vista più brutta di me, dato come ti guardava", soggiunse.
L'auto raschiò contro il parapetto, stridendo ed illuminando la notte con una cascata di scintille. Quel suono non aveva nulla a che fare con l'armoniosa melodia che aveva in mente, e che così tante volte aveva sentito suonare…
Erano passati quattro mesi dal loro arrivo e dall'incresciosa situazione che li aveva visti partecipi. Era pieno inverno, gli alberi che fiancheggiavano le due case gemelle si caricavano, spogli, di una gran quantità di neve, ed il manto cupo formatosi le settimane addietro per l'ammontarsi delle foglie morte si era tinto di un bianco sporco, intervallato qua e là da rami spezzati per il troppo peso e da rocce grandi abbastanza da sporgere fra gli spessi centimetri di neve. Il fiume non scorreva più: una lastra di ghiaccio non permetteva di scorgere la benché minima attività di deflusso. Spirava un vento gelido, sussurrante mentre si infiltrava sotto i tetti scompigliando nel silenzio i nidi degli uccelli preparati la primavera passata; al suo passaggio non c'erano più ad accoglierlo le verdi foglie delle piante, frizzanti e vivaci, ma solo rigidi tronchi o miseri steli, e neppure più insetti, o i gorgoglianti mulinelli d'acqua.
I due ragazzi stavano camminando sotto una zona di vegetazione invasa da faggi e da bassi arbusti, là dove una volta gli odori penetravano le narici con un misto di resina e di terra bagnata. Il loro respiro di volta in volta si condensava tra i volti arrossati dal freddo pungente, e le parole uscivano a stento dalle labbra screpolate, come pietrificate nella morsa del gelo. Erano a poche decine di metri dall'abitazione, ed arrivare a quel punto era già stato difficoltoso, dato che ad ogni passo i piedi sprofondavano di una spanna, compattando la neve sul terreno sottostante.
La giornata era meravigliosa: era bastato un pallido e livido sole per convincere i due ad uscire, dopo una settimana di nevicate abbondanti; i tenui raggi riuscivano appena a liquefare la neve sui bordi del tetto, fondendola in gocce scintillanti. A guardare meglio tutto il mondo intorno a quelle due figure stava scintillando; Julia si ricordò del suo mare, sotto il sole estivo, e immaginò di ammirarlo da lontano, magari su una delle alture strapiombanti…dava lo stesso effetto, lo stesso continuo mutare di riflessi, luccichii e riverberi. Si accorse di sentirne la mancanza, e con esso avrebbe voluto rivedere anche il suo sole, e non quel fantasma che incombeva ora sulle loro teste, basso sull'orizzonte, anche se da poco era passato mezzogiorno, e la giornata era appena cominciata. Gli si rivolse con lo sguardo, coprendosi un minimo gli occhi; capì però che non era necessario, i raggi non splendevano, e la circonferenza, netta, spiccava come quella lunare in un'atmosfera di lugubre glacialità. La terra pareva morire sotto la stretta del nord, ed una sensazione di onnipresente angoscia attanagliava lo stomaco, accentuata da un silenzio così innaturale da far ronzare le orecchie.
Il freddo stava davvero facendo saltare le difese sensoriali di Julia; quel clima non faceva per lei, e l'altro se ne accorse. Con i cinque o dieci gradi sotto zero si sentiva solo più una statua di ghiaccio, e una sensazione di caldo umido, provocato dai vestiti impregnati di acqua si stava impossessando del suo corpo che come una fulminea influenza provava brividi incessanti e fastidiose aderenze.
Preferì rincasare, mentre il ragazzo, lasciandole detto che presto avrebbe fatto lo stesso, restò ancora lì a fare qualche passo.
Spalancò la porta e la richiuse per tenere fuori il gelido nemico che con sbuffi veloci cercava di allungare le mani all'interno della casa; non mosse un muscolo, e chiuse gli occhi mentre un caldo torrido ed umido cominciava a pervaderla. Con i piedi in fiamme si slacciò i pesanti scarponi, impacciata a causa degli abiti zuppi; i calzari caddero con un tonfo sul pavimento di legno, rivoltati su un fianco, schizzando qualche goccia d'acqua sul muro, poi ripose con ordine i vestiti su di una sedia davanti al termosifone acceso.
Si tolse prima i pesanti pantaloni blu, quindi la giacca verde chiazzata qua e là di macchie più scure dovute al bagnato. Gettò infine in angolo un maglione bianco ed una maglietta nera.
Si distese sul divano e qui si addormentò coccolata dal tepore che a pochi metri da lei le stava scongelando le ossa intorpidite; un orologio a muro scandiva il passare dei minuti…
Ore 12 e 22 minuti.
Passati pochi istanti l'altro entrò chiamandola a gran voce, ma quando si accorse che era addormentata si zittì, e si spogliò facendo meno rumore possibile. Le si avvicinò e le accarezzò una guancia sorridendo, dopodiché si incamminò verso il bagno per farsi una doccia calda. Girò il rubinetto ed un'attesa pioggia bollente lo ricoprì tutto di un colpo, con uno scroscio continuo che rimbombava fra le quattro pareti del box; restò lì sotto con la testa alzata per degli interminabili minuti. Il ristoro di quell'acqua gli invadeva tutto il corpo. Sentiva le singole gocce sulle labbra, e le orecchie non udivano altro…
Ore 12 e 25 minuti.
Il precario dormiveglia di Julia si interruppe di colpo, gli occhi si spalancarono fissi verso il soffitto, poi percepì la sua presenza e si alzò. Si rese conto di com'era vestita ed indossò un paio di pantaloni leggeri, sempre attenta al rumore dell'acqua che scorreva; come se sapesse esattamente cosa fare si avvicinò al pianoforte tra i due letti, premette un tasto, poi un altro, ripetendo la combinazione per tre o quattro volte…
Ore 12 e 27 minuti.
Egli girò la testa e acuì i sensi smorzati dal fragore dell'acqua, credendo di udire il suono di poche note; i capelli scivolarono insieme a rivoli d'acqua sulle orecchie, e le gocce cadevano sulla spalla sinistra schizzando ed infrangendosi sul viso. Non ci fece caso e tese ancora di più l'udito al fine di afferrare meglio ciò che aveva appena solo intuito, ma tutto tacque di nuovo…
Ore 12 e 28 minuti.
Julia si sedette sullo sgabello di legno rosso; l'antico piano era in cattive condizioni, ma se usato bene poteva ancora dare qualche risultato. Sapeva suonare, e di sicuro non sarebbe stata l'antichità dello strumento ad ostacolarla, bastava fare attenzione, non premere troppo forte e non andare troppo veloce, per il resto era a posto, in fondo lo aveva già usato parecchie volte in quei mesi, ed in un certo senso ne era diventata un'esperta conoscitrice. Affondò le mani come un chirurgo e cominciò a suonare…
Questa volta non poteva sbagliarsi, di là le note dello strumento scandivano una melodia che arrivava fino alle sue orecchie, e le note erano inconfondibili, non poteva non riconoscerle e non ricordarle, erano quelle di… quelle di… ad un tratto trasalì: come mai Julia stava suonando quel brano? Finora non l'aveva mai accennato, neanche ne aveva mai parlato. Si ricordò della villetta con la veranda e le finestre serrate, e la stessa lenta musica che arrivava dal suo interno…Si lisciò i capelli bagnati dietro il capo e spense l'acqua, così che la musica giungesse più forte, così che penetrasse fino al centro del suo cervello emozionato. Ancora una volta gli parve che la memoria stesse cercando di emergere, scavando dolorosamente nel passato, invano, un passato più lontano di quei pochi mesi, anni addietro, la sua vera famiglia, il mare…
Ore 12 e 30 minuti, il pendolo suonò la mezz'ora.
Si rivestì e corse da Julia.
La ragazza, appena lo vide, s'interruppe per salutarlo.
Lui non rispose al saluto, anzi chiese con tono brusco perché stesse suonando quel pezzo, passandosi nel frattempo le mani nei capelli per scaricare il nervoso.
"E' per mia madre", disse, "Oggi sarebbe il suo compleanno; lo faccio sempre…". Voleva continuare quella strana ed insolita giustificazione, questo almeno gli pareva essere dato il tono con cui il ragazzo l'aveva assalita, ma si bloccò capendo l'inutilità di sue altre eventuali parole. Non la stava più ascoltando, l'angoscia era tornata ad impadronirsi del suo corpo dopo il lungo periodo di quieta latenza, ed ormai lei aveva imparato a riconoscerla; la musica aveva attaccato come un potente veleno, dapprima lentamente, sopitamente, poi in maniera esponenziale, fino a perforare il guscio che ricopriva il suo cuore. Il tentativo di dimenticare l'accaduto franò, colpito dalle sottili note che erosero alla base un edificio costruito sull'inganno e la menzogna..
Fu di nuovo messo a confronto con la propria nuda interiorità, battente ed in continua espansione; il confronto con la morte, il sangue e l'amore lo portavano a sentire le vene del collo pulsare, come se il cervello stesse da loro cavando la linfa per nutrire il cancro che faceva marcire le sue cellule. A quel solo pensiero le gambe vacillarono, sottomesse al tiranno più forte che da sopra le governava urlando la propria voglia di liberarsi dallo schiacciante dolore.
La parte razionale della sua testa lo spingeva a fermarsi, a ragionare e a far sì che il tempo ricoprisse un'altra volta, come polvere, il dolore, ma l'istinto gli suggeriva al contrario, con un accenno di subdola curiosità, di proseguire nella ricerca della verità, se mai questa esistesse. Crollò a terra portando con sé i vestiti di Julia ancora appoggiati alla sedia.
Perché stava accadendo di nuovo? Era lontano da qualunque cosa potesse ricordargli il passato, eppure stava facendo sul serio, lo stesso sguardo assente presupponeva quello stato di crisi, era evidente…
Ma cosa?…Julia stava ancora assillando la propria mente per capire cosa avesse potuto causare una simile reazione, il corpo inibito da ogni stimolo di intervento, quando per caso abbassò lo sguardo sulla tastiera del piano. Si morse il labbro inferiore ed accennò con la mano sinistra il gesto di battere su quei tasti; si fermò e rifletté sul fatto che solo la musica in tutta la casa poteva aver rappresentato una novità per il ragazzo, ed aver avuto effetti così devastanti; portò a termine il movimento della mano storpiando per la tensione un paio di note, e quando voltò gli occhi decisa ad intervenire dopo gli istanti di esitazione, lui non era più a terra. In silenzio si era rimesso in piedi e stava lì, fermo, davanti al pianoforte che sembrava opporglisi come un ostacolo insormontabile. Julia si alzò e gli si fece vicina, lo guardò e percepì un vuoto incolmabile: l'azzurro degli occhi si spegneva verso il grigio, ma colpiva lo stesso come in quella notte, anche se in modo differente.
Stava ancora osservando i suoi capelli scomposti, bagnati, i vestiti indossati alla svelta pochi minuti prima, quand'ecco che quello le strinse le braccia intorno al collo e le adagiò il capo sulla spalla destra, con un gemito infantile che le riempì il cuore di compassione. Capì che tutto era tornato alla normalità, sapeva cosa stava facendo lì aggrappato a lei, era il suo modo di fare per rappacificarsi e spesso per chiedere scusa, e funzionava, tanto che anche lei lo strinse allo stesso modo.
"Devo tornare laggiù!", mormorò sottraendosi all'abbraccio e cominciando a girare per la stanza; era invaso da forze inconoscibili, camminava e parlava fra sé e sé a bassa voce, alla ricerca di una briciola di ricordo che potesse spiegare la forza magnetica che lo richiamava con tanto impeto verso quella casa di mare. La musica, certo, ma poteva essere una coincidenza, anche se fino ad allora erano state un po' troppe per sembrare vere. Era stufo di far capitare in modo passivo gli eventi: tempo prima aveva sperato di aver insabbiato del tutto il passato, ma forse il destino non lo voleva, ed aveva solcato una nuova traccia da seguire; non capiva se questa inaspettata apertura giungesse gradita al proprio subconscio, comprese solo che quest'ultimo lo spingeva a penetrarvi con decisione, forse come ultimo segno di rassegnazione al susseguirsi degli avvenimenti, e comunque non svuotato da timori verso ciò che poteva essere svelato. Sapeva con esattezza che la propria storia era ancora oscura; aveva rinunciato a squarciare il velo, d'accordo, ma in fondo non aveva mai rinunciato a sperare di farlo, concedendo a simili pensieri spazi che considerava 'rubati' al normale susseguirsi delle giornate. Sognava la conoscenza perché sapeva di conoscere: ovvero sapeva di avere dentro tutta la verità, ma poteva solo desiderare che un qualcosa la facesse esplodere. La musica non aveva sortito un effetto del genere, ma tanto aveva fatto da far cessare la sua inibizione e da far accendere una piccola speranza nel sottile masochismo della sua anima. Il male futuro era più forte ed attraente del bene presente, anche se quest'ultimo quando il male era nel passato pareva essere la meta da raggiungere…
"Dove? Laggiù dove?", domandò Julia con tono imperioso e possente.
Quello si fermò con la testa bassa, poi si rivolse a lei e disse: "Nella tua città. Sì, è di nuovo laggiù che voglio andare.", così pacato e sereno da far apparire quel luogo una semplice meta di villeggiatura.
"Sai, una volta ho visto una cosa giù in città…dall'interno di una casa giungeva la stessa musica che tu stavi per suonare", continuò, "Beh, comunque non penso che ti interessi, crederai che sia un'altra delle mie visioni…e forse fai bene, certo".
Una pausa gli diede il tempo di scaricare la mente.
"Però ci voglio…andare,…subito…". Dopo queste ultime parole, o piuttosto sillabe, si lasciò prendere dalla stanchezza che percorreva il suo corpo; provò uno stato di benessere per aver parlato, come quello consumato sotto la doccia, mentre si lasciava andare.
Julia fece appena in tempo a sorreggerlo; svenne. Si accorse di quanto fosse debole dal battito del polso e dal colorito del viso imbambolato; lo distese sul divano e prese in considerazione quanto sentito dire. Non avrebbe mai creduto di avere la possibilità di tornare a ***, dove dopo tanti mesi tutto probabilmente era rimasto uguale. Se da una parte la paura del viaggio la spaventava per le condizioni del ragazzo, al quale aveva solo sognato che il tempo avesse guarito le ferite, dall'altra la nostalgia di casa la spingeva alla traversata, pur con tutti i rischi che comportava.
Fissò il suo volto, ancora sereno come quando poco prima aveva pronunciato le parole; pareva stesse solo dormendo…non glielo avrebbe perdonata se avesse preso una decisione contraria alla propria idea, o almeno così finse di credere per risolversi a partire.
La lamiera si spezzò con il doloroso rumore di ferro lacerato, la velocità era troppo forte perché potesse resistere all'impatto; l'auto proseguì la folle corsa…
Correva allontanandosi sempre più dalla città, ripercorreva le strade battute l'estate passata, e osservava i paesaggi trasformati dall'inverno incalzante a cui tentava di sfuggire. Sole, sole, pensava ad esso come ad un miraggio mentre mille ricordi le nascevano nel cuore ogni volta che superava una curva.
Non era passato neanche un quarto d'ora perché prendesse la decisione di partire: questa sicurezza, aumentata dal fatto che là aveva un posto dove stare ed anche di che vivere, era tale da permetterle di abbandonare il precario lavoro di città, dove non sapeva che non sarebbe mai più tornata…
Aveva portato sull'auto il ragazzo ancora incosciente, e questo non poteva che ricordarle la prima volta, quando aveva fatto la stessa cosa, al buio, di notte; ora semplicemente chiuse a chiave la porta di casa e se ne andò, gettando uno sguardo allo specchietto retrovisore per salutare la terra, le case, tra cui quella di Anne ed Ilya. Con un sorriso li vide ancora una volta davanti a sé, eleganti, e ripensò a ciò che aveva visto quattro mesi prima e di cui aveva preferito non dire nulla.
Erano circa le dieci di una ventosa mattina di settembre; il cielo era terso, e lei stava rincasando prima del previsto per ritirare dei documenti e tornare al lavoro subito dopo la pausa. Spesso, dato il suo continuo girare per la città, rientrava per prendere la posta, eventuali altre cose di cui aveva bisogno, o per segnarsi le telefonate ricevute ed alle quali avrebbe dovuto fare riferimento nel pomeriggio. Non potendo essere sempre in ditta, infatti, le telefonate le venivano girate direttamente a casa, in modo che potesse accontentare i clienti con maggiore comodità e validità di servizio.
Di solito entrava dalla porta sul retro, più comoda perché dava sulla strada, e spesso non si preoccupava neppure di guardare se l'altro fosse in casa: faceva veloce ciò che doveva fare ed usciva per andare a prendere le ordinazioni e la merce dai commercianti. Quel giorno però, aperta la porta in silenzio come di consueto, sentì la voce di una donna venire dalla camera a fianco; posò le chiavi senza far rumore, per meglio sentire le parole che da quel poco sembravano calde e fascinatrici, e come un ladro avanzò a passi felpati fino ad osservare la scena, nascosta dall'angolo della parete dietro al divano. Vide Anne aggrappata al ragazzo, al…suo ragazzo: per la prima volta l'aveva sentito come un qualcosa di suo, non c'era mai riuscita, e credeva che neanche in futuro l'avrebbe fatto, perché in effetti suo non lo era…ma tutte queste riflessioni ora erano inutili, lasciavano solo tristezza. Era bastato il tanto esorcizzato tradimento, appena apparente, affinché i sensi trionfassero sulla ragione, e questo voleva dire che fin dall'inizio l'aveva considerato una cosa solo sua.
Si sentì svuotata ed inutile osservando la camicia aperta di lui e lei che con la mano esplorava il suo corpo; ora capiva meglio gli sguardi mirati di cui era stata testimone giorno addietro, ed insieme lo strano comportamento della donna davanti a loro due. Riuscì senza sforzo ad immaginarsi cosa sarebbe successo se lì al posto suo ci fosse stato Ilya…però il fatto che fosse proprio lei dietro alla scena che si stava svolgendo la riempiva d'insicurezza, e a questo non volle pensare. Poteva solo immaginarsi altro, ed a questo si aggrappava con tenacia, trovandoci sempre un nuovo elemento che potesse farle perdere del tempo, per non tornare alla realtà; sì, cercava di prender tempo, sperando con fede che tutto si risolvesse da solo. Le arrivavano immagini confuse, persone conosciute, come Ilya, appunto, oppure del tutto estranee, apparse quasi per schernirla di essersi buttata in un avventura fin dall'inizio così insensata. Forse era stata una sciocca a parteciparvi.
L'udito le comunicava i flebili gemiti della donna, il respiro muto e pesante del ragazzo, ed un odore forte di profumo aleggiava per la stanza: dalla scena madre si dispiegavano un corollario di effetti che arrivavano a stimolare i suoi sensi, mentre fuori il vento soffiava sempre più forte e gelido, schiantandosi sulle finestre con un lugubre rantolo. L'anta di una di queste sbattè contro il vetro; il rumore improvviso eccitò la donna, mentre scosse lei dal suo stato di torpore.
Dopotutto non riuscì a provare rabbia, neppure quando Anne lo baciò, solo un nulla, una terribile ansia che pareva puntare il dito verso la propria persona, incapace di farsi amare.
Tornò nell'altra stanza, appoggiò le mani al muro in preda ad un capogiro simile a quelli provocati dall'alcool, poi uscì; non fece in tempo a sentire che anche la porta sul davanti si era aperta…
Riprese coscienza del presente trovandosi a guardare il volto del ragazzo accanto a lei, beatamente sereno: aveva ricordato l'episodio in una frazione di secondo, ed ora aveva di nuovo davanti la strada e tutto il paesaggio innevato. Un colpo di tosse le fece capire che si stava riprendendo, si girò e non riuscì a spiegarsi perché avesse assunto un'espressione di agitata sofferenza; muoveva la testa e premeva le palpebre come se stesse facendo un incubo, e non accennava a svegliarsi.
Tolse la mano destra dal volante e la adagiò sul suo collo; era caldo, sudato, e sotto la pelle bianca sentiva a stento il morbido rifluire del sangue. Lo accarezzò allora con forza, come volesse massaggiare e plasmare sotto le proprie dita il suo corpo, che reagiva stimolato da quei movimenti ritmici. Il dorso della mano sfiorava la camicia di cotone, ma insensibilmente, mentre i polpastrelli ora si insinuavano fra i capelli. L'altra mano teneva la via, e gli occhi altalenavano un po' davanti a loro e un po' a fianco. Giusto quando lo stavano osservando egli si svegliò di colpo, perdendo ogni afflizione o paura avesse incontrato sulla via del ritorno dal lungo sonno.
Forse perché intontito, o forse perché aveva già chiaro in quali circostanze si trovasse: fatto sta che non fece alcuna domanda, ma preferì congiungere una mano a quella di lei; Julia la sentì fredda come una sbarra di acciaio, e per la prima volta percepì dentro di sé tutta la gelida glacialità di quell'individuo, gli occhi azzurri penetranti le facevano provare solo freddo. Anche se aveva contro l'età, l'indisposizione fisica ed ora un generale intorpidimento, le aveva insegnato molto, certo a modo suo, bisognava interpretare le sue azioni e le sue parole, e non era sempre facile…notò con la coda dell'occhio la leggera curvatura della strada, e dovette intervenire per regolare la traiettoria, poi provò a parlargli.
"Hai visto? Sto andando dove volevi", disse senza voltarsi; egli annuì, le si fece più vicino, aveva un forte mal di testa, la vista annebbiata per il risveglio, disturbata dalla luce del sole. Smise di pensare perché si sentiva protetto dal corpo della ragazza; gli piacque quella sistemazione.
Dopo una decina d'ore, pur viaggiando speditamente non erano che a metà del viaggio; ormai era sera, quasi notte, ma era piacevole muoversi su strade deserte, cosicché preferirono non fermarsi lungo il tragitto e riposarsi una volta giunti a ***.
Alle prime luci dell'alba Julia riconobbe la propria terra: il clima era diverso, più mite, non c'era traccia di neve, e quando comparve il mare con sopra un sole appena sorto i due in segreto ebbero una lieve titubanza al pensiero di dover tornare sul promontorio.
Costeggiarono la città, percorsero la strada illuminata dagli alti lampioni, e finalmente arrivarono a casa: l'abitazione dominava ancora il paesaggio con la sua sinistra presenza, e tranne l'erba incolta tutto era rimasto come nei mesi addietro.
La chiave scivolò nella toppa e la porta si aprì cigolando rivelando il buio delle enormi stanze; erano morti dalla stanchezza, e posate le chiavi su di un tavolo, nell'oscurità, salirono le scale verso il piano di sopra. Lui non era mai stato lassù, seguì Julia come un'ombra e capì infine di essere giunto in una camera da letto. Un lume si accese, ed il viso di Julia, spettrale per la strana angolatura che la debole luce aveva su di esso, risaltò vicino ad una finestra rettangolare.
La lampada fu posata su di un tavolino.
"Io non ce la faccio più…", disse lei con uno sbuffo lasciandosi cadere su di un letto appena rivelato dalla fiammella. Il ragazzo guardò la sua bocca sperando che dicesse ancora qualcosa, ma l'attesa fu inutile: continuò il silenzio per dei secondi, per dei minuti. Non sapeva proprio nulla della casa, e soprattutto di quelle stanze; esitò qualche istante ancora, poi si risolse: si sfilò le scarpe e si distese a sua volta sul letto, sotto le coperte polverose. L'accoglienza del giaciglio e la stanchezza accumulata durante il viaggio fecero sì che egli si addormentasse subito, senza alcun pensiero su cui ragionare. Non aveva spento il lume, che con flebili bagliori continuava ad illuminare una minuscola parte della stanza; la fiamma a gas ondeggiava a causa dei frequenti spifferi che penetravano dalla porta aperta fin dal piano di sotto, gettando impercettibili ombre in movimento contro il muro grigio mentre il resto della casa viveva nel silenzio e nell'oscurità. Il fuoco rischiarava il volto del ragazzo in preda ad un sonno agitato: sognava, ora tendendo i muscoli ora rilassandoli, finché ad un tratto si svegliò di soprassalto; con uno scatto incontrollato di un braccio tornò alla vita cosciente con la fronte sudata, si passò una mano sugli occhi e si accorse della luce alla sua sinistra. Non ricordava di averla lasciata accesa, e con l'animo ancora turbato voltò lo sguardo a destra. Julia era addormentata, era serena, in casa sua, ed aveva le braccia compostamente adagiate sulle gambe reclinate che deformavano le coperte; il viso, nella penombra, risaltava come la piccola finestra sullo sfondo nero, e l'invidiabile serenità della sua espressione riusciva a rischiarare anche la sua…Spense la lampada piombando nel buio e tornò a coricarsi: al di fuori della finestrella gli alberi si contorcevano al passaggio del vento, spogliandosi delle ultime foglie gialle, e piccoli mulinelli sibilavano tra gli intarsi delle imposte.
Quel lugubre e gelido suono lo fece rabbrividire più di una volta, e nell'impenetrabile oscurità ricominciò a sudare in volto e ad essere scosso da leggerissimi tremiti. Era la stanza ad essere fredda, il camino non veniva acceso da mesi, ed i vestiti che aveva indosso erano ancora umidi. Si portò la coperta fin sopra il naso, e nel compiere questo gesto sfiorò con il braccio il corpo di Julia, i suoi abiti ed il suo calore; lento scivolò verso la parte destra del letto, deglutì nervoso e quindi sentì l'ostacolo del corpo. Le gambe di Julia ora erano distese, e lei era voltata dalla sua parte con le braccia aperte; vi si insinuò con un fruscio delle coperte, muovendosi veloce per una frazione di secondo e poi ascoltando in silenzio il risultato del proprio spostamento: ogni volta riceveva solo un leggero sfregare di lenzuola…Arrivò a toccarla con tutto il corpo, con esitazione le avvolse un braccio intorno alla vita, sulla camicetta, e provò un grande senso di protezione, non le era mai stato così vicino.
Julia si svegliò, saranno state le tre di notte, e si sentì un peso sul corpo; di scatto tentò di usare la mano per capire cosa fosse, ma questa era bloccata, e comprese da cosa; credendo che l'altro dormisse, anche perché lui fingeva di farlo, lo strinse a sua volta intorno a sé, appoggiò il mento sui suoi capelli e chiuse gli occhi. Dopo pochi minuti si era già riaddormentata.
Sognò cose appartenenti al passato, vorticose, senza alcun nesso logico, a partire dal giorno in cui le era stato detto, quattordici anni prima, che i genitori erano morti: non ricordava chi fosse stato a dirglielo, la visione onirica le mise davanti come messaggero di quelle notizie il giovane che ora le stava addosso. Lo sentiva parlare, ma spesso come nella realtà non lo capiva, e tendeva le orecchie invano.
"I tuoi genitori non sono più qui…", diceva con un'irriconoscibile e stridula voce, ripetendolo all'infinito sempre con lo stesso tono. Non riusciva a reagire, lo fissava: fissava gli occhi che non sembravano più i suoi, le mani, e…un ciondolo che pendeva dal suo collo. Allungò una mano come per prenderlo quando quello scomparve, si girò e riconobbe la propria casa; i suoi ricordi inconsci si erano spinti ancora più indietro, ed ora poteva vedere sua madre e suo padre. Il sereno ambiente domestico le strappò un sorriso, si diresse verso la donna, voltata verso la finestra che dava sul retro della casa, e dalla quale i raggi del sole inondavano la stanza. La madre si girò come se avesse sentito i suoi passi: in braccio aveva il bambino, suo fratello…e a quella visione lei cominciò ad ansimare, il respiro le veniva meno, le gambe rimasero paralizzate. La luce sparì al passare di un secondo, l'espressione della madre rimase rivolta nel vuoto, mentre tutta la casa cominciò a tremare; guardò il soffitto, le pareti, e notò le profonde crepe che in esse stavano formandosi. Ad un tratto con un esplosione violenta i muri cedettero, e tutta la struttura le rovinò addosso con un immane boato.
Al diradarsi della polvere si ritrovò dove era prima, nel salotto: il sole aveva ricominciato a splendere, ma sia la donna che il bambino erano spariti; sul pavimento dove prima si trovavano vide luccicare qualcosa, piccolo e rotondo, come un pendente.
Aprì di colpo gli occhi e si trovò a fissare il soffitto della stanza da letto. Era mattina, si era fatto chiaro, ed accanto aveva ancora il ragazzo. Abbassò le coperte e gli tastò il collo, sentì la catenina e la fece scorrere tra le dita fino ad avere in mano il ciondolo d'oro. Lo guardò, lo girò, sorrise e se ne separò, ripiombando sul cuscino con le mani dietro alla nuca. Tirò un gran sospiro, poi, come rassegnata ad alzarsi, si sedette sul letto con un colpo di reni, si alzò stirandosi ed andò alla finestra: era l'alba, a est, e dalle colline i bagliori del sole offuscavano lo splendore di Venere; alte nubi si disponevano in volute filamentose, rotte da un vento che dava all'aria un profumo selvaggio e che increspava il mare ad occidente. Brillante, rispetto alla costa che ancora rimaneva buia, un braccio di terra nera come il carbone scintillava di mille piccole luci, una grande isola in lontananza che aumentava con le sue case illuminate il numero ormai esile di stelle in cielo. Solo da lì, dal primo piano, era possibile vedere il mare e l'isola, altrimenti nascosti dalla struttura ondulata della regione, evidente per chiunque viaggiasse per quelle terre.
Si sentì felice osservando il verde ed il bruno al posto del bianco, nuvole sottili al posto di spesse coltri grigie, mare al posto di montagna. Prese un maglione dall'armadio ed uscì dalla stanza; fuori doveva fare freddo, sapeva che il sole in quel periodo non riusciva la mattina ad assicurarsi il potere del tempo; scese le scale di corsa, elettrizzata arrivò nel salone, si guardò attorno e sorrise. Proseguì ed aprì la porta di ingresso, quando una ventata di polvere le assalì il viso: la temperatura era quella prevista, si sfregò le mani e dalla bocca soffiò aria tiepida che subito condensò. Fece qualche passo, lento ed intorpidito, dopodiché si ritrovò ad una trentina di metri dalla casa; l'erba secca rendeva il paesaggio simile ad una brughiera, gli alberi spogli battevano i rami l'uno contro l'altro. A terra cumuli di foglie, alcune allungate, altre rotonde ed altre irregolari, giravano senza meta assecondando i temporanei mulinelli sibilanti. A sinistra la stradina di un tempo si perdeva verso il lago nei canneti, gli unici ad aver mantenuto le foglie, accartocciate come cartapecora e screziate di marrone. Le lunghe ombre degli alberi iniziavano ad apparire, flebili ed offuscate dietro al sole rossastro che saliva lentamente; la quieta natura cominciava a rinascere: l'erba scintillò ricca di rugiada, le ultime oscurità sparirono dietro all'orizzonte, e forse anche se da lì non era possibile vederle le luci dell'isola si erano spente. Julia girò le spalle all'occidente verso la facciata della casa ancora in ombra, da dove era uscita: le sue pietre brillavano ad ogni passo della ragazza proiettando rapidi cristalli di luce, e l'umido che lasciava trasparire le tingeva di scuro.
Fattasi di nuovo vicina alla porta d'ingresso sfiorò d'impulso uno dei blocchi grigi di pietra; restò impassibile al contatto, sentì la gelida e ruvida superficie, si graffiò anche un dito spingendo con forza su di una sporgenza, e il dolore era acuito dal freddo, ma non si rese neppure conto di questo. Entrò in casa, fece per dirigersi verso le scale poi ci ripensò e tornò indietro; si sedette vicino al tavolo, accavallò le gambe ed incrociò le dita sotto il mento. Tutte le imposte erano serrate, tutte le finestre nascoste dai drappi, nessuna luce poteva filtrare, ma non badò neppure a questo.
Attese, fissando in un angolo un antico pendolo dalla cassa in noce fermo chissà da quanto sulle diciotto e dieci: fissava le lancette, i trafori del legno riempivano la sua mente vuota, e più di una volta contò i piccoli archetti che ornavano la parte inferiore dell'orologio.
Si sentì schiacciato contro il sedile nell'attimo in cui l'auto si alzò e le ruote anteriori non toccarono più terra…
Un cigolio sulle scale richiamò l'attenzione di Julia. Si voltò, il ragazzo stava lentamente scendendo dal piano di sopra, teneva un braccio sullo scorrimano, e con la mano sinistra si cingeva il capo come per scrollarsi di dosso il sonno. Al termine dei gradini fece un sonoro sbadiglio, e solo allora notò Julia seduta a qualche metro da lui.
"Ah, sei qui…Perché ci siamo alzati così presto?", domandò stirandosi con le braccia alzate.
Julia continuò a fissarlo ma senza rispondere; si alzò, ed egli strinse i denti non capendo perché non avesse risposto. Guardò il suo viso, poi scese con la vista ancora offuscata verso il pavimento; fra lui e la ragazza, a circa due metri da entrambi, il sole penetrava da una piccola fessura della porta creando un riflesso circolare.
Julia con tre lunghi passi coprì la distanza che la separava da lui; gli si ritrovò faccia a faccia, e come sempre era stato non riuscì a fissare il celeste dei due zaffìri. Calò lo sguardo come macchiata da una colpa, e l'altro ebbe l'ardire di controbattere la sua mossa: strinse fra l'indice ed il pollice il mento di Julia, e così facendo sollevò tutto il suo viso. Quando ebbe di nuovo davanti i tristi occhi scuri si lasciò andare in un sorriso; delicatamente abbassò la mano sulla spalla, e si dovette alzare un po' per appoggiare la guancia sul corpo di lei.
Sentì l'odore del cotone fresco per l'aria del gelido vento mattutino, e riuscì a captare il battito del cuore, lontano come il rombo di un tuono in un lontano temporale estivo. Il suo di cuore invece pulsava veloce, perché era un vortice di amore e di angoscia a costiparlo; tali sentimenti nascevano dal cervello, ma allora per quale motivo sentiva tanto male proprio lì, nel petto?
Si sollevò ancora e raggiunse il suo viso.
B
Nel pomeriggio scesero in città. Erano le due, e la temperatura aveva raggiunto livelli primaverili; non avevano pranzato e neppure venne loro in mente di farlo una volta davanti ai bar e alle tavole calde che affollavano le vie. Lasciarono l'auto sul lungomare, all'ombra di una serie di pini marittimi.
La città si era di nuovo svuotata dopo i grandi affari estivi, ed i vicoli che attraversarono dopo essere sbucati su di un grande viale erano morti, malinconici. Il vento spazzava i marciapiedi scuotendo le foglie e qualche sacchetto di plastica bianca, e le poche persone camminavano a testa bassa muovendosi velocemente con una mano sul capo per non perdere il cappello o il foulard. Qualche donna anziana spuntava dalle finestre delle case, e tutto era silenzio, fatta eccezione per il lontano rimbombo di campane e i cigolii di insegne scolorite.
I due avanzavano sul lato sinistro della strada quando ad un tratto lui girò in una viuzza laterale. Julia lo seguì anche se presa alla sprovvista.
"Sai dove stai andando, vero?", domandò stupita del fatto che si muovesse così sicuro in una città non sua, dove aveva vissuto per pochi giorni molti mesi prima.
"Sta tranquilla, lo so", rispose proseguendo sui suoi passi, deciso come non mai. Camminarono per dieci minuti lungo vicoli bui che nemmeno Julia era sicura di conoscere, e alla fine arrivarono alla meta. Un intenso odore di polvere aleggiava in quel luogo, di fronte avevano una villetta chiusa da un cancello da dove partiva un breve vialetto formato da lastre di pietra; tutt'intorno si estendevano a perdita d'occhio campi e prati di erba secca.
Il ragazzo, con un sorriso, o forse una smorfia di dolore, riconobbe subito l'abitazione…
Anche Julia conosceva la casa; guardò il numero civico su di una colonna e ne fu certa. "Milena", sussurrò.
Lui non capì, e fece finta di non aver sentito.
"Come ho fatto a dimenticarmi…l'ho lasciata senza dirle niente", continuò con il viso verso il basso.
A quel punto egli smise di pensare al passato e disse "Tu conosci il proprietario di questa casa?".
"Sì, certo. E' una mia amica, anzi, forse non dovrei neppure chiamarla così: una volta la consideravo quasi come una sorella, ha quattro anni più di me, l'ho conosciuta dopo la morte dei miei genitori, qui in città. E' lei che mi ha insegnato a suonare il pianoforte…però ci siamo perse di vista circa tre anni fa, quando lei ha cominciato a lavorare all'estero. All'inizio tornava in città d'estate, poi non ne ho saputo più niente…ma come ho fatto ad andarmene senza aver neanche provato a cercarla?":
Ascoltò con attenzione le sue parole, ed intanto notò che le finestre non erano sbarrate come la prima volta che le aveva viste; tutto era più curato, forse voleva dire che vi abitava qualcuno…
Mentre pensava vide sbucare dal vicolo da dove erano arrivati una donna, carica di un pesante cesto di frutta. Julia non poteva vederla dal momento che era girata, ma la sentì e si voltò.
Prima guardò il cestino intrecciato di vimini, pieno di arance, con sopra un borsellino scuro con le rifiniture dorate, poi, alzando lo sguardo, in un abito lungo e semplice seminascosto da una giacca gialla riconobbe il volto della ragazza.
Anche lei la riconobbe subito; corrugò la fronte in un'espressione di evidente sorpresa e lasciò cadere il peso che aveva in mano senza accennare preoccupazione. Il cesto cadde con un tonfo, il contenuto si rovesciò e la frutta cominciò a rotolare sulla lieve pendenza della strada.
Milena diede una rapida occhiata al giovane che era in piedi a poca distanza da Julia, poi tornò su quest'ultima e si aprì in un sorriso. Nella breve frazione di tempo in cui egli aveva avuto davanti il volto di lei non poté fare a meno di pensare: quel viso non gli era nuovo, e poi quel gesto, così veloce quanto dolce, il collo reclinato verso destra, gli ricordavano qualcosa. La vide aprire le braccia verso Julia, ed abbracciarla, ed il suo volto scomparire dietro al corpo dell'amica; restò fermo a ragionare, pareva che tutti si sentissero in imbarazzo.
Lui era troppo preso da quella giovane, e solo una minima parte della sua attenzione era concessa a ciò che Julia aveva detto; un po' lo metteva in soggezione, come se fosse controllato da una persona che conosceva da sempre, e che era capace così di giudicare le sua azioni. Julia stava pensando più a lui che a Milena, e si chiedeva il motivo del suo silenzio trovando la risposta in un giustificabile disagio, mentre Milena aveva la mente rapita dall'amicizia ritrovata, anche se un barlume di confusa curiosità la faceva soffermare più del dovuto sul ragazzo, che ad un tratto la riconobbe…
Come un fulmine a ciel sereno gli sovvenne la scena che aveva vissuto la scorsa estate; in quel posto giù in città, dove si era fermato per mangiare qualcosa, c'era anche lei, e non era sola. Ricordava di averla osservata, era più elegante, e di essere stato turbato quando si era voltata con la precisa intenzione di guardarlo. Aveva un'espressione di pietà, no, più simile a quella di uno che fosse rimasto deluso per qualcosa; rivide i suoi occhi castani, l'amica, bionda, tutto quanto, tutto era limpido come se fosse avvenuto il giorno prima.
Dunque era lei ad abitare la casa da cui aveva sentito suonare il pianoforte, forse erano state le sue dita, le stesse che avevano insegnato a Julia, ad aver interpretato quel brano…
Perché tutto combaciava solo ora? Insieme si erano risolti due degli interrogativi che lo avevano tormentato a partire dalla stagione passata, finalmente poteva conoscere chi aveva provocato in lui tutti i pesanti sentimenti che avrebbero accompagnato la sua estate. La ragazza che aveva di fronte sapeva qualcosa di cui egli aveva bisogno, non doveva tirarsi indietro, adesso, anche se avrebbe fatto meglio a farlo.
Lei si era resa conto che lui la stava scandagliando, al che egli prese in mano la situazione e decise con la propria voce di interrompere il silenzio: "Posso conoscerti?", disse con perfetto autocontrollo. Milena si separò da Julia, fece tre passi indietro poi si mise una mano sul petto e chiese "Dici a me?".
Di tutta risposta il ragazzo alzò le sopracciglia e fece un cenno affermativo con la testa che poteva sembrare parecchio altezzoso. Lei non si scompose, gli si avvicinò superando sulla sinistra Julia e si trovò faccia a faccia con lui. Dopo un breve istante di reciproca difficoltà e di studio si presentò usando le parole più semplici che le venivano in mente, dopodiché aspettò paziente in attesa di una sua reazione.
"Dunque ti chiami così…", disse lui porgendole la mano. Il gesto ruppe la tensione.
"Io sono un amico di Julia, forse non ricordi ma ci siamo già visti".
Perplessa rispose alla mano offerta, poi con uno sforzo di memoria cercò di ricordarsi il suo volto; esitò per una manciata di secondi quindi si ricordò e si aprì in un sorriso.
"Ma certo! Quest'estate, in città!", disse guardandolo e voltandosi verso Julia come per ottenere le sue congratulazioni. Quando si girò di nuovo lo vide chinarsi e raccogliere da terra i frutti vicino al cesto vuoto. Lo fissò, poi tornò su Julia, infine si risolse ed andò ad aiutarlo, prendendo le arance rotolate fino vicino al cancello di casa. Con voce esitante continuò però a parlargli "Mi ricordo che il tuo viso mi aveva fatto venire in mente quello di Julia, era da parecchio che non la vedevo, e…allora, sì, insomma, per un attimo ho pensato a lei, ecco tutto".
Quelle parole non avevano senso, pensò lui. Le si avvicinò sollevando da terra la borsa scura caduta insieme a tutto il resto, quindi non appena ebbe la possibilità gliela porse togliendole di mano la frutta raccolta per portarla nel cesto.
"Grazie", disse facendo cenno ai due di entrare con lei in casa. Aprì il cancello con una grossa chiave. Julia sollevò il cesto e la seguì per prima, poi anch'egli si mosse entrando per il vialetto ed accostando il cancello senza chiuderlo. Gli fece un certo effetto andare proprio là dentro: era un sogno, oppure un incubo se ricordava tutto il male che gli aveva procurato.
Entrando notò subito il piano: era lì, sulla destra, lucido e con la tastiera coperta dai fogli degli spartiti sparpagliati.
Si guardò attorno soffermandosi con particolare attenzione sui piccoli dipinti che costellavano la stanza: i loro colori vivi riflettevano tutta la luce proveniente dall'esterno, soprattutto il rosso. Doveva averli fatti Milena, il tratto era insicuro e alla fine si assomigliavano un po' tutti.
Smise di osservarli quando lei cominciò a parlare "Allora, dove eri finita? Quest'estate ti ho cercata ma a casa tua non c'era nessuno".
Julia espirò sonoramente, quindi rispose "Ecco, ero con lui", fece indicando col capo il ragazzo che ne approfittò per presentarsi.
"Ho vissuto tutto questo tempo a ***, a nord, ed è un caso che ora mi trovi di nuovo qui. Sarei dovuto rimanere là, ma lui mi ha fatta tornare proprio per venire da te".
"Non riesco a capire…lui non mi conosce, cioè l'unica volta che mi ha vista è stato per caso, non può conoscermi", fece lei sedendosi su di una sedia ed invitando i due a fare altrettanto.
Dopo un attimo di pausa lui si sentì ormai in ballo, e cercò di spiegare come stessero davvero le cose "Vedi", disse rivolgendosi a Milena, "Io non sono di questa città". Cominciando così raccontò tutto quanto era successo a partire dal giugno passato: la propria vita con Julia, il viaggio, ogni cosa.
Mentre parlava Julia non lo fissava, anzi come cercando di non sentire ciò che diceva e di allontanare il ricordo che stava a forza rivivendo guardava altrove; il viso però era comunque patito al passaggio delle sue parole. Solo Milena lo ascoltava attenta, ogni tanto annuiva oppure distoglieva gli occhi stupita che raccontasse ogni minimo particolare. In effetti non aveva mai parlato così.
Arrivò a narrare del padre, della sua morte e di quello che era stato il cammino per arrivare a capire chi fosse veramente, le descrisse i propri incubi, e la visione che due giorni prima aveva avuto sotto la doccia. Milena si sentiva un confessore, e non capiva quasi nulla, soprattutto perché dicesse a lei quelle cose; si alzò, sempre composta, si avvicinò al pianoforte e si sedette facendo un po' d'ordine fra le carte. Cominciò a suonare, ed egli per la terza volta ascoltò le note che ormai risuonavano nel suo spirito come un dolce e triste requiem: mentre i tasti salivano e scendevano Julia gli si fece vicina, sapendo il dolore che stava provando in quegli attimi. Gli appoggiò una mano sul collo e gli baciò una guancia, al che egli si alzò lasciandola esterrefatta, fece qualche passo e si accostò a Milena, che smise di suonare portando su di lui gli occhi. Solo allora vide tutto di lui, solo ora che lo aveva così vicino notò il piccolo ciondolo che gli pendeva dal collo, rotondo, lucente, e così…famigliare.
"Perché l'uomo che ti ha cresciuto aveva ucciso i tuoi genitori?", chiese con aria di sfida.
A tale domanda Julia cominciò a sudare freddo senza saperne il motivo: si asciugò nel palmo l'imperlatura della fronte e si bagnò le labbra asciutte. Guardò un po' Milena, poi un po' il ragazzo; la vide riprendere a suonare, ma con un ritmo più veloce, deciso.
Lui non la interruppe, aveva ancora dentro di sé quella domanda, isolata dal resto dei propri pensieri dalla musica; l'interrogativo battente si fece sempre più vasto e dilagante, chiuse gli occhi e si ritrovò di nuovo nel bosco innevato. Vide per la seconda volta se stesso con in mano l'arma, ma ora poteva vedere l'uomo in viso, e non di spalle come gli si era sempre presentato; prima che fosse sferrato il colpo notò una cosa impossibile, non ci credette né ci volle credere. Perché la guancia sinistra di suo 'padre' era bagnata? Erano scese due lacrime dal gelido cacciatore nordico, a creare un'espressione d'incommensurabile dolore provocato da tutto fuorché dalla ferita alla spalle che presto l'avrebbe raggiunto. Di nuovo cadde, ma prima lo vide aprire la bocca: disse qualcosa, sì, aveva detto qualcosa, ma da dietro non aveva potuto sentire, o forse sì, ma comunque solo ora era riuscito a ricordarlo…"Dovevo dirtelo…".
Le due parole lo travolsero, non seppe più a cosa credere, l'ira svanì, ed il pensiero che la sua mente avesse solo trovato una scorciatoia stabilendo senza prova che l'uomo aveva ucciso i suoi genitori cominciò a farsi strada in lui.
Il viso in lacrime urlava talmente di pietà che neppure lui riuscì a stare in piedi: cadde sulle ginocchia, soffrendo. Il suo subconscio pulsava, e ad ogni pulsazione il dolore provato era tale da farlo gridare come un pazzo. Era la verità che affiorava, enorme si faceva spazio fra lo stretto corridoio dei suoi pensieri, procedendo veloce e distruttiva lacerando in più punti le sue pareti come una massa d'acqua tra cunicoli di terra franosa.
Si strinse il capo fra le mani, disperatamente, guardando i propri piedi immersi nella neve; poteva essere possibile che tutto fosse partito da un equivoco, e che lui avesse creduto fino ad ora il falso? Prima il volto in lacrime dell'uomo, poi il proprio folle gesto si avvicendavano nei suoi ricordi: scuoteva la testa, ma era un insetto intrappolato nella tela del ragno…
Le gocce cadevano dalle guance fendendo l'aria, e mentre scioglievano la neve il coltello scavava il corpo dell'uomo, pieno di tutta la forza della rabbia accumulata in brevi istanti di tempo; aveva sferrato l'attacco senza che l'altro avesse potuto reagire, pensava che non si fosse neppure accorto che lui gli stava dietro…ma ora era diverso: ora questi sembrava del tutto conscio di quel che stava per accadere, e lo dava a dimostrare con lo sguardo vago e perso verso l'infinito, oltre gli alberi, oltre le montagne, forse verso ciò che era successo diciassette anni prima, un fatto su cui nei brevi attimi del suo compimento non era riuscito a riflettere lucidamente e di cui magari si era addossato tutta la colpa.
Stava di fatto che lui non poteva sapere, né mai avrebbe potuto, cosa in realtà ci fosse all'origine della morte dei genitori, ma quel pianto silenzioso aveva aperto in lui la via del perdono, e non solo: un angoscioso senso di vergogna colpì il suo cuore; e se tutto fosse stato un incidente? L'uomo si sarebbe addossato per anni una miserabile e indimostrabile colpa, non riuscendo a farsene una ragione neppure dopo aver preso in custodia il bambino, preferendo addirittura morire sotto le sue mani adulte già vittime innocenti delle proprie azioni. Lui avrebbe dato modo al suo volere di compiersi, ma senza alcuna giustificazione, soltanto incitato da un primitivo, rozzo e infondato modo di sentire odio verso chi senza alcuna certezza era considerato il distruttore della propria vita, sradicata e sepolta ancor prima che la ragione intervenisse a comprenderla.
Ora non poteva più credere che fosse accaduto diversamente; non poteva motivare in altro modo il pianto, anche se con orrore da vittima qual era stato diventava carnefice. Tutto si era chiarito, ma in fondo alla fine solo lui si era macchiato di un inutile delitto; i suoi genitori erano morti, ed ormai aveva appurato essere successo in circostanze misteriose e forse accidentali, invece lui aveva ucciso forte della propria volontà, non esitando neppure un istante una volta avuta in mano l'arma. A poco sarebbe servito scagliarsi contro la sempre taciuta verità da parte dell'uomo, e poi gliel'avesse detta non ci avrebbe nemmeno creduto, allora. Era strano come invece ci credesse ora, pur se nessuno fosse venuto a dirglielo e avesse soltanto interpretato l'ultima espressione del padre che da subito gli si era impressa dentro, ma che solo da poco si era accesa come un faro nella nebbia. Il respiro continuava ad essere affannoso, quasi febbricitante: i pesanti colpi che sentiva al suo interno comprese essere nuovamente le note accordate da Milena; era nella stanza, non era passato più di un minuto, e né Julia né Milena si erano mosse da quando si era reso assente.
"Lo sentivo che qui avrei saputo tutto ciò che volevo", disse lui senza rivolgersi a qualcuno in particolare.
Milena smise di suonare, e Julia notando che egli dava segni di stanchezza gli corse incontro, facendo appena in tempo a tenerlo su quando conscio si lasciò cadere. Rotolò sulle sue braccia in uno stato simile a quello del dormiveglia, e intanto anche l'altra ragazza si fece vicina; dopo essersi alzata guardò Julia come per chiederle se tutto era sotto controllo, se avesse bisogno di aiuto. Di risposta ricevette un rapido gesto col capo che significava di stare tranquilla. Julia si sedette per terra insieme a lui; gli accarezzò il viso e lo sistemò come meglio poteva accanto a sé. Milena, sentendosi impotente, scomparve per un attimo, ricomparendo poco dopo con un bicchiere d'acqua; anche lei quindi si mise a terra ed offrì il bicchiere a Julia. "Ora no", disse lei con gentilezza. Lei posò l'acqua, poi guardò il volto del giovane, e non poté fare a meno di notare per la seconda volta il pendente con impresse le due lettere I e G: approfittando di un attimo di distrazione di Julia glielo sfilò dal collo e lo chiuse nel proprio pugno. Subito dopo il ragazzo disteso diede visibili segni di miglioramento, spalancò gli occhi e si guardò attorno stupito dalla posizione in cui si trovava; provò ad alzarsi, ma Julia lo trattenne, quindi si voltò a guardarla e trovò in lei un'espressione seria; infine osservò anche Milena, che invece gli sorrise.
"Va meglio?", chiese lei imbarazzata e stringendo forte nella mano il ciondolo, sperando che egli non dovesse accorgersene.
Al suo nuovo tentativo di alzarsi Julia non riuscì più a bloccarlo, lo lasciò andare e nello stesso momento guardò intensamente la mano destra di Milena. Quest'ultima capì subito che lei l'aveva vista nell'attimo della sottrazione, ed al rapido cenno d'intesa che lei le fece senza farsi notare rispose altrettanto veloce.
Quando tutti e tre furono infine in piedi Julia gli chiese spiegazioni su quel che era accaduto.
"L'uomo che mi ha cresciuto non aveva nessuna colpa…L'unico colpevole di quello che è successo, di tutto quanto ho sofferto e che ti ho fatto soffrire sono io", disse sfiduciato a testa bassa.
"Perché dici questo? Non puoi saperlo!", protestò Julia con sincero risentimento.
"Sì che posso…", continuò.
Julia sentì una strana sensazione a fior di pelle; non riuscì a contrastarla se non aumentando il tono di voce col quale si stava rivolgendo al ragazzo: "Ma come? Non capisco, come?". Era la prima volta che alzava la voce contro di lui.
"Ho sempre saputo che lui non aveva nessuna colpa, deve essere stato un incidente ad uccidere i miei genitori, un inevitabile incidente"; la calma con cui parlava, demotivata e privata di ogni valore, suonava davvero fastidiosa alle orecchie del suo interlocutore. Julia sbuffò non sapendo più cosa dire, presa alla sprovvista dal suo modo di fare: riuscì solo a ripetere quello che già aveva detto, a denti stretti, tentando di scusarsi per l'attacco d'ira con un tono di viva commiserazione. "Perché dici questo?".
Prima che l'altro potesse riprendere la medesima cantilena Milena si mise in mezzo alla discussione; guardò prima l'uno poi l'altra, quindi cominciò a parlare.
"Lo spiego io il perché!", fece secca e decisa. Aprì il pugno e mostrò il pendente; questo roteò nell'aria per degli interminabili secondi, poi si bloccò. Il suo vorticoso oscillare stava ipnotizzando Julia, e le maglie della catena tendevano già a sfocare in un'unica massa dorata poco prima che si fermasse. L'atmosfera si stava caricando di tensione, e l'angoscia si condensava nello spirito dei due ragazzi mentre il destino tesseva la sua trama.
Quando Milena ricominciò a parlare Julia era ormai ai piedi del baratro, ed anche lui aveva perso molta della sua sicurezza, pur se continuava a nutrire la perversa curiosità di conoscere l'ignoto. Entrambi stavano fermi, con le mani distese, ma mentre lui avidamente e senza darlo a vedere attendeva che lei parlasse, lei godeva di ogni secondo arrivasse a salvarla da quel discorso ormai imminente, perché ombre ancora irriconoscibili aleggiavano nel suo cuore come presagi di un'inaccettabile realtà. L'attesa non fu lunga; appena ella proferì parola Julia strinse gli occhi come preparandosi a sopportare un dolore immenso, anche se nel profondo era ancora speranzosa, dopotutto.
"E' vero che fu un incidente. Ma non credo che parlarne sarebbe utile", disse Milena scuotendo la testa ed in preda ad un grande imbarazzo. Egli la pregò di continuare.
"Beh…se tu hai questo…", fece indicando il ciondolo, "…io conoscevo i tuoi genitori".
Julia non capì più il significato dell'universo.
Cosa poteva centrare quell'oggetto con tutta la storia? Come poteva conoscere lei delle persone vissute in luoghi totalmente estranei alla sua vita? Ed estranei dovevano per forza esserlo, vivevano a centinaia di chilometri di distanza, e lei aveva undici anni appena quando erano morti! Non aveva viaggiato, era sempre stata in città…
Milena fece un sorriso; "Non avrei mai pensato di rivedervi uniti!...e mi sembra più uniti di un tempo…". Così dicendo corse dal ragazzo e gli gettò le braccia al collo, "Potevate dirmelo prima, non era necessario preparare questa messinscena.".
Guardò i due, rise convinta di quanto aveva creduto di capire, e non comprese i loro volti seri e lontani l'uno dall'altro.
"Dai, raccontatemi tutto, Julia, come avete fatto a ritrovarvi…oddio, ma ci pensi che sono passati diciassette anni da quando siete stati separati, da…da quando i suoi, i vostri genitori sono morti…".
Julia capì di sapere a che appartenessero le iniziali incise sul ciondolo, e per un momento sorrise arrivando a comprendere che allora era logico che egli conoscesse quella musica. Sua madre, il piano, la vecchia casa…
Tremò valutando l'esatta precisione con cui le età combaciavano. Qualcosa in lei morì.
Non capiva poi perché Milena fosse così felice per quello che era successo; ci ragionò sopra ma non poté arrivarci. In un secondo perse la voglia di fare qualsiasi cosa; indietreggiò ed urtò il tavolo su cui Milena aveva posato il bicchiere. L'acqua si rovesciò sul pavimento di legno e il vetro andò in mille pezzi insieme a tutto quanto era successo prima di quell'attimo.
Trovò una sedia, e vi si sedette barcollando.
"Lascia, non fa…niente", disse Milena in relazione all'incidente appena capitato, con voce sempre più bassa.
"Ma cosa succede?", continuò con l'ennesimo sorriso pietrificato teso a sciogliere la tensione.
Il ragazzo, che intanto aveva sentito tutto, si mosse, lento, poi sempre più veloce; raggiunse la porta ed uscì senza nulla dire.
Rimasero in due.
Fuori era scesa la notte; percorse di fretta il vialetto, raggiunse il cancello, lo trovò aperto ed uscì. Pianse, ma continuò a camminare fra i vicoli scuri ormai famigliari. Le scarpe battevano sul selciato con un sordo scalpiccio e rimbombavano fra le pareti delle case. I rari lampioni proiettavano la sua ombra, grande ed evanescente come una flebile ombra cinese creata da una candela, e nelle lontane notti estive si sarebbero sentiti i lamenti spettrali degli insetti; ora invece tutto taceva, anche le stelle.
Arrivò sul mare da una piccola strada, aveva evitato di tornare sul corso; risalì un poco il lungomare e giunse all'auto, rimasta sola accostata al parapetto di pietra che dava direttamente sulla spiaggia.
Si frugò in tasca, sapeva di avere le chiavi, infatti le trovò ed aprì la portiera.
La via era vuota, e per lui che aveva appena imparato sembrava essere l'ideale. Partì ed accelerò subito, ma solo dopo essere salito sulle scogliere prese la sua decisione.
Finché aveva odiato l'uomo che per anni si era spacciato per suo padre Julia gli era stata vicina, invece ora che aveva ritrovato per lui l'amore ed il perdono se l'era vista sfuggire; non poteva nemmeno pensare alla verità, semplicemente credeva di vivere in un sogno, dove nulla era reale.
E non provò né dolore né angoscia.
Quando l'auto iniziò la folle caduta voltò solo gli occhi verso l'alto.
Julia era ancora seduta al tavolo, a casa di Milena: si alzò di scatto ed afferrò la ragazza per le spalle.
"Ma perché sei così maledettamente felice?…Non vedi che rapporto c'era fra noi due?", urlò con la gola soffocata.
Milena fu colta così alla sprovvista e tanta era la forza che Julia imprimeva sul suo corpo che sull'istante non riuscì a rispondere. Poi si liberò dalla presa con uno strattone, fece qualche passo indietro ed aspettò una sua reazione.
Julia continuò: "Allora? Ti sembra bello, o…o divertente che due…". S'interruppe quando le lacrime le vennero agli occhi, "…fratelli…"; si fermò impedita nella parola da un dolore che la costrinse a piegarsi sulle ginocchia. Lei la guardò sempre più incredula, quindi le prese una mano ed intervenne "Ma cosa dici: voi non siete fratelli! Insomma, per nome lo siete stati per circa sei mesi, ma tu come sai sei stata adottata.".
Julia alzò lo sguardo, e quindi Milena capì tutto.
"Non…non lo sapevi, allora. Ora capisco. I tuoi genitori forse pensavano che fossi ancora troppo giovane per dirtelo, o forse sei tu a non ricordarlo, poi sono morti e tutta la storia è stata sepolta. Anch'io l'ho saputo solo…", ma Julia non la lasciò finire. Corse fuori dalla casa. Milena la seguì; Arrivò al cancello ma lo trovò chiuso, prese allora fra le mani due delle inferriate, ed invasa dal pianto si lasciò scivolare sull'erba già umida per la prima rugiada. Milena si chinò per assisterla, ma non poté fare niente.
L'auto precipitava, e dentro come per incanto egli ritrovò il proprio cuore.
Con il volto sulla terra Julia era ancora attaccata al cancello nell'aria pungente di quella limpida notte.
"Dovevamo crescere insieme…dobbiamo vivere… insieme…". Disse e si sentì lasciare.
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