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Melo e il pescespada

Melo e il pescespada

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Il caldo afoso di quella mattina d'agosto, dava ad intendere che quel giorno non avrebbe risparmiato nemmeno chi se ne stava all'ombra, rincantucciato sotto una delle tante barche arenate su quella grande spiaggia di quel piccolo paese che contava poche centinaia di anime: Tonnarella. Un paesino in cui anni or sono, oltre alla pesca, veniva praticata la raccolta del gelsomino. Ancora prima che spuntasse l'alba, le donne con i loro canti contadini passavano con grosse ceste adagiate sul capo, colme di quel delizioso fiore il cui profumo entrava dalle finestre di quelle piccole case, inebriando chi, nel dormiveglia, assaporava quell'ultimo sonno della notte.

All'ombra del Santa Lucia, un vecchio peschereccio ancora marinaro, Melo ricuciva le reti sfaldate la passata notte da qualche grosso delfino rimastovi intrappolato durante la pesca alle alici. Il caldo sembrava non lo infastidisse proprio; il suo corpo asciutto e stagionato, dal nero colore della pelle, sembrava appartenesse alla famiglia Mustafà, una piccola tribù di neri da anni trasferitasi in quel piccolo paese a lavorare nei vivai dei dintorni. I giovani lo chiamavano "Melo il Marocchino"; sembrava non gli importasse proprio quel nomignolo. Rammendava, con la pazienza che solo i vecchi lupi di mare hanno, quelle reti che di danni ne avevano subiti tanti. Rammendava e raccontava ai piccoli che si riparavano all'ombra di quella grossa barca, momenti di vita vissuta al largo di quel mare aperto. Essi lo ascoltavano in silenzio, infastiditi solo da qualche moscerino, di quelli che ancora oggi popolano le spiagge. -Zio Melo, raccontaci di quando eri piccolo e volevi prendere il pescespada con la lenza- fece uno dei più piccoli che lo ascoltavano impietriti. Era divenuta una legenda.

Di anni, Melo ne aveva già tanti, anche se nessuno sapeva di preciso quanti. I più dicevano che già da tempo aveva passato gli ottantacinque.

Melo Aprile, Aprile si diceva perché il bisnonno venne trovato in fasce in quella spiaggia nel mese di Aprile. Raccontava, ritornando indietro nel tempo, e gli si leggeva negli occhi infossati ora il dolore, ora la gioia di quei momenti vissuti; spesso riemergeva in quel viso increspato un sereno sorriso ondulato.

-Ero piccolo-, cominciò, -appena dodici anni, e già provvedevo ad aiutare la famiglia; mi trovavo sulla barca, intento a far scendere in acqua il palancaro…- “qualcuno dei piccoli non capiva.”

-E' un lunghissimo filo di nailon - spiegava loro - che contiene tantissimi braccioli sempre di nailon lunghi un metro e distanti due metri e mezzo, con un amo ciascuno; quindi, era di trecento braccioli, un filo lungo ottocento metri circa; ad ogni amo andavo innescando un pezzettino di sarda, era quella l'esca di quel giorno; altre volte innescavo delle acciughe o piccoli pezzettini di calamaro. Quella mattina, mentre remavo e andavo abbassando in acqua il filo, vidi passare sotto la barca un piccolo pesce spada, era bellissimo, mi si accapponava la pelle al pensiero di vedermelo abboccare da un momento all'altro in uno di quegli ami, tanto era piccolo mi dicevo; non avevo ben chiare ancora le proporzioni di quel pesce che continuava a giocherellare attorno a quegli ami che lentamente scendevano a fondo. Finii di mandare giù l'ultimo amo e quel pesce scomparve con esso. Dovevo aspettare almeno un paio d'ore prima di iniziare a tirare il filo sulla barca; decisi di tornare un po’ a terra; ma… ecco che rivedo il pesce sotto la barca, mi sembrava di vederlo più grosso sta volta; forse è più in superficie? Mi son chiesto. Cercavo di capire come poterlo catturare. Avevo sulla barca un grossissimo amo mezzo arrugginito (residuo di qualche vecchia pesca a tonni da parte di mio padre), e una cordicella di nailon di circa dieci metri, vi legai l'amo a doppio nodo e attaccai la cordicella a poppa; presi una delle sarde rimastami, la innescai per intero a quell'amo e lo buttai a mare. Il pesce sembrò disturbarsi per quei continui saliscendi che facevo fare alla cordicella, finì che non lo vidi più; aspettai ancora pensando di vedermelo riapparire dietro l'amo innescato, ma niente.

Ripresi a remare verso riva, lasciando in acqua l'amo con tutta la sarda e la cordicella legata sempre a poppa. Avevo dato poche palate, quando sentii un grosso strattone e la barca traballare come se avesse urtato in uno scoglio, non ebbi nemmeno il tempo di pensare che lì, in quel posto, c’era solo sabbia, e la barca cominciò a muoversi all'indietro. Subito capii quello che stava accadendo: - come poteva- mi son chiesto -un piccolo pesce spada far muovere quella, anche se pur piccola, barca?

Zio Melo smise di rammendar la rete, fissò il vuoto e si zittì; gli si leggeva nel volto la paura di allora.

-Dai, zio Melo!- Dicevano i bambini.- E dopo com'è finita? Perché non continuavi a remare verso terra?

-E come?- intervenivano gli altri rimasti imbambolati.

-Ripresi a remare,- continuò zio Melo -ma non riuscivo a guadagnare nemmeno una palata. D'un tratto, la barca cominciò a prendere il largo; i remi, uno mi era caduto in acqua e l'altro dovetti tirarlo in barca. Era come se fossi spinto da un fortissimo vento di scirocco. Cominciai a gridare aiuto, mentre cercavo disperatamente di sciogliere la cordicella che si era aggrovigliata con un piccolo arpione posato a pappa. Nessuno in spiaggia sembrava capire niente di quanto stesse accadendomi.

La barca continuava sempre più la sua corsa verso il mare aperto. Non avevo nemmeno come tagliare quella cordicella che continuavo a battere con la sassola, unico attrezzo di cui potevo disporre; niente, la cordicella era spessa quanto l'indice della mia mano, e, se pur avevo dodici anni, capite bene quanto avrebbe potuto tirare. Cominciai a piangere, qualche lacrima mi inumidiva la bocca secca, secca, sicuramente a causa della gran paura perché non sapevo che fare; mentre al largo, il mare, cominciava ad incresparsi sempre più.

Tante volte guardai lassù verso Tindari, implorando la Madonna perché venisse in mio aiuto… Avevo appena tre anni quando mio padre mi condusse al santuario; partimmo all'alba del giorno sei del mese di Settembre, festa della Madonna, si dovevano percorrere circa 15 Km, ed eravamo tutti a piedi scalzi, era così che si andava al santuario, e mia madre, ricordo che si dovette fermare per togliersi dal piede una grossa spina di rovo: quel rovo che, ancora oggi, cresce lungo il viottolo che porta su al monte. A nulla valsero le mie implorazioni.

Il vento di scirocco cominciava a soffiare, volevo buttarmi a mare e tenermi aggrappato al remo, unica speranza rimastami, ma la paura di essere attaccato da quel grosso pesce era più forte; quando sentii un rumore di motore, non capivo da che parte arrivasse; la barca sembrò che perdesse la sua corsa. -Sono salvo!- gridai. Il pesce doveva essersi sboccato. Il mare continuava ad incresparsi sempre più, e le raffiche di vento cominciavano a spingermi acqua addosso, ero inzuppato come un pulcino, non riuscivo a prendere alcuna iniziativa. Il rumore di un motopeschereccio era già vicino, tanto che sentii una voce chiamare: "Melo!" Era il mio nome! Mai quel nome m'era apparso così bello. Mi girai e vidi mio padre con una ciurma di marinai sul Santa Lucia.-

-Questo motopeschereccio?- fecero in coro i ragazzi.

-Sì, proprio questo. La barca riprese a muoversi, il pesce era ancora lì, ma la paura era quasi andata via. Gridai loro quanto stesse accadendo e mi dissero di stare fermo, mi assicurarono che a momenti si sarebbe risolto tutto. In meno che lo si dica, circondarono la barca nella quale mi trovavo con una grossa rete e mi buttarono un grosso coltello perché tagliassi la cordicella; subito eseguii, ed uscii da quella rete, aiutato da quell'unico remo rimastomi. Mentre i pescatori tiravano su la rete, mio padre mi aiutò a salire sul motopeschereccio e mi abbracciò forte, forte, legammo la barca al Santa Lucia ed aiutammo gli altri a tirare la rete.

Fu una meraviglia generale, quando tirammo in barca quel grosso pesce che si dibatteva furiosamente; aveva ancora l'amo attaccato e la cordicella che gli pendeva dalla grandissima bocca. Qualcuno diceva che sarebbe pesato più di un quintale, e a sentir loro c'era da crederci. Rientrammo cantando in coro " Vitti 'na Crozza "; solo mio padre non cantava, aveva tra le labbra un gelsomino, ne teneva sempre qualcuno in tasca, glielo dava mia madre quando rientrava dai campi; guardò verso Tindari e mi abbracciò commosso-.
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