Insonnia
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Insonnia
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Il display dell’orologio digitale sul comodino accanto al letto segnava le quattro meno un quarto.
Dalla finestra socchiusa provenivano suoni lontani e sconnessi: una macchina che arrancava pesantemente sopra la salita, dei ragazzi che si rincorrevano gridando qualcosa di incomprensibile, qualche tetro ululato di un randagio che urlava alla luna il suo sordo dolore.
Ma sopra ogni altra cosa regnava un assordante silenzio, caldo, appiccicoso, ruvido come un lenzuolo non lavato.
Si alzò dal letto disfatto e si sedette sulla sedia della cucina.
Si accese un’ennesima sigaretta, ne inalò profondamente l’aroma amaro e sbuffò una lunga boccata di fumo azzurrognolo che si librò pigra verso il soffitto.
Appoggiò la testa contro il muro fresco e socchiuse gli occhi stanchi.
Sette mesi, ventidue giorni e diciotto ore di insonnia.
Dio mio, era vicino al punto di non ritorno.
Il nervosismo cresceva allo scoccare esatto delle ventuno e trenta, quando il telegiornale nazionale porgeva il suo saluto di commiato al grande pubblico e partivano i titoli di testa del primo film della serata.Lì iniziava il suo calvario alimentato dalla consapevolezza che al primo spettacolo ne sarebbe seguito un altro, ed un altro ancora, un notiziario della notte ed una rassegna stampa, fino alle televendite che ti invitano ad acquistare un set di coltelli giapponesi sponsorizzati da un idiota vestito da samurai con le scarpe da ginnastica.
Non poteva continuare così, era ovvio che si stava inesorabilmente avviando all’autodistruzione.
Molti suoi colleghi avevano sofferto del cosiddetto blocco dello scrittore, si erano attaccati ad una bottiglia, alle sottane di una bella donna, a qualche setta mistica che predicava l’amore universale, ma nessuno si era mai trovato a vivere una situazione insostenibilmente angosciante e protratta come quella che stava affrontando.
Si era perfino rivolto ad un terapeuta quattro mesi prima, un ometto distinto con un singolare tic all’occhio destro che lo costringeva ad ammiccare di continuo ad i suoi interlocutori e che gli aveva garantito che il suo “piccolo inconveniente”, così aveva bollato il suo personale inferno, si sarebbe risolto con qualche seduta, un po’ di sano esercizio fisico e della buona musica che lo stesso terapeuta si era premunito di fornirgli, ascoltata in perfetto relax prima di coricarsi.
Era calato quasi sette chili, i suoi bicipiti avevano riacquistato lo splendore di un tempo, aveva trascorso ore chiacchierando amabilmente della sua infanzia, dei suoi rapporti amorosi, delle sue aspettative, del suo lavoro con il serio e compassato professionista della psiche ed aveva consumato l’audiocassetta con le melodie tantriche, ma il suo cervello era più desto che mai;oramai non sentiva neanche più quel fastidioso cerchio alla testa che aveva accompagnato tutte le mattinate dei primi cinque mesi di veglia forzata, era vigile, attento, teso e pronto a scoccare come una freccia appoggiata ad un arco, era sull’orlo di una crisi di nervi.
Le voci provenienti dalla strada si fecero più forti e riuscì a captare qualche parola:
“Hai ragione, ci starò più attento la prossima volta”.Sembrava un ragazzo molto giovane dal tono quasi disperato.
“Non ci sarà nessuna prossima volta”un uomo maturo, dalla voce baritonale e roca, inveiva minacciosamente contro il suo compagno.
Dopo un breve silenzio, udì un grido strozzato.
Si alzò dalla sedia della cucina e corse verso la finestra del soggiorno, scostò appena la tenda per non essere visto.
Una sagoma scura e contorta era distesa sull’asfalto, immersa in una pozzanghera lucida , emetteva un
rantolo disperato, sembrava che la vita gli stesse
sfuggendo dalle labbra dischiuse;accanto a lui un uomo ritto respirava affannosamente.
D’improvviso l’uomo levò gli occhi verso James, un rivolo di sangue vermiglio gli scorreva lungo il contorno del mento, lo fissava con occhi di brace.
Indietreggiò come colpito da uno schiaffo.
Chiuse la tenda e si sedette intontito sul divano.
(Calma) pensò (devi chiamare subito la polizia).
Compose il numero con mano malferma (quell’uomo aveva gli occhi color brace, fiammeggianti), un brivido incontrollato gli attraversò la schiena.
“Distretto di polizia, in cosa posso esserle utile?”.
La voce della poliziotta era assonnata ed ostile.
“Mi trovo al trentacinque di Doney Street, sotto la mia finestra è stato appena ucciso un uomo, o meglio non so se sia realmente morto , ma giace riverso in una pozza di sangue, dovete venire subito”.
“Si calmi”la donna aveva assunto un tono desto ed efficiente “non lasci la sua abitazione , le invieremo subito una pattuglia, mi dia il suo nome per favore”.
“James Mallow”.
Riagganciò.
Resto immobile fino all’arrivo degli agenti, che bussarono impetuosi alla sua porta pochi minuti dopo il termine della conversazione telefonica.
Andò ad aprire e due giovani in divisa entrambi con i baffi e l’aria scettica, entrarono nel suo appartamento.
“E’ lei James Mallow?”domandò il più alto dei due.
“Sì, sono io, come sta il ragazzo?”.
“E’ proprio questo il punto” esordì l’altro con fare sbrigativo “non abbiamo trovato nessun ragazzo in fin di vita sul marciapiede sottostante”.
“Cosa?”James aveva gli occhi letteralmente fuori dalle orbite, se avesse visto un marziano entrare a casa sua e bere un drink, non si sarebbe meravigliato così tanto.
“Esattamente signor Mallow”.
“Ma non è possibile, insomma io ho sentito chiaramente le urla mentre ero seduto in cucina, ho visto il ragazzo riverso al suolo ed un uomo accanto che..che..” (ringhiava con occhi di brace) ebbe la tentazione di dire, ma, ovviamente, non lo fece, la situazione era già disperata così, figuriamoci cosa sarebbe accaduto se avesse aggiunto questo piccolo particolare al suo racconto.
“Dov’ è la finestra dalla quale ha assistito all’omicidio”domandò il primo agente.
James indicò la parete alle sue spalle, e tutti e tre vi si diressero.
Scostò la tenda e vide esattamente una lunga striscia d’asfalto scura illuminata dalla luce lattescente di un lampione, una macchina parcheggiata a pochi metri di distanza e l’auto della polizia con i lampeggianti ancora accesi.
“Non capisco”mormorò in tono di scusa “eppure io ho visto...io...”.
“Voleva movimentare la serata signor Mallow?”.
“No,certo che no, e non volevo neppure farvi perdere tempo se è quello che stava per aggiungere agente;realmente non riesco a capire”fu tutto quello che riuscì a dire.
“Bene, facciamo quattro chiacchiere signore”disse il poliziotto meno socievole.
“Di cosa si occupa signor Mallow?”.
“Sono uno scrittore”.
“Cosa scrive esattamente?”.
“Romanzi horror, racconti noir, saggi sull’occulto”disse frettolosamente.
I due uomini in divisa si scambiarono un’occhiata complice.
“Capisco, bhe la sua fantasia le ha giocato un brutto scherzo stavolta”proseguì l’agente più alto.
“Può darsi”replicò James atterrito.
“Per questa volta non le faremo rapporto, ma la prossima volta”(Non ci sarà una prossima volta); l’eco di quelle parole risuonò nella sua testa come un colpo di fucile.
“La prossima volta”insistette l’agente “non saremo così comprensivi, prima di denunciare un omicidio o un’aggressione si sinceri che non sia frutto della sua immaginazione”.
James rispose con un cenno del capo.
I due uomini si diressero verso la porta d’ingresso sorridendo, quello più alto,il buono come lo aveva ribattezzato mentalmente James, si voltò e gli disse:
“Ha un aspetto poco salutare, farebbe bene a farsi una bella dormita”.
Rimasto solo nell’appartamento tornò ad affacciarsi alla finestra, vide i due agenti rimontare nell’auto e ripartire spegnendo i lampeggianti, sul marciapiede sottostante un gatto passeggiava furtivo con la coda ritta come una bandiera.
“Che diavolo mi sta succedendo”mormorò alla stanza vuota.
L’orologio sul comodino segnava le sei e trenta, un’altra notte era finalmente terminata.
L’anticamera del dottor Malden era gremita di gente nervosa e mesta al contempo.
Nessuno fissava apertamente in volto il vicino e l’aria era carica di un’attesa immotivata;qualcuno sfogliava una rivista di psicologia fingendo interesse per gli articoli che appena scorgeva voltando frettolosamente le pagine, qualcun altro guardava spesso l’orologio con fare indifferente, una donna si attorcigliava meccanicamente una lunga ciocca di capelli biondi attorno alle dita paffute fissando intensamente un angolo non ben precisato della stanza.
(Ben venuti alla moderna fiera della solitudine e delle stranezze)pensò James quasi divertito(potrete trovare di tutto qui: maniaci, depressi, demotivati ed un bel mucchio pasciuto di svitati di ogni genere, vengano signori, vengano).
“Signor Mallaw”la segretaria del dottor Malden lo chiamò con il solito sorriso rassicurante stampato sul volto ben truccato.
(Chissà se le assistenti degli strizzacervelli fanno un corso di sorrisi prefabbricati prima di essere assunte) pensò.
IL dottor Malden era comodamente seduto dietro la grande scrivania di rovere, un sigaro emetteva un piccolo rivolo di fumo dal posacenere di cristallo;teneva fra le mani una cartella clinica che consultava con foga, gli occhiali eternamente in bilico sulla punta del naso aquilino gli conferivano l’aria di un vecchio bibliotecario prossimo alla pensione.
“Signor Mallaw, si accomodi”.
“Buona sera dottore, come sta?”gli chiese porgendogli la mano.
“Tutto bene, la ringrazio, affaccendato come sempre.Ma parliamo di lei piuttosto, la sua telefonata di questa mattina mi ha sorpreso, dopo gli scarsi risultati ottenuti con la sua insonnia dubitavo che il nostro rapporto sarebbe continuato”.
“Ne dubitavo anch’io dottore”:
“Dunque deve essere intervenuto qualche nuovo fattore...”.
Si fermò scrutando James con occhi piccoli da roditore, Mallaw trasse un profondo sospiro e raccontò allo psicoterapeuta ciò che gli era accaduto la notte precedente.
Il dottore ascoltò il racconto prestando la massima attenzione e dopo qualche istante di silenzio chiese:
“E lei cosa ha dedotto da questa singolare esperienza?”.
“Veramente credevo di ottenere da lei delle risposte, dottore”.
“Il compito della psicanalisi non è confezionare soluzioni, signor Mallaw, casomai è porre le domande giuste e tentare di ricostruire la personale versione della realtà del singolo”.
(Che è come dire sbrigatela da te, ma pagami)pensò James.
“Credo di aver avuto un’allucinazione”disse con un sospiro.
“Mhh, noto che si è già fabbricato una diagnosi”.
“Crede sia errata?”.
“Probabilmente è esatta, ma perché questa allucinazione le si è palesata in quel modo e sotto quelle spoglie, è questo che ci interessa”.
“Ho capito; secondo il mio modesto parere non medico, credo di aver abusato delle mie riserve energetiche , credo che la protratta mancanza di sonno mi abbia rammollito il cervello e credo di aver bisogno d’aiuto”.
“Bene, sono qui per fornirglielo.Ha ripreso a scrivere signor Mallaw?”.
“No” sospirò.
“Perché?”.
“Non lo so;mancanza di idee, svogliatezza, esaurimento dell’inventiva”.
“Ha cercato di procurarsi un nuovo lavoro, diverso dallo scrivere intendo”:
“Non ho problemi finanziari che mi spingano in tal direzione al momento”.
“Non parlavo di necessità contingente, mi riferivo al desiderio di cambiare vita, di dedicarsi a qualcosa di nuovo”.
“No; non ho alcun desiderio di cambiare vita”.
Silenzio.
“La mia vita è lo scrivere.Lo è da sempre”.
“Allora tenti di riprendere”.
“Non posso...non ci riesco, come prendo una penna in mano le idee si azzerano, il foglio bianco diventa un nemico, la memoria perde colpi e la sudorazione esplode”.
“Mi sta descrivendo un attacco di panico”.
“Le sto descrivendo il mio panico dottore”pronunciò quell’ultima frase due ottave sopra il suo solito tono di voce, abbassò gli occhi imbarazzato e porse le sue scuse al dottor Malden.
“Non si preoccupi, sfoghi pure la sua rabbia”.
“Che cosa debbo fare secondo lei?”.
“Affronti i suoi demoni, scriva, ci provi; passerà l’insonnia e passeranno le allucinazioni”.
“Crede che possano tornare?”.
“E’ possibile, non probabile, ma possibile”.
Estrasse il ricettario dal cassetto chiuso a chiave sotto la scrivania e vergò in una grafia poco leggibile, alcune righe ordinate, sotto le quali appose la sua firma.
“Prenda queste due volte al giorno, prima dei pasti, l’aiuteranno a dormire”.
James prese il foglio con gratitudine, si accomiatò dal dottore e fece ritorno a casa dopo essersi fermato nella prima farmacia aperta.
Alle otto in punto di una sera fredda e stellata, inghiottì la prima pillola con timore reverenziale, si distese sul divano ed accese la televisione.
Correva a perdifiato, un’ombra dinnanzi a lui lo precedeva e con qualcosa che assomigliava ad un braccio teso indicava un punto sconosciuto di fronte a loro.
“C’è sempre un prezzo da pagare”una voce di donna tuonava da un luogo lontano.
“C’è sempre un prezzo da pagare, ricordatelo”.
Spalancò gli occhi.
L’orologio sopra la televisione segnava le quattro e mezzo, aveva dormito per quasi nove ore, un miracolo.
“No!”.
Una voce maschile strozzata piagnucolava dalla strada.
James si alzò e si diresse verso la finestra del soggiorno avvolto in una sorta di deja-vù; si affacciò senza nascondersi dietro la tenda.
Una donna era in piedi di fronte ad un uomo inginocchiato, stretta nella mani lunghe e tremanti serrava una pistola; l’uomo ai suoi piedi implorava pietà fra i singhiozzi.La donna era vestita con una leggera camicia da notte, sembrava indossare delle ciabatte e, sorprendentemente, i suoi piedi non poggiavano sul manto stradale, ma su un tappeto azzurro.
I capelli le svolazzavano intorno alla figura snella, il volto contorto in una smorfia di disgusto.
“Ti prego, non uccidermi, non volevo devi credermi, non volevo”biascicava l’uomo inginocchiato.
Lei, glaciale, serrò un attimo gli occhi e premette il grilletto.
La detonazione fu imponente, la testa dell’uomo esplose in mille pezzi, come una brocca che si infrange al suolo,il sangue schizzò copioso sugli abiti della donna, sul suo volto, macchiò il tenue azzurro del tappeto.
L’uomo stramazzò a terra scosso da spasmi muscolari, poi si immobilizzò.
La donna levò il volto verso James e sorrise, mostrando un viso scarno, solcato da profonde occhiaie e punteggiato da gocce vermiglie.
James si premette con forza le mani sugli occhi e li spalancò d’un tratto: nulla.La strada era deserta, nessun morto, nessuna donna, niente.
Si sedette sul divano e pianse.
Trascorse la mattina seguente sdraiato sul letto.
Aveva ingurgitato quasi l’intero flacone di pillole che il dottor Malden gli aveva prescritto, forse nell’inconscio tentativo di farla finita con sé stesso e con il mondo, quello reale e quello immaginifico del quale suo malgrado era entrato a
far parte.
L’unico risultato che ottenne fu una vaga sonnolenza ed un intenso senso di vertigine che lo accompagnarono per l’intera giornata.
E venne la notte.
Scura, vellutata, ammantata di mistero e di odori, solitaria, beffarda, una bella donna che ti mostra un sorriso accattivante per distrarti dal coltello affilato che cela dietro la schiena.
Non provò neppure ad addormentarsi.
Attese.
E vennero.
Puntuali come la morte, alle quattro e mezzo di una notte persa in mezzo al nulla.
Stavolta non fu richiamato dalle urla, ma da un pianto sommesso.
Si affacciò.
Un bambino sedeva con la testa sprofondata fra le ginocchia, dondolava avanti ed indietro, come se stesse su una vecchia sedia di vimini, quelle che a volte si vedono nelle vetrine degli antiquari. Il bimbo singhiozzava, ogni tanto tirava su con il naso, si stropicciava gli occhi e ricominciava quella tediosa cantilena.
Ad un tratto si issò a fatica dal marciapiede, fece quattro o cinque passi in direzione della strada per arrestarsi pensieroso.
Si voltò, alzò il volto verso James e protese le palme delle mani aperte. Il suo viso era mostruosamente sfigurato: la bocca senza labbra mostrava una fila di denti acuminati e sporgenti, gli occhi enormi non avevano palpebre, erano vuoti e neri come pozzi, al posto del naso aveva un piccolo foro umido dal quale colava una sostanza gelatinosa e giallastra.
“Papà” urlò disperato verso James che lo osservava attonito con la bocca spalancata in un grido muto.
Svenne.
La mattina dopo si destò improvvisamente, scosso da brividi e con un tremendo sapore amaro in bocca.
Spalancò gli occhi e si ritrovò a fissare il soffitto.Ricordava tutto.
L’orrore.Le grida.Quel pianto affannato e quella parola: papà.
Si alzò dal pavimento ed una fitta di dolore lo colse alla sprovvista costringendolo a fermarsi, le gambe intorpidite non volevano saperne di tornare a funzionare.
Stava impazzendo.Orami era chiaro.
L’insonnia era stato solo il preludio all’inesorabile degenerazione del suo sistema nervoso.Era spacciato.
L’immagine di sé stesso steso su di un letto ed ingabbiato in una camicia di forza, gli si palesò chiara e reale quanto le sua allucinazioni.
Si vestì e fece ritorno alla farmacia.
Rincasò qualche ora dopo, stanco ed affamato. Dopo aver sbrigato quell’importante commissione, aveva peregrinato senza meta fra le strade della sua città, senza pensare, tentando di non respirare troppo forte per non attirare l’attenzione di nessuno.
Aveva tentato di confondersi con la gente comune, curiosando nelle vetrine dei negozi, osservando distrattamente il volo degli uccelli, sbirciando per un’ultima volta la vita che anche lui aveva un tempo vissuto.
Si sedette sul divano ed aspettò.
Si addormentò.
Alle quattro e mezzo si destò, pronto per affrontare il suo destino.
Si affacciò alla finestra.
Nulla.
Attese.
Nulla.
Qualche macchina attraversava pigramente la strada, il solito gatto sgambettava per il marciapiede.
Niente apparizioni.
“E allora!”gridò “dove siete questa sera!”lacrime cocenti gli sgorgarono dagli occhi tristi ed iniettati di sangue.
“Sono qui!Che aspettate”.
“Che tu stia zitto, imbecille!”fu la risposta di qualche vicino spazientito.
James rientrò in cucina, afferrò la boccetta di barbiturici che aveva acquistato in farmacia il pomeriggio, elargendo una lauta mancia al farmacista affinché chiudesse un occhio per la mancanza di prescrizione medica, ne svitò il tappo e versò una decina di pillole rosa nel palmo della mano spalancata, le mise in bocca e si voltò verso il salotto nel quale qualcuno aveva acceso una luce.
Entrò con circospezione con la manciata di pasticche che gli premeva contro l’interno delle guance.
Erano tutti lì.
L’uomo con le zanne e gli occhi di brace era seduto sul divano accanto al ragazzo con la gola squarciata da un morso.La donna in camicia da notte con la pistola ancora serrata nella mano e l’uomo senza testa al suo fianco, ritti accanto alla finestra.In mezzo, piccolo e sorridente, il mostro che lo aveva chiamato amabilmente papà.
“Non lo fare James, non ci uccidere”disse il piccolo mostro, muovendo la sua bocca senza labbra.
James sputò le pasticche sul tappeto.
“Voi non siete reali, voi non esistete!”.
“Non ancora”replicò il piccolo mostro.
James fuggì nella stanza da letto chiudendo la porta alle sue spalle.
Si voltò ed erano di nuovo tutti lì che lo osservavano con aria preoccupata.
“Cosa volete?”pianse.
“Non lo hai ancora capito James Edgar Mallaw?”stavolta a parlare fu l’uomo dai lungi canini insanguinati.
“Chi sei?”chiese James quasi implorando.
“Non ho ancora un nome, non me lo hai dato”.
“Io?”balbettò “non capisco”.
Si fece avanti la donna con la pistola.
“Non sai proprio chi siamo?”.
“No, mio Dio, no!”urlò James.
“Siamo i personaggi che non hai ancora inventato James”proseguì il ragazzo con la gola recisa.
“Che cosa?”.
“Sì, papà, siamo le creature che popolano i tuoi sogni, i tuoi incubi”.
“Siamo la tua arte”continuò la donna.
James si sedette sulla sponda del letto accanto al piccolo mostro.
“Siamo irreali James, è vero”disse l’uomo con i lunghi canini “ma siamo ugualmente vivi; viviamo nei tuoi pensieri, nei tuoi incubi, nasciamo nel momento che ci dai forma su un foglio. Certo è una vita fittizia, ma è l’unica che ci sia concesso vivere, e se tu smetti di scrivere, ci sarà negata anche quella”.
“Ci agitiamo nei meandri del tuo Io”continuò la donna “cerchiamo di uscire e acquistare indipendenza; hai mai avuto la sensazione che le parole che verghi su di un foglio fluiscano per loro volontà e non per tua?”.
“Sì”ammise James con un filo di voce.
“E’ la nostra anima che si palesa attraverso di te”.
“Abbiamo bisogno di te papà”disse il piccolo mostro “se non ci permetti di venir fuori, ci uccidi, e noi non vogliamo morire”.
“Venir fuori da dove?”.
“Dalla tua fantasia”disse il ragazzo dalla gola recisa “non frenare la tua fantasia, non aver paura di affrontarci, noi siamo parte di te, quella parte di te che non vuole morire”.
“Ti prego papà, non ucciderti, non ucciderci”.
“Ma io non so più come fare, non riesco, le idee mi sfuggono, io...”.
“Dormi James”disse la donna “sognaci, cercaci, noi saremo sempre in un angolo della tua mente pronti a soccorrerti, fidati di noi, fidati della parte oscura che è in te”.
James prese il piccolo mostro fra le braccia e lo strinse forte, sentì i denti aguzzi sprofondare nella sua camicia e graffiargli leggermente il petto, sentì il bimbo ridere e rise a sua volta, strinse la mano dell’uomo dai lunghi canini e la donna con la pistola gli accarezzò il viso mostrando un sorriso triste e mesto.
Si allontanarono verso la porta della stanza da letto ed ad uno ad uno scomparvero.
Solo nella stanza James prese un blocco per gli appunti che teneva dentro il primo cassetto del comodino e cominciò:
“La vita di un lupo è solitaria, la vita di un lupo è violenta, la vita di un lupo è selvaggia, ma fedele...”.
Continuò a scrivere per tutta la notte, per tutta la mattinata e smise solo all’imbrunire.
Erano tutti lì dove dovevano essere: su uno splendido foglio di carta solcato da regolari righe di grafia distorta e quasi incomprensibile.
Telefonò alla sua segretaria, le disse che c’erano tre racconti che le aveva inviato via fax, che avrebbe dovuto trascrivere entro la mattinata ed aggiunse che ne sarebbero seguiti molti altri.
Il mese successivo fu una lunga ed interminabile cavalcata attraverso l’impossibile, l’improbabile e l’ignoto.
Dormì dieci ore a notte.
Sognò i suoi adorati demoni.
Scrisse ciò che la dimensione onirica gli aveva regalato; al trentesimo giorno aveva redatto più di venti racconti, tutti ottimi, nessuno escluso.
Il suo agente lo chiamò entusiasta:
“Credimi, vecchio bastardo, sono le migliori storie che tu abbia mai scritto, faremo i soldi stavolta, ma quelli veri”.
La raccolta di racconti fu pubblicata con il titolo “Tabby ed altri incubi, sulla copertina troneggia l’immagine di un bimbo deforme che sorrideva, James stesso l’aveva disegnata.
Il successo preannunciato giunse, liberatorio e magnanimo.
James si recò a far visita al suo analista qualche giorno dopo la pubblicazione con una copia del libro autografata stretta contro il petto.
“Signor Mallaw, sono lieto di vederla”.
“Anch’io dottor Malden”.
“So che ha scritto un nuovo libro di successo”.
“Ecco per lei una copia, in fondo questa mia rinascita è anche merito suo”:
“La ringrazio, ma è solo il mio lavoro; non si accomoda per scambiare quattro chiacchiere?”.
“Mi perdoni, ma vado di fretta, voleva solo salutarla”:
“Lascia la città?”.
“No, solo il suo studio”.
“Risolta l’insonnia?”.
“Certo”.
“E le allucinazioni?”.
James rise, si avvicinò alla scrivania del dottore e gli sussurrò:
“Quelle me le tengo, sono affezionato ai miei mostri”.
“Questo non è un comportamento saggio signor Mallaw, se continua ad avere singolari esperienze sensoriali, credo sia d’uopo parlarne, e tentare di risolvere il problema”.
James alzò noncurante le spalle:
“Se crede sia il caso di parlarci, lo faccia direttamente”.
La stanza si popolò di figure quasi fiabesche: demoni tricorni, vampiri, uomini lupo ghignanti, spettri sognanti, folletti deformi, donne sanguinanti, mariti senza testa, zombie rantolanti, mani disarticolate, artigli e un unico sorridente bambino deforme mano nella mano con James.
“Eccoli qui, li vuole far sparire?”.
L’orda infernale ululò all’unisono.
Lo psicanalista farfugliò qualcosa di incomprensibile, sgranò più volte gli occhi, boccheggiò, si portò una mano al petto ed emise un respiro sibilante ed interminabile prima di chiudere gli occhi.
Dall’assemblea si alzò una sorta di barrito ilare.
James fece cenno all’allegra brigata di tacere, sorrise a sua volta ed uscì.
Le creature si trattennero ancora qualche secondo nella stanza, poi, ad una ad una, sparirono.
“Signorina”disse James rivolto all’avvenente segretaria.
“Mi dica signor Mallaw”.
“Credo che il dottor Malden abbia avuto un malore, le consiglio di andare a controllare il suo stato di salute”.
Uscì ridendo.
Dalla finestra socchiusa provenivano suoni lontani e sconnessi: una macchina che arrancava pesantemente sopra la salita, dei ragazzi che si rincorrevano gridando qualcosa di incomprensibile, qualche tetro ululato di un randagio che urlava alla luna il suo sordo dolore.
Ma sopra ogni altra cosa regnava un assordante silenzio, caldo, appiccicoso, ruvido come un lenzuolo non lavato.
Si alzò dal letto disfatto e si sedette sulla sedia della cucina.
Si accese un’ennesima sigaretta, ne inalò profondamente l’aroma amaro e sbuffò una lunga boccata di fumo azzurrognolo che si librò pigra verso il soffitto.
Appoggiò la testa contro il muro fresco e socchiuse gli occhi stanchi.
Sette mesi, ventidue giorni e diciotto ore di insonnia.
Dio mio, era vicino al punto di non ritorno.
Il nervosismo cresceva allo scoccare esatto delle ventuno e trenta, quando il telegiornale nazionale porgeva il suo saluto di commiato al grande pubblico e partivano i titoli di testa del primo film della serata.Lì iniziava il suo calvario alimentato dalla consapevolezza che al primo spettacolo ne sarebbe seguito un altro, ed un altro ancora, un notiziario della notte ed una rassegna stampa, fino alle televendite che ti invitano ad acquistare un set di coltelli giapponesi sponsorizzati da un idiota vestito da samurai con le scarpe da ginnastica.
Non poteva continuare così, era ovvio che si stava inesorabilmente avviando all’autodistruzione.
Molti suoi colleghi avevano sofferto del cosiddetto blocco dello scrittore, si erano attaccati ad una bottiglia, alle sottane di una bella donna, a qualche setta mistica che predicava l’amore universale, ma nessuno si era mai trovato a vivere una situazione insostenibilmente angosciante e protratta come quella che stava affrontando.
Si era perfino rivolto ad un terapeuta quattro mesi prima, un ometto distinto con un singolare tic all’occhio destro che lo costringeva ad ammiccare di continuo ad i suoi interlocutori e che gli aveva garantito che il suo “piccolo inconveniente”, così aveva bollato il suo personale inferno, si sarebbe risolto con qualche seduta, un po’ di sano esercizio fisico e della buona musica che lo stesso terapeuta si era premunito di fornirgli, ascoltata in perfetto relax prima di coricarsi.
Era calato quasi sette chili, i suoi bicipiti avevano riacquistato lo splendore di un tempo, aveva trascorso ore chiacchierando amabilmente della sua infanzia, dei suoi rapporti amorosi, delle sue aspettative, del suo lavoro con il serio e compassato professionista della psiche ed aveva consumato l’audiocassetta con le melodie tantriche, ma il suo cervello era più desto che mai;oramai non sentiva neanche più quel fastidioso cerchio alla testa che aveva accompagnato tutte le mattinate dei primi cinque mesi di veglia forzata, era vigile, attento, teso e pronto a scoccare come una freccia appoggiata ad un arco, era sull’orlo di una crisi di nervi.
Le voci provenienti dalla strada si fecero più forti e riuscì a captare qualche parola:
“Hai ragione, ci starò più attento la prossima volta”.Sembrava un ragazzo molto giovane dal tono quasi disperato.
“Non ci sarà nessuna prossima volta”un uomo maturo, dalla voce baritonale e roca, inveiva minacciosamente contro il suo compagno.
Dopo un breve silenzio, udì un grido strozzato.
Si alzò dalla sedia della cucina e corse verso la finestra del soggiorno, scostò appena la tenda per non essere visto.
Una sagoma scura e contorta era distesa sull’asfalto, immersa in una pozzanghera lucida , emetteva un
rantolo disperato, sembrava che la vita gli stesse
sfuggendo dalle labbra dischiuse;accanto a lui un uomo ritto respirava affannosamente.
D’improvviso l’uomo levò gli occhi verso James, un rivolo di sangue vermiglio gli scorreva lungo il contorno del mento, lo fissava con occhi di brace.
Indietreggiò come colpito da uno schiaffo.
Chiuse la tenda e si sedette intontito sul divano.
(Calma) pensò (devi chiamare subito la polizia).
Compose il numero con mano malferma (quell’uomo aveva gli occhi color brace, fiammeggianti), un brivido incontrollato gli attraversò la schiena.
“Distretto di polizia, in cosa posso esserle utile?”.
La voce della poliziotta era assonnata ed ostile.
“Mi trovo al trentacinque di Doney Street, sotto la mia finestra è stato appena ucciso un uomo, o meglio non so se sia realmente morto , ma giace riverso in una pozza di sangue, dovete venire subito”.
“Si calmi”la donna aveva assunto un tono desto ed efficiente “non lasci la sua abitazione , le invieremo subito una pattuglia, mi dia il suo nome per favore”.
“James Mallow”.
Riagganciò.
Resto immobile fino all’arrivo degli agenti, che bussarono impetuosi alla sua porta pochi minuti dopo il termine della conversazione telefonica.
Andò ad aprire e due giovani in divisa entrambi con i baffi e l’aria scettica, entrarono nel suo appartamento.
“E’ lei James Mallow?”domandò il più alto dei due.
“Sì, sono io, come sta il ragazzo?”.
“E’ proprio questo il punto” esordì l’altro con fare sbrigativo “non abbiamo trovato nessun ragazzo in fin di vita sul marciapiede sottostante”.
“Cosa?”James aveva gli occhi letteralmente fuori dalle orbite, se avesse visto un marziano entrare a casa sua e bere un drink, non si sarebbe meravigliato così tanto.
“Esattamente signor Mallow”.
“Ma non è possibile, insomma io ho sentito chiaramente le urla mentre ero seduto in cucina, ho visto il ragazzo riverso al suolo ed un uomo accanto che..che..” (ringhiava con occhi di brace) ebbe la tentazione di dire, ma, ovviamente, non lo fece, la situazione era già disperata così, figuriamoci cosa sarebbe accaduto se avesse aggiunto questo piccolo particolare al suo racconto.
“Dov’ è la finestra dalla quale ha assistito all’omicidio”domandò il primo agente.
James indicò la parete alle sue spalle, e tutti e tre vi si diressero.
Scostò la tenda e vide esattamente una lunga striscia d’asfalto scura illuminata dalla luce lattescente di un lampione, una macchina parcheggiata a pochi metri di distanza e l’auto della polizia con i lampeggianti ancora accesi.
“Non capisco”mormorò in tono di scusa “eppure io ho visto...io...”.
“Voleva movimentare la serata signor Mallow?”.
“No,certo che no, e non volevo neppure farvi perdere tempo se è quello che stava per aggiungere agente;realmente non riesco a capire”fu tutto quello che riuscì a dire.
“Bene, facciamo quattro chiacchiere signore”disse il poliziotto meno socievole.
“Di cosa si occupa signor Mallow?”.
“Sono uno scrittore”.
“Cosa scrive esattamente?”.
“Romanzi horror, racconti noir, saggi sull’occulto”disse frettolosamente.
I due uomini in divisa si scambiarono un’occhiata complice.
“Capisco, bhe la sua fantasia le ha giocato un brutto scherzo stavolta”proseguì l’agente più alto.
“Può darsi”replicò James atterrito.
“Per questa volta non le faremo rapporto, ma la prossima volta”(Non ci sarà una prossima volta); l’eco di quelle parole risuonò nella sua testa come un colpo di fucile.
“La prossima volta”insistette l’agente “non saremo così comprensivi, prima di denunciare un omicidio o un’aggressione si sinceri che non sia frutto della sua immaginazione”.
James rispose con un cenno del capo.
I due uomini si diressero verso la porta d’ingresso sorridendo, quello più alto,il buono come lo aveva ribattezzato mentalmente James, si voltò e gli disse:
“Ha un aspetto poco salutare, farebbe bene a farsi una bella dormita”.
Rimasto solo nell’appartamento tornò ad affacciarsi alla finestra, vide i due agenti rimontare nell’auto e ripartire spegnendo i lampeggianti, sul marciapiede sottostante un gatto passeggiava furtivo con la coda ritta come una bandiera.
“Che diavolo mi sta succedendo”mormorò alla stanza vuota.
L’orologio sul comodino segnava le sei e trenta, un’altra notte era finalmente terminata.
L’anticamera del dottor Malden era gremita di gente nervosa e mesta al contempo.
Nessuno fissava apertamente in volto il vicino e l’aria era carica di un’attesa immotivata;qualcuno sfogliava una rivista di psicologia fingendo interesse per gli articoli che appena scorgeva voltando frettolosamente le pagine, qualcun altro guardava spesso l’orologio con fare indifferente, una donna si attorcigliava meccanicamente una lunga ciocca di capelli biondi attorno alle dita paffute fissando intensamente un angolo non ben precisato della stanza.
(Ben venuti alla moderna fiera della solitudine e delle stranezze)pensò James quasi divertito(potrete trovare di tutto qui: maniaci, depressi, demotivati ed un bel mucchio pasciuto di svitati di ogni genere, vengano signori, vengano).
“Signor Mallaw”la segretaria del dottor Malden lo chiamò con il solito sorriso rassicurante stampato sul volto ben truccato.
(Chissà se le assistenti degli strizzacervelli fanno un corso di sorrisi prefabbricati prima di essere assunte) pensò.
IL dottor Malden era comodamente seduto dietro la grande scrivania di rovere, un sigaro emetteva un piccolo rivolo di fumo dal posacenere di cristallo;teneva fra le mani una cartella clinica che consultava con foga, gli occhiali eternamente in bilico sulla punta del naso aquilino gli conferivano l’aria di un vecchio bibliotecario prossimo alla pensione.
“Signor Mallaw, si accomodi”.
“Buona sera dottore, come sta?”gli chiese porgendogli la mano.
“Tutto bene, la ringrazio, affaccendato come sempre.Ma parliamo di lei piuttosto, la sua telefonata di questa mattina mi ha sorpreso, dopo gli scarsi risultati ottenuti con la sua insonnia dubitavo che il nostro rapporto sarebbe continuato”.
“Ne dubitavo anch’io dottore”:
“Dunque deve essere intervenuto qualche nuovo fattore...”.
Si fermò scrutando James con occhi piccoli da roditore, Mallaw trasse un profondo sospiro e raccontò allo psicoterapeuta ciò che gli era accaduto la notte precedente.
Il dottore ascoltò il racconto prestando la massima attenzione e dopo qualche istante di silenzio chiese:
“E lei cosa ha dedotto da questa singolare esperienza?”.
“Veramente credevo di ottenere da lei delle risposte, dottore”.
“Il compito della psicanalisi non è confezionare soluzioni, signor Mallaw, casomai è porre le domande giuste e tentare di ricostruire la personale versione della realtà del singolo”.
(Che è come dire sbrigatela da te, ma pagami)pensò James.
“Credo di aver avuto un’allucinazione”disse con un sospiro.
“Mhh, noto che si è già fabbricato una diagnosi”.
“Crede sia errata?”.
“Probabilmente è esatta, ma perché questa allucinazione le si è palesata in quel modo e sotto quelle spoglie, è questo che ci interessa”.
“Ho capito; secondo il mio modesto parere non medico, credo di aver abusato delle mie riserve energetiche , credo che la protratta mancanza di sonno mi abbia rammollito il cervello e credo di aver bisogno d’aiuto”.
“Bene, sono qui per fornirglielo.Ha ripreso a scrivere signor Mallaw?”.
“No” sospirò.
“Perché?”.
“Non lo so;mancanza di idee, svogliatezza, esaurimento dell’inventiva”.
“Ha cercato di procurarsi un nuovo lavoro, diverso dallo scrivere intendo”:
“Non ho problemi finanziari che mi spingano in tal direzione al momento”.
“Non parlavo di necessità contingente, mi riferivo al desiderio di cambiare vita, di dedicarsi a qualcosa di nuovo”.
“No; non ho alcun desiderio di cambiare vita”.
Silenzio.
“La mia vita è lo scrivere.Lo è da sempre”.
“Allora tenti di riprendere”.
“Non posso...non ci riesco, come prendo una penna in mano le idee si azzerano, il foglio bianco diventa un nemico, la memoria perde colpi e la sudorazione esplode”.
“Mi sta descrivendo un attacco di panico”.
“Le sto descrivendo il mio panico dottore”pronunciò quell’ultima frase due ottave sopra il suo solito tono di voce, abbassò gli occhi imbarazzato e porse le sue scuse al dottor Malden.
“Non si preoccupi, sfoghi pure la sua rabbia”.
“Che cosa debbo fare secondo lei?”.
“Affronti i suoi demoni, scriva, ci provi; passerà l’insonnia e passeranno le allucinazioni”.
“Crede che possano tornare?”.
“E’ possibile, non probabile, ma possibile”.
Estrasse il ricettario dal cassetto chiuso a chiave sotto la scrivania e vergò in una grafia poco leggibile, alcune righe ordinate, sotto le quali appose la sua firma.
“Prenda queste due volte al giorno, prima dei pasti, l’aiuteranno a dormire”.
James prese il foglio con gratitudine, si accomiatò dal dottore e fece ritorno a casa dopo essersi fermato nella prima farmacia aperta.
Alle otto in punto di una sera fredda e stellata, inghiottì la prima pillola con timore reverenziale, si distese sul divano ed accese la televisione.
Correva a perdifiato, un’ombra dinnanzi a lui lo precedeva e con qualcosa che assomigliava ad un braccio teso indicava un punto sconosciuto di fronte a loro.
“C’è sempre un prezzo da pagare”una voce di donna tuonava da un luogo lontano.
“C’è sempre un prezzo da pagare, ricordatelo”.
Spalancò gli occhi.
L’orologio sopra la televisione segnava le quattro e mezzo, aveva dormito per quasi nove ore, un miracolo.
“No!”.
Una voce maschile strozzata piagnucolava dalla strada.
James si alzò e si diresse verso la finestra del soggiorno avvolto in una sorta di deja-vù; si affacciò senza nascondersi dietro la tenda.
Una donna era in piedi di fronte ad un uomo inginocchiato, stretta nella mani lunghe e tremanti serrava una pistola; l’uomo ai suoi piedi implorava pietà fra i singhiozzi.La donna era vestita con una leggera camicia da notte, sembrava indossare delle ciabatte e, sorprendentemente, i suoi piedi non poggiavano sul manto stradale, ma su un tappeto azzurro.
I capelli le svolazzavano intorno alla figura snella, il volto contorto in una smorfia di disgusto.
“Ti prego, non uccidermi, non volevo devi credermi, non volevo”biascicava l’uomo inginocchiato.
Lei, glaciale, serrò un attimo gli occhi e premette il grilletto.
La detonazione fu imponente, la testa dell’uomo esplose in mille pezzi, come una brocca che si infrange al suolo,il sangue schizzò copioso sugli abiti della donna, sul suo volto, macchiò il tenue azzurro del tappeto.
L’uomo stramazzò a terra scosso da spasmi muscolari, poi si immobilizzò.
La donna levò il volto verso James e sorrise, mostrando un viso scarno, solcato da profonde occhiaie e punteggiato da gocce vermiglie.
James si premette con forza le mani sugli occhi e li spalancò d’un tratto: nulla.La strada era deserta, nessun morto, nessuna donna, niente.
Si sedette sul divano e pianse.
Trascorse la mattina seguente sdraiato sul letto.
Aveva ingurgitato quasi l’intero flacone di pillole che il dottor Malden gli aveva prescritto, forse nell’inconscio tentativo di farla finita con sé stesso e con il mondo, quello reale e quello immaginifico del quale suo malgrado era entrato a
far parte.
L’unico risultato che ottenne fu una vaga sonnolenza ed un intenso senso di vertigine che lo accompagnarono per l’intera giornata.
E venne la notte.
Scura, vellutata, ammantata di mistero e di odori, solitaria, beffarda, una bella donna che ti mostra un sorriso accattivante per distrarti dal coltello affilato che cela dietro la schiena.
Non provò neppure ad addormentarsi.
Attese.
E vennero.
Puntuali come la morte, alle quattro e mezzo di una notte persa in mezzo al nulla.
Stavolta non fu richiamato dalle urla, ma da un pianto sommesso.
Si affacciò.
Un bambino sedeva con la testa sprofondata fra le ginocchia, dondolava avanti ed indietro, come se stesse su una vecchia sedia di vimini, quelle che a volte si vedono nelle vetrine degli antiquari. Il bimbo singhiozzava, ogni tanto tirava su con il naso, si stropicciava gli occhi e ricominciava quella tediosa cantilena.
Ad un tratto si issò a fatica dal marciapiede, fece quattro o cinque passi in direzione della strada per arrestarsi pensieroso.
Si voltò, alzò il volto verso James e protese le palme delle mani aperte. Il suo viso era mostruosamente sfigurato: la bocca senza labbra mostrava una fila di denti acuminati e sporgenti, gli occhi enormi non avevano palpebre, erano vuoti e neri come pozzi, al posto del naso aveva un piccolo foro umido dal quale colava una sostanza gelatinosa e giallastra.
“Papà” urlò disperato verso James che lo osservava attonito con la bocca spalancata in un grido muto.
Svenne.
La mattina dopo si destò improvvisamente, scosso da brividi e con un tremendo sapore amaro in bocca.
Spalancò gli occhi e si ritrovò a fissare il soffitto.Ricordava tutto.
L’orrore.Le grida.Quel pianto affannato e quella parola: papà.
Si alzò dal pavimento ed una fitta di dolore lo colse alla sprovvista costringendolo a fermarsi, le gambe intorpidite non volevano saperne di tornare a funzionare.
Stava impazzendo.Orami era chiaro.
L’insonnia era stato solo il preludio all’inesorabile degenerazione del suo sistema nervoso.Era spacciato.
L’immagine di sé stesso steso su di un letto ed ingabbiato in una camicia di forza, gli si palesò chiara e reale quanto le sua allucinazioni.
Si vestì e fece ritorno alla farmacia.
Rincasò qualche ora dopo, stanco ed affamato. Dopo aver sbrigato quell’importante commissione, aveva peregrinato senza meta fra le strade della sua città, senza pensare, tentando di non respirare troppo forte per non attirare l’attenzione di nessuno.
Aveva tentato di confondersi con la gente comune, curiosando nelle vetrine dei negozi, osservando distrattamente il volo degli uccelli, sbirciando per un’ultima volta la vita che anche lui aveva un tempo vissuto.
Si sedette sul divano ed aspettò.
Si addormentò.
Alle quattro e mezzo si destò, pronto per affrontare il suo destino.
Si affacciò alla finestra.
Nulla.
Attese.
Nulla.
Qualche macchina attraversava pigramente la strada, il solito gatto sgambettava per il marciapiede.
Niente apparizioni.
“E allora!”gridò “dove siete questa sera!”lacrime cocenti gli sgorgarono dagli occhi tristi ed iniettati di sangue.
“Sono qui!Che aspettate”.
“Che tu stia zitto, imbecille!”fu la risposta di qualche vicino spazientito.
James rientrò in cucina, afferrò la boccetta di barbiturici che aveva acquistato in farmacia il pomeriggio, elargendo una lauta mancia al farmacista affinché chiudesse un occhio per la mancanza di prescrizione medica, ne svitò il tappo e versò una decina di pillole rosa nel palmo della mano spalancata, le mise in bocca e si voltò verso il salotto nel quale qualcuno aveva acceso una luce.
Entrò con circospezione con la manciata di pasticche che gli premeva contro l’interno delle guance.
Erano tutti lì.
L’uomo con le zanne e gli occhi di brace era seduto sul divano accanto al ragazzo con la gola squarciata da un morso.La donna in camicia da notte con la pistola ancora serrata nella mano e l’uomo senza testa al suo fianco, ritti accanto alla finestra.In mezzo, piccolo e sorridente, il mostro che lo aveva chiamato amabilmente papà.
“Non lo fare James, non ci uccidere”disse il piccolo mostro, muovendo la sua bocca senza labbra.
James sputò le pasticche sul tappeto.
“Voi non siete reali, voi non esistete!”.
“Non ancora”replicò il piccolo mostro.
James fuggì nella stanza da letto chiudendo la porta alle sue spalle.
Si voltò ed erano di nuovo tutti lì che lo osservavano con aria preoccupata.
“Cosa volete?”pianse.
“Non lo hai ancora capito James Edgar Mallaw?”stavolta a parlare fu l’uomo dai lungi canini insanguinati.
“Chi sei?”chiese James quasi implorando.
“Non ho ancora un nome, non me lo hai dato”.
“Io?”balbettò “non capisco”.
Si fece avanti la donna con la pistola.
“Non sai proprio chi siamo?”.
“No, mio Dio, no!”urlò James.
“Siamo i personaggi che non hai ancora inventato James”proseguì il ragazzo con la gola recisa.
“Che cosa?”.
“Sì, papà, siamo le creature che popolano i tuoi sogni, i tuoi incubi”.
“Siamo la tua arte”continuò la donna.
James si sedette sulla sponda del letto accanto al piccolo mostro.
“Siamo irreali James, è vero”disse l’uomo con i lunghi canini “ma siamo ugualmente vivi; viviamo nei tuoi pensieri, nei tuoi incubi, nasciamo nel momento che ci dai forma su un foglio. Certo è una vita fittizia, ma è l’unica che ci sia concesso vivere, e se tu smetti di scrivere, ci sarà negata anche quella”.
“Ci agitiamo nei meandri del tuo Io”continuò la donna “cerchiamo di uscire e acquistare indipendenza; hai mai avuto la sensazione che le parole che verghi su di un foglio fluiscano per loro volontà e non per tua?”.
“Sì”ammise James con un filo di voce.
“E’ la nostra anima che si palesa attraverso di te”.
“Abbiamo bisogno di te papà”disse il piccolo mostro “se non ci permetti di venir fuori, ci uccidi, e noi non vogliamo morire”.
“Venir fuori da dove?”.
“Dalla tua fantasia”disse il ragazzo dalla gola recisa “non frenare la tua fantasia, non aver paura di affrontarci, noi siamo parte di te, quella parte di te che non vuole morire”.
“Ti prego papà, non ucciderti, non ucciderci”.
“Ma io non so più come fare, non riesco, le idee mi sfuggono, io...”.
“Dormi James”disse la donna “sognaci, cercaci, noi saremo sempre in un angolo della tua mente pronti a soccorrerti, fidati di noi, fidati della parte oscura che è in te”.
James prese il piccolo mostro fra le braccia e lo strinse forte, sentì i denti aguzzi sprofondare nella sua camicia e graffiargli leggermente il petto, sentì il bimbo ridere e rise a sua volta, strinse la mano dell’uomo dai lunghi canini e la donna con la pistola gli accarezzò il viso mostrando un sorriso triste e mesto.
Si allontanarono verso la porta della stanza da letto ed ad uno ad uno scomparvero.
Solo nella stanza James prese un blocco per gli appunti che teneva dentro il primo cassetto del comodino e cominciò:
“La vita di un lupo è solitaria, la vita di un lupo è violenta, la vita di un lupo è selvaggia, ma fedele...”.
Continuò a scrivere per tutta la notte, per tutta la mattinata e smise solo all’imbrunire.
Erano tutti lì dove dovevano essere: su uno splendido foglio di carta solcato da regolari righe di grafia distorta e quasi incomprensibile.
Telefonò alla sua segretaria, le disse che c’erano tre racconti che le aveva inviato via fax, che avrebbe dovuto trascrivere entro la mattinata ed aggiunse che ne sarebbero seguiti molti altri.
Il mese successivo fu una lunga ed interminabile cavalcata attraverso l’impossibile, l’improbabile e l’ignoto.
Dormì dieci ore a notte.
Sognò i suoi adorati demoni.
Scrisse ciò che la dimensione onirica gli aveva regalato; al trentesimo giorno aveva redatto più di venti racconti, tutti ottimi, nessuno escluso.
Il suo agente lo chiamò entusiasta:
“Credimi, vecchio bastardo, sono le migliori storie che tu abbia mai scritto, faremo i soldi stavolta, ma quelli veri”.
La raccolta di racconti fu pubblicata con il titolo “Tabby ed altri incubi, sulla copertina troneggia l’immagine di un bimbo deforme che sorrideva, James stesso l’aveva disegnata.
Il successo preannunciato giunse, liberatorio e magnanimo.
James si recò a far visita al suo analista qualche giorno dopo la pubblicazione con una copia del libro autografata stretta contro il petto.
“Signor Mallaw, sono lieto di vederla”.
“Anch’io dottor Malden”.
“So che ha scritto un nuovo libro di successo”.
“Ecco per lei una copia, in fondo questa mia rinascita è anche merito suo”:
“La ringrazio, ma è solo il mio lavoro; non si accomoda per scambiare quattro chiacchiere?”.
“Mi perdoni, ma vado di fretta, voleva solo salutarla”:
“Lascia la città?”.
“No, solo il suo studio”.
“Risolta l’insonnia?”.
“Certo”.
“E le allucinazioni?”.
James rise, si avvicinò alla scrivania del dottore e gli sussurrò:
“Quelle me le tengo, sono affezionato ai miei mostri”.
“Questo non è un comportamento saggio signor Mallaw, se continua ad avere singolari esperienze sensoriali, credo sia d’uopo parlarne, e tentare di risolvere il problema”.
James alzò noncurante le spalle:
“Se crede sia il caso di parlarci, lo faccia direttamente”.
La stanza si popolò di figure quasi fiabesche: demoni tricorni, vampiri, uomini lupo ghignanti, spettri sognanti, folletti deformi, donne sanguinanti, mariti senza testa, zombie rantolanti, mani disarticolate, artigli e un unico sorridente bambino deforme mano nella mano con James.
“Eccoli qui, li vuole far sparire?”.
L’orda infernale ululò all’unisono.
Lo psicanalista farfugliò qualcosa di incomprensibile, sgranò più volte gli occhi, boccheggiò, si portò una mano al petto ed emise un respiro sibilante ed interminabile prima di chiudere gli occhi.
Dall’assemblea si alzò una sorta di barrito ilare.
James fece cenno all’allegra brigata di tacere, sorrise a sua volta ed uscì.
Le creature si trattennero ancora qualche secondo nella stanza, poi, ad una ad una, sparirono.
“Signorina”disse James rivolto all’avvenente segretaria.
“Mi dica signor Mallaw”.
“Credo che il dottor Malden abbia avuto un malore, le consiglio di andare a controllare il suo stato di salute”.
Uscì ridendo.
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