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Mister lunedì

Mister lunedì

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Aprii gli occhi quando il fracasso al di là della porta divenne insopportabile. Qualcuno bussava e, nonostante le preghiere ad occhi chiusi nel dormiveglia, sembrava non volersene andare.
Mi alzai con lo stomaco sottosopra, dalle persiane chiuse filtrava già la luce del sole, poteva essere mezzogiorno ma per me era ancora notte fonda. Le occhiaie toccavano terra e non riuscivo a trovare le ciabatte.
A piedi nudi e con le gambe claudicanti mi avvicinai alla porta, pregando che un fulmine divino incenerisse l’infame che mi aveva svegliato.
- Un attimo, arrivo – urlai cercando nel mazzo la chiave giusta.
Lo stomaco ribolliva ancora. La sera prima avevo proprio esagerato, valutai con la nausea che mi attorcigliava le budella.
Appena aprii la porta la figura pesante della signora Colombo, la mia vicina, sbucò tra la luce del pianerottolo.
Era lì, ferma, impalata come una guardia svizzera. La bocca stretta da un’espressione nervosa, gli occhi porcini mi fissavano da dietro la montatura enorme degli occhiali presi in qualche supermercato.
I suoi sessant’anni sovrastavano i miei trenta. Quella mattina lei era sicuramente più in forma di me.
Avevo fatto qualcosa, lo capivo dalle scintille che scoccavano dal suo sguardo, ma non riuscivo a ricordare cosa. Dopo un caffè, forse, mi sarebbe venuto alla mente ma la signora Colombo non poteva certo aspettare la mia colazione.
- Buongiorno signora Colombo – salutai.
Quanto era brutta! Per la prima volta notai quel ciuffo di peli da circo aggrappato sotto al naso.
- Buon giorno signor Giorgio. – rispose lei cercando di sbirciare dentro casa mia.
Riuscii a coprire prontamente la sua visuale; non c’era niente da vedere ma il mistero a volte riesce a far divenire interessanti anche le cose più stupide.
Volevo che se ne andasse, le sue scintille oculari cercavano ancora di spaccarmi il cervello. In quel momento non ero certo in grado connettere. Cercai di giustificarmi, forse avevo lasciato un’altra volta la mia auto davanti al suo box.
- Mi dispiace signora, appena trovo le chiavi la sposto subito… - ma capii che non era quello il problema.
- Ancora quei rumori, signor Giorgio. Quelle urla – disse scandalizzata mentre con una mano callosa e grassa andava a stuzzicarsi il ciuffo di peli.
- Quali urla? – chiesi quasi spaventato.
- La voce di donna che questa notte ha iniziato ad urlare alle due e ha smesso solo alle quattro. – mi spiegò con aria turbata.
Urla di donna? Il mio cervello iniziava ad ingranare lentamente. Un’idea si stava delineando scacciando via tutta la nebbia.
Ancora a piedi nudi, con un movimento furtivo, feci due passi indietro continuando a fissare la signora Colombo ferma sull’uscio. Non volevo assolutamente lasciarle la via libera per entrare ma dovevo controllare una cosa.
Con un movimento lento del collo arrivai a guardare in camera. Scorsi un fagotto di circa quaranta chili sotto le lenzuola. Il mio cane, timido e pulcioso animale ronfante con l’abitudine di seguirmi ovunque, era mancato all’affetto del mondo un mese prima, quindi, quella forma nel letto non poteva essere che Katia. Mi parve di vedere un piccolo movimento, se era Katia respirava ancora. Meno male.
Tutto sotto controllo, pensai tornando dalla Colombo.
- Sa, signor Giorgio – iniziò lei con aria estremamente più gentile. – Io sono vedova e dormo sempre sola. –
La voce era una lagna, forse più fastidiosa del suo volto.
- Sì, mi scusi – buttai lì – Si deve essere spaventata –
- Già – rispose infilando un piede ciabattato tra la porta e lo stipite in modo da impedirmi di chiudere la porta. – Mi sono spaventata ed ero indecisa se chiamare la polizia oppure venire qui a vedere… -
- No – la bloccai subito – non si deve preoccupare, è una mia amica e stavamo solo giocando –
- Immagino... una partita lunga due ore. Deve essere divertente – disse allungandosi dentro casa – Mio marito perdeva sempre a tavolino… -
Cercai di spingerla fuori ma le sue mani grassocce avevano avvinghiato l’attaccapanni; allora tolsi tutti i vestiti che vi erano appesi e lo spinsi fuori insieme alla signora Colombo.
Aveva una strana luce negli occhi, qualcosa che mi augurerei di avere io alla sua età.
Quando, abbracciata al mio attaccapanni, capì di essere oramai spacciata, cercò di nuovo di prendermi con le buone.
- La prossima volta che sentirò delle urla di donna, allora, magari, potrei… - la sua figura, accanto al mio pezzo di mobilio da quattro soldi in mezzo alla luce del pianerottolo mi sembrò una visione surreale.
- Se sente delle urla di donna non si preoccupi, la mia amica probabilmente vorrà la rivincita, ma se sente la mia voce urlare, allora, si chiuda in casa e chiami subito l’ambulanza.
La lasciai lì, ancora fissa a guardarmi mentre chiudevo la porta. Spiai i suoi movimenti, ma subito dopo se ne tornò in casa con in ostaggio il mio attaccapanni preferito.
Lasciai i vestiti a terra e tornai a letto.
Non ricordo se feci in tempo ad addormentarmi, so che d’un tratto il corpo raggomitolato si stese e la testolina di Katia sbucò dalle lenzuola.
- Chi era? – domandò con la voce roca.
- La Colombo – risposi girandomi dall’altra parte.


Ero fermamente convinto che quella mattina, se era ancora mattina, niente e nessuno avrebbe potuto sbattermi più giù dal letto. Forza con i bombardamenti! Avanti con le ruspe! Tanto non riuscirete a smuovermi.
- Ma è mai possibile che stia lì ad origliare ogni volta che vengo a casa tua? Dovrebbe imparare a farsi i cazzi suoi! – esclamò spalancando il lenzuolo e rivelando all’aria fresca il suo corpo ancora nudo.
Cara la mia Katia, sempre fine, mogliettina premurosa di un marito cornuto. Amante fedele solamente nell’amplesso, futura madre modello e chissà quante altre cose ancora. Non mi interessano tutti i lati delle persone, solo quelli che devono condividere con me.
Probabilmente era anche una donna di casa eccezionale, forse preparava pranzetti squisiti e spolverava come la più esperta delle colf, ma tra le mie braccia diventava la più assatanata divoratrice di carne maschile. Questo mi bastava e bastava anche a lei.
Non si curò di rivestirsi per andare in bagno. Vidi il suo delizioso sedere ancheggiare fino alla porta del cesso. Si fermò un attimo a guardarsi allo specchio. Vanitosa Katia. Si rimirò in tutte le sue forme abbondanti e poi sbirciò dalla mia parte. Sospirò profondamente quando capì che stavo fingendo di dormire.
Sparì nel bagno per qualche minuto. Quanto ci impiegano le donne! Pensai. Se si dovessero anche radere nessun uomo potrebbe resistere all’attesa, soprattutto vedendo che all’uscita ben poco era cambiato nella figura che vi era entrata.
Quando tornò cercò di trovare i suoi vestiti tra quelli sparsi a terra. Sollevò un paio di mutandine bianche, finite chissà come sotto al letto.
- E queste di chi sono? Io non le porto così minuscole – chiese con una calma incredibile.
- Non lo so – risposi con la voce contraffatta dal cuscino. – mettile nel comodino insieme alle altre. –
Katia aprì la porticina del comodino e vedendo il contenuto non riuscì a trattenere un’esclamazione di stupore.
Non mi disse nulla, rimase in silenzio, le mutandine trovate sotto al letto erano già sparite dalla sua memoria e anche dalla mia. Rimaneva la sua parte da recitare, ogni volta sempre la stessa, ogni volta più insopportabile.
- Giorgio – disse con un’aria solenne.
- Mmm – risposi da dentro al cuscino.
- Non posso continuare a fare questo a mio marito. –
- Va bene – Dio che attrice!
- Non se lo merita - disse infilandosi mutandine e minigonna bianca semitrasparente - Dopotutto sono una donna sposata e lui non mi ha mai fatto mancare niente. –
Su questo, a giudicare dalla fame che aveva dimostrato su quel letto, potevo nutrire dei seri dubbi, ma la lasciai parlare, arrivava il momento del “Mi sento sporca”.
- Mi sento male quando penso a cosa gli stiamo facendo – sospirò avvolgendo il seno con una magliettina bianca semitrasparente.

Bene, pensai, aveva cambiato il copione. Un momento: “Gli stiamo facendo”? Forse non aveva chiaro che era lei ad essere sposata, non io. Lasciai comunque che finisse il suo discorso.
- Ho preso una decisione – esclamò ancora solenne.
- Mmm – dall’oltretomba del sonno.
- Non ci possiamo più frequentare, tu ed io. –
- Va bene – basta che mi lasci dormire.
- Perciò, se mi vuoi bene, non chiamarmi più e non chiedermi di venire più qui – disse infilandosi le scarpe e camminando verso la porta.
- Ok – risposi agitando la mia manina per salutarla.
- Addio, Giorgio –
- Ciao Katia, ci sentiamo domani –
- Va bene amore. – come volevasi dimostrare.
Il mondo non potrà mai cambiare finché gli uomini crederanno alle promesse delle donne. Come immaginavo, se ne andò ma prima sistemò i panni che avevo gettato a terra per liberarmi dell’attaccapanni e della signora Colombo. Premurosa Katia.
Chiuse la porta senza fare rumore e mi lasciò solo a smaltire definitivamente l’eccesso alcolico della sera precedente.
Mi addormentai, di questo ne sono certo. Dormii come una bambino per un tempo che non potrei quantificare. So che quando riaprii gli occhi la luce del sole non irrompeva più dalle persiane ed il buio della sera aveva ripreso il solito posto tra i miei muri.
Se vado avanti così diventerò un vampiro, pensai mettendo un piede giù dal letto.
Fissando un nuovo record mondiale di sveglia e doccia, mi ritrovai dopo solo dieci minuti davanti alla tavola vuota con la televisione accesa. Mi venne in mente di guardare l’ora, dopotutto potevo anche aver dormito un mese, essere stato rapito dagli ufo, o dalla signora Colombo.
Le sette. Perfetto, pensai, quasi l’ora dell’aperitivo con gli amici. Considerando che non ingerivo qualcosa di solido dalla sera precedente, mi alzai per andare a prendere qualcosa dal frigorifero.
Aprii la porta e la luce dell’elettrodomestico mi rivelò il suo essenziale stato di desolazione. Nulla. Non c’era niente, se escludevo due bottiglie di vino e quattro di birra. Non era la colazione dei campioni ma un sorso di bionda germanica non mi avrebbe fatto male.
Tornai seduto davanti alla televisione con la bottiglia ghiacciata tra le mani. Questo si chiama ottimismo: il frigo vuoto, niente da mangiare, una donna appena fuggita da te per riabbracciare il marito cornuto e la televisione che mi parlava di una certa Compagnia delle Indie in cui tutti i ragazzi sono belli, alti, muscolosi e felici. Ed io ho ancora il coraggio di sopravvivere! Come negarmi il nobel per il bel pensiero?!
Perso tra la birra e il teleschermo lasciai che passassero altri venti minuti, utili a raggruppare tutte le forze e schiarirmi il cervello. Quando fui nuovamente sulla soglia del sonno decisi di alzare le chiappe e fare qualcosa di costruttivo: Aperitivo.


Mi dovevo vestire. Non avevo molta scelta, quasi tutti i miei indumenti erano da mia madre per il lavaggio mensile e i quattro stracci piegati da Katia rimanevano la mia unica risorsa.
Infilai i calzoni, scelsi un paio di calzini puliti ed una maglietta che non facesse venire il mal di testa. Vestito come un anonimo abitante della grande city mi chiusi la porta alle spalle e uscii nel bel mezzo del mondo.
I fari delle auto rompevano il buio del mio quartiere. La giunta comunale aveva deliberato un anno fa l’installazione dei lampioni ma le solite beghe legali e qualche denuncia per concussione avevano bloccato il lucente progetto e così noi, abitanti di una periferia anonima e grigia, andavamo avanti a memoria, inciampando sui marciapiedi e sbattendo il muso sugli alberi dei giardini.
Non mi sbagliavo, la mia utilitaria finto lusso era parcheggiata proprio davanti al box della Colombo. Povera donna, un garage così grande e così vuoto. Pieno di ricordi, forse, come il suo matrimonio tagliato di netto da una cirrosi epatica.
La mia piccola scheggia si mise in moto quasi subito, qualche colpo di tosse dal motore mi ricordò che nulla è per sempre, a parte i diamanti ovviamente. Così, promettendo una tagliando e una revisione al più presto possibile, lasciai libero lo spazio condominiale e mi fiondai nel traffico cittadino.
Era domenica, me ne era quasi dimenticato, ma ci pensarono subito gli altri automobilisti a ricordarmelo. Strafatti di tacchino e lasagne facevano a gara tra i sensi unici e la gimcana tra gli autobus comunali. Dovevo trovare un parcheggio. Già, trovare parcheggio in questa città è come sperare che l’Inter vinca il campionato. Girai per un po’, deciso finalmente ad usare la mia proverbiale grinta per spaventare gli altri utenti della strada e farmi spazio tra un cassonetto e l’altro, poi, preso dalla solita voglia di scappare, seguii un taxi e riuscii a trovare un posto quasi legale.
Scesi dalla macchina e mi accorsi che avevo guidato nella direzione sbagliata ed ora mi trovavo più lontano dal bar di quanto lo fosse casa mia. Da domani uso i mezzi pubblici, promisi a me stesso dimenticando il proposito ancora prima di finire il pensiero.
Camminavo a passi stanchi con la testa bassa, non per soggezione ma per evitare il campo minato di bisogni sganciati dai culi arrossati dei cagnolini.
Al bar mi aspettavano i miei amici, più o meno disperati come me. Qualcuno aveva appena trovato una donna, qualcuno l’aveva appena persa, di solito si trattava della stessa.
Un passo dopo l’altro arrivai all’incrocio che dava sul viale principale. Dovevo attendere che il semaforo si dipingesse di verde per lasciarmi passare, pena non la morte ma la multa del vigile urbano che mi guardava in cagnesco dall’altro lato della strada. Lo guardai, non mi faceva paura, dopotutto la pistola era nella fondina ed io all’occorrenza sapevo correre come un’antilope inseguita dai leoni. I nostri sguardi si mescolarono tra i fari delle auto, per un attimo mi parve che avesse qualcosa da dirmi e, per togliermi ogni dubbio, girai la testa dall’altra parte. Strana cosa i sensi di colpa, creano assuefazione.
Sentii un rombo diventare sempre più forte. Non poteva che essere lui. Ne ero certo.
Infatti, dopo qualche secondo, mi sentii chiamare da una voce amica al centro della strada.
- Ehi, Mister Lunedì! Cosa ci fai in giro? – era Massimo, uno della combriccola.
Accostò il motorino truccato al mio marciapiede e lo spense. Tutta la città lo ringraziò tornando a sturarsi le orecchie.
- Ancora in giro con quel trabiccolo? – chiesi accendendomi una sigaretta e porgendone un’altra a Massimo.
- Certo. – rispose contento togliendosi il casco e passandomi l’accendino.

- È ora di comprarti una macchina, è molto più comoda, se non fosse per i parcheggi… - Accidenti a me e quando mi metto in testa di fare il maestro.
- Non è un problema comprare la macchina, il vero guaio e passare l’esame della patente – mi spiegò dando una grande boccata di Chesterfield.
- Massimo – dissi con aria paterna – Hai trent’anni, sarebbe ora che ti mettessi a studiare. Se mai dovessi conoscere una donna non credo che accetterebbe di venire in camporella su quell’aggeggio. –
Massimo ascoltava le mie parole. Avevo sempre avuto un forte ascendente su di lui, come su tutti gli abitanti del sottobosco di disperati che abitavano dalle mie parti.
- Hai ragione, ma piano piano ci arriverò – promise lui con aria compita – L’ultima volta ho fatto solo sette errori. –
- Bravo – incoraggiarlo era l’unico modo per non farlo sentire troppo diverso.
- Stai andando al bar? – chiese.
- Già. E tu, aperitivo? – da un certo punto di vista mi faceva pena. Eravamo cresciuti insieme; o meglio, io ero cresciuto mentre lui era rimasto lì a guardare.
- Se ci vai tu ci vengo anche io. Anche se… C’è anche Marco? – chiese facendosi scuro in viso.


- Penso di sì, ma non sarete ancora arrabbiati per quella storia, spero. –
- No, arrabbiati no, ma non ci parliamo più. – ammise con una punta di dispiacere.
- Questo, Massimo, si chiama essere arrabbiati. Dai vieni, non ti preoccupare, starai vicino a me e vedrai che Marco non ti darà fastidio. – feci quella promessa guardando il sorriso del ragazzo aprirsi per rivelare tutti i suoi denti guasti ma felici.
- Salta su – mi disse infilandosi il casco e facendomi posto sulla sella.
Guardai il vigile urbano. Non avevo molte possibilità di farla franca. Mi fissava ancora, lo sentivo, mi odiava, chissà perché! Pregai che succedesse qualcosa che lo distraesse, che ne so, una bomba, una rapina, un incidente. Poi, quando capii che forse ero troppo lontano dal cielo per pregare, saltai veloce come una rana sulla sella consumata del bolide truccato.
- Tieniti forte Mister Lunedì – disse la bocca felice di Massimo prima di partire a tutto gas per il bar.
Mister Lunedì è il soprannome con cui mi conosce la mia gente. Risale a molti anni fa e forse sono rimasto il solo a ricordarne l’origine. Eravamo un gruppo di adolescenti disastrati fuori e dentro. Saltavamo la scuola di nascosto per andare a giocare a biliardo, fumavamo di nascosto le sigarette rubate ai vecchi dei giardini pubblici, giocavamo a pallone di nascosto nelle sere d’estate nel campo privato del signor Quilci. Facevamo tutto di nascosto e questo era forse il bello. L’unica cosa veramente nostra, gli unici spunti per sentirci diversi da quella città che ci cresceva attorno, erano i nostri segreti, le nostre avventure sulla nave della fantasia. Tutto era dettato dall’istinto fresco e cattivo di un gruppo di ragazzini sporchi di sole e di fango.
Fu in quel periodo così incosciente e felice che decidemmo di fare una scommessa. I primi pruriti sessuali grattavano le pelli ancora macchiate di latte e ognuno di noi aveva la sua fantasia più segreta e più strana. Di solito erano divagazioni sul tema della vicina di casa, della compagna di banco o della figlia illegittima della portiera, e tutti quegli stimoli agitavano il sangue come non si sarebbe agitato mai più nella nostra vita. Scommettemmo di fare del sesso vero, non immaginato, con una ragazza qualsiasi. L’importante era farlo e ovviamente portarne le prove. Ci stringemmo la mano solennemente una domenica e lo scadere ultimo era il sabato successivo. Lunedì, il giorno seguente alla scommessa, arrivai al solito ritrovo con la prova eclatante ed indiscutibile di aver fatto sesso sfrenato con una ragazza. Da quel giorno rimasi nella mente degli altri con il nomignolo di Mister Lunedì. Nessuno ha saputo e mai nessuno saprà che la dolce compagna dei miei primi giochi sessuali fu una mia cugina più grande, lautamente ricompensata del disturbo con un diecimila prontamente speso nella profumeria che luccicava in centro.

Lei non confessò mai, né tanto meno lo feci io, così la mia fama si alimentò con l’imbroglio e io svettai in cima alle dicerie del quartiere, in cui mi destreggiavo con decine di donne dispensando orgasmi pubescenti a destra e a manca. Poco male, se l’imbroglio non fa male a nessuno.
Perso nei ricordi e avvinghiato alla possente pancia di Massimo mi vidi quasi schiantato sul marciapiede del bar, dove il solito tavolino con le solite facce animate da una stupenda insofferenza per il mondo occupava la domenica sera cercando di spazzare via la noia.
- Ciao Mister Lunedì – fecero in coro vedendomi sbucare da dietro le spalle enormi di Massimo.
- Ciao ragazzi – salutai aiutando il mio amico centauro a sollevare il bolide per piazzare il cavalletto rotto.
Solo alcuni salutarono Massimo, l’indifferenza è un peccato capitale, pensai guardando il viso di Marco che fissava il nemico da dietro il suo Campari.
Ci sedemmo; Massimo si posizionò a cinque centimetri dal mio braccio togliendomi quasi completamente la visuale della strada, luogo da cui traevamo il maggior numero di commenti possibili sulle donne che passeggiavano abbracciate ai loro uomini, sempre più belli o più ricchi di noi.
La compagnia era più o meno sempre la stessa. Poche facce erano arrivate e poche se ne erano andate, il nucleo fondamentale non si era mosso di un passo, rimanendo ad arrugginire nella nebbia tra gli inverni e le estati. E ora, sei uomini con il cervello da bambini fissavano il mondo che scivolava tra le macchine e il traffico.
- Cosa c’è di nuovo, Lunedì? – mi chiese Alberto sorseggiando la sua vodka.
- Niente – risposi – Non c’è niente di nuovo. Ho trovato Massimo per strada e gli ho detto di unirsi. Ho fatto male? – Prima regola: chiedere sempre il parere degli altri per poi gustare meglio l’ebbrezza di fare di testa propria.
- Certo che no – risposero quasi in coro. Seconda regola: dare sempre ragione a chi poi fa sempre di testa sua.


Massimo ed io ordinammo. Per me la solita vodka sette, che di aperitivo non ha niente, ma l’alibi reggeva, ed un Crodino per il mio povero amico astemio che ghignò alla cameriera, convinto che lo avesse guardato un secondo in più del dovuto.
Spendere una parola per Chiara è d’obbligo. Lavora al bar da una vita, da molto tempo prima che noi con i nostri calzoni corti facessimo la prima apparizione tra chinotti e aranciate. Era una ragazza non bellissima ma cosciente che qualsiasi essere di sesso femminile può fare ciò che vuole se ha a disposizione una certa dose di furbizia. Era passata tra di noi per milioni di volte, a prendere le ordinazioni, a togliere i bicchieri, a svuotare il posacenere. Non passava giorno in cui qualcuno di noi non si mettesse in mente che era stato osservato troppo insistentemente dall’unica donna che ci rivolgeva la parola. Lei era ovviamente obbligata a farlo dal suo lavoro e, inevitabilmente, dopo sogni appiccicaticci e fantasie troppo ardite, tornavamo a considerarla solamente una cameriera, passando il sogno di seconda mano all’amico che ci sedeva a fianco. Oggi era il turno di Massimo a giudicare dal rossore che gli appariva sulle gote. Ognuno ha diritto al suo momento di gloria.
- Noi, invece, abbiamo una novità – annunciò Marco stando ben attento a non guardare Massimo.

- Di cosa si tratta? – chiesi pensando che parlasse di una trasferta, di un nuovo locale da esplorare, di una nuova donna a cui pensare.
- Presto avremo delle visite – annunciò sorridendo al suo Campari.
Arrivò la mia vodka sette, mentre Massimo dovette aspettare qualche minuto in più per il suo Crodino. Cosa dire, anche questa giungla ha la sua legge del più forte. Dopotutto se tirassi i conti di quel locale scoprirei che almeno metà dell’ipoteca l’ho pagata io.
Sorseggiai la mia vodka con gusto, pieno di curiosità per quello che aveva appena detto Marco. Sembravano un po’ tutti eccitati ed anche io stavo entrando a far parte di quelli che sperano.
- Di chi si tratta? – domandai mentre il mio stomaco, ricevuta la vodka, mi ricordò in un lampo tutto quello che avevo bevuto con Katia la sera precedente.
- Di tre ragazze che abbiamo conosciuto ieri sera al Vox. Sono stupende. – confidò gonfio d’orgoglio.
- Tre ragazze? – feci io incredulo. I miei amici stavano crescendo.
- Sì, proprio così. Alberto ed io eravamo al Vox ieri sera e le abbiamo conosciute. Ci siamo scambiati i numeri di telefono e questo pomeriggio le abbiamo invitate qui per l’aperitivo. – Capperi! Non smettevano più di stupirmi, li lasci soli una sera...
Considerai la scena a cui stavo per assistere. Queste tre ragazze forse bellissime, i nostri canoni sono molto diversi, sarebbero arrivate da un momento all’altro in quel posto. Fissai l’insegna al neon del bar. Dalla scritta “Bar Mescal” mancavano due o tre lettere e le altre lampeggiavano quando pareva a loro. La strada, i gas di scarico, quel profumo di merda che saliva dai tombini, i vestiti sgualciti ed il motorino truccato di Massimo, disegnavano meglio di ogni altra cosa la nostra vita.
Mi accesi una sigaretta sospirando.
Le tre donne forse non arrivarono mai, o forse ci videro e tornarono indietro girando i loro tacchi alti alla moda; ma ci lasciarono, grazie al cielo, ancora qualche sogno da consumare tra una vodka ed un Campari.
- Silenzio ragazzi – urlai sentendo gli altoparlanti del bar che iniziavano a gracchiare la loro musica.
Si zittirono immediatamente, sapevano che era importante.
Chiara sbucò dalla porta del bar e mi fissò per un istante, poi mi disse:
- Mister Lunedì, questa è per te – e la musica iniziò.
“La chiamavano Bocca di Rosa
metteva l’amore
metteva l’amore
La chiamavano Bocca di Rosa
Metteva l’amore sopra ogni cosa
Appena scesa nella stazione
del paesino di Sant’Ilario
tutti si accorsero
con uno sguardo
che non si trattava di un missionario”



Si ringrazia la casa discografica ed il cielo disperato che ha visto nascere e morire Fabrizio De André.
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