Occhi marroni
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Occhi marroni
un racconto di Enrico Carboni
Cominciò una sera di Febbraio. Le strade, stanche di un lungo inverno, accolsero la mia piccola auto, mentre percorrevo ancora una volta la breve via verso il nulla. Era ancora molto freddo, alcuni passanti infreddoliti osservavano annoiati il tranquillo via vai del traffico, mentre la notte avvolgeva gelida il piccolo paese nel quale vivevo da pochi anni. Alla mia destra, il mare triste e desolato aspettava ancora i giorni in cui le sue acque avrebbero accolto centinaia di corpi divertiti. Era già arrivato il fine settimana e, come spesso accadeva in quei giorni, riflettevo sullo scorrere veloce del tempo. La mia percezione era, in effetti, cambiata negli anni, come se dopo il liceo ci fosse stata una brusca accelerazione che rendeva i giorni brevi ma tristi. Gli anni della scuola, ai quali ripensavo a volte con affetto e malinconia, sembravano non finire mai, stretto tra il desiderio di crescere e l’incontenibile voglia di leggerezza; oggi il rimpianto sembra essere l’unico sentimento al quale aggrapparsi. L’inutilità dei gesti, ripetuti in eterno, sembrava aver abbattuto ogni velleità di rivolta di un ragazzo che, a vent’otto anni, non aveva più aspirazioni, sogni, illusioni. Io, che fino a poco tempo prima ero stato un sognatore tra i sognatori. Passato. Ora il mio presente ricordava una notte senza stelle. Amicizie smarrite in un bivio oscuro, amori mai esistiti, sogni infranti. Nemmeno il divertimento della notte, che fino a pochi mesi prima mi aveva fatto sentire almeno vivo, faceva ancora parte della mia vita.
Non mi mancava nulla, questo è certo, ero sicuramente il principe delle potenzialità sprecate. Anni passati in studi noiosi e deludenti, per poi accorgersi che in realtà la mia unica passione era scrivere, ma anche questa svanita nel peso del fallimento. Il libro che avrei tanto voluto scrivere, infatti, il nuovo capolavoro del nostro secolo, sembrava non venire mai alla luce, forse per mancanza di qualcosa realmente interessante da dire. Narravo i miei pensieri, di notte, davanti il computer, ma niente di serio, anche alcune poesie. Forse ero io il primo a non crederci. Avrei dovuto continuare i miei studi borghesi, cercare un lavoro stabile, una famiglia e tutto il resto. Ma non era questo il mio destino. Così da due mesi, dopo essere andato a vivere da solo per non dovermi sorbire le prediche di mia madre, vivevo della rendita di anni di lavori stagionali in bar e ristoranti, a servire persone che disprezzavo. Le mie giornate le trascorrevo leggendo spesso, letteratura e filosofia perlopiù, riflettendo e cercando ispirazioni continue che non arrivavano mai. A volte andavo in palestra, per non lasciarmi andare del tutto, ma una scarsa alimentazione mi aveva reso piuttosto deperito. Anche alcuni vizi in verità. I peggiori, solo droghe pesanti. O il massimo o niente, era questo uno dei miei principi base, che mi sarebbe costato caro in futuro. Non che non tenessi al mio corpo, ma l’assenza di qualsiasi slancio verso la vita mi impediva persino di mangiare, io che perdipiù somatizzavo ogni cosa nello stomaco.
Domande sul futuro non me le ponevo, anche se ero convinto di non poter continuare ancora a lungo quella vita così stressante, lontano da tutti e senza una vera vita privata, distrutto nel corpo quanto nella mente. Nessuno mi obbligava a quel tipo di vita, questo è certo, ma avevo perso ogni volontà di cambiamento, imprigionato nella completa rassegnazione. Ero caduto e non vedevo possibilità di risalire. Quando, di notte, non restavo nel mio piccolo monolocale a scrivere di niente, uscivo, spesso da solo, ma sempre meno frequentemente. E se qualche mio vecchio amico si degnava di concedermi un po’ del suo prezioso e mediocre tempo, le serate scorrevano sempre uguali, lente, nei soliti posti, rafforzando sempre più la mia scarsa compatibilità con il genere umano ed una misantropia degna del miglior Schopenauer. Il locale nel quale mi stavo recando quella sera lo frequentavo da un po’ di tempo. Non che mi piacesse in verità, pieno come era di figli di papà e ragazzine isteriche, ma era vicino a casa, l’ideale per poter scappare via in caso di malessere. Inoltre, mi consentiva di procurarmi lo sballo di cui sempre più avevo bisogno per sopportare la realtà, ed ogni tanto anche qualche piccola avventura desolante. Avevo un problema con le sostanze stupefacenti, questo è certo, ma non ne soffrivo, anzi lo consideravo spesso un segno distintivo della mia superiorità. Strano come si contorcano i pensieri a volte. Non tolleravo un’esistenza priva di stimoli, mi sentivo solo ed incompreso tra persone che non avevano nulla in comune con me, che non comprendevano la nobiltà del mio animo, le mie passioni. Ed allora droghe pesanti. Cocaina, per spegnere la razionalità, aumentare l’empatia, vincere la timidezza, per non sentire dolore, né fisico né, ancor più importante, mentale. Avevo decisamente un problema grave. Uno tra tanti. Ma non mi importava, ripeto.
Oggi, guardandomi allo specchio, vedo ancora i segni di una vita malata nel mio corpo troppo magro, nel viso segnato da profonde occhiaie, nelle tante cicatrici. Le mie uscite in solitario erano ben diverse, mi allontanavo molto dai soliti posti, ma non combinavo nulla di buono, danneggiavo soltanto l’immagine di me che un tempo amavo. Mi sentivo solo, terribilmente solo, e non riuscivo a spiegarmene il motivo, poiché era una sensazione che non avevo mai vissuto come un problema fino a pochi mesi prima, anzi, come un segno di aristocrazia intellettuale. Come tutti i grandi uomini, di cui avevo letto nei libri di storia e filosofia, anche io ero solo, e in passato ne avevo fatto un punto di forza. Imparai a trascorrere intere serate in compagnia di me stesso, vagando per locali, incontrando persone che non avrei mai più visto, ricevendo baci fugaci da donne di cui non ricordo nemmeno la fisionomia.
Cominciai a cadere il giorno che morì il mio migliore amico. Quello stesso giorno decisi di rinunciare alle mie restanti amicizie, che fino a quel momento erano stare spesso linfa vitale per il mio debole cuore. Vivevo di assoluti e vedere rapporti decennali diventare ad un tratto freddi e di circostanza fu troppo per me, che non sopportavo nessun tipo di compromesso. E poi, per me erano colpevoli. Vedersi ogni tanto non faceva che peggiorare le cose, poiché non avevo più nulla da dire, la loro presenza era diventata superflua, e mi aspettavo a breve una rottura. Così sarei stato completamente solo. Perché l’amore, mio malgrado, era per me un universo sconosciuto.
Avevo dato appuntamento al mio amico davanti il locale, perché pretendevo sempre di avere la mia auto, in caso di eventuali fughe. Il viale alberato che costeggiava la spiaggia era spazzato da un freddo vento invernale. L’atmosfera desolante era interrotta dal continuo movimento di macchine, attirate dal locale più di moda della città, dal quale già proveniva un forte rumore che molti pretendevano di chiamare musica. Io non ero d’accordo, ma non importava a nessuno e sceglievo di adattarmi, sempre. La parte esterna, non molto grande in verità, era già colma di gente, nonostante la brezza marina, aiutati dal loro grande amico alcool, compagno di mille serate. Io non bevevo, mai. Mi ero già fatto alcune dosi di coca e mi sentivo carico. Vidi Alberto in disparte, smarrito, fermo davanti la sua macchina, parcheggiata con precisione. Gli feci un cenno con la mano, che contraccambiò, in maniera automatica.
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Eravamo amici da quindici anni ormai, ma qualcosa si era rotto da tempo, precisamente nel momento in cui incontrò la sua attuale fidanzata, e da quel giorno sono passati già diversi anni. Cambiò, e parecchio. Anche io ci misi del mio, ma potevo affermare con orgoglio che ogni evoluzione della mia vita era stata causata solo da me stesso, e non dall’incontro con altre persone. Persi interesse per i suoi discorsi, sempre uguali a loro stessi, vacui e privi di passione come la sua vita stessa. Viveva un rapporto sentimentale con una ragazza che non amava, ne sono certo, ma ormai c’era dentro fino al collo e non poteva più sottrarsi a certi impegni presi, in considerazione del fatto che lei era straniera, povera e sola. Bella situazione. Non l’avrei sopportata nemmeno per un secondo, perché per me tutto è assoluto ed un rapporto in cui prevale il senso del dovere è già morto. Aveva mille impegni a causa di tutto ciò, altro elemento che contribuì ad allontanarci, rendendo la sua presenza superflua. Oggi era riuscito a ritagliare un po’ del suo tempo per me, ma non ne ero per nulla onorato, non mi piaceva venire dopo altre persone, essere in secondo piano, mai. Anche il suo aspetto esteriore urlava mediocrità, un viso infantile, un corpo esile e sgraziato, vestiti curati ma privi di personalità. Era un copione già scritto, ogni serata tra noi ci vedeva immersi tra la gente, con la musica alta che ci impediva di parlare, ma soprattutto di capire quanto breve fosse l’autonomia dei nostri argomenti di conversazione. Per concludere, naturalmente, la sua ragazza mi odiava, essendo io simbolo di trasgressione e probabile causa di un eventuale tradimento da parte del suo uomo. La mia unica colpa era non essere fidanzato, poiché non avevo mai sbandierato molte delle avventure che avevo avuto, e quindi avevano di me un’immagine quasi asessuata, od al massimo di ragazzo superficiale. Non ne parlavo, primo perché non erano importanti per nulla, oltretutto nemmeno così frequenti come avrei potuto, secondo perché non erano persone alle quali fare confidenze.
Superato l’ingresso, vidi il bancone circondato di avventori impazienti, mentre i restanti ragazzi cercavano di ritagliarsi una fetta di spazio vitale tra tavoli e sedie sporchi e colmi di bicchieri. Non avevamo nessuna intenzione di prendere da bere, anche se la droga cominciava ad esigerlo, poiché io odiavo le file, odiavo qualsiasi contatto fisico, solo essere toccato da altre persone mi rendeva nevrotico. Osservai divertito le bariste muoversi da un cliente all’altro, io che conoscevo quel lavoro, ne avevo assaporato ogni attimo per intere estati, perdendo intere sezioni del mio sistema nervoso. Erano molto carine, ma decisamente poco attraenti ai miei occhi, forse volgari, decisamente adatte ad una serata di divertimento, opportunità che in quei giorni sembrava non destare più il mio interesse. Mentre Alberto, immobile, sembrava soltanto attendere che la serata finisse ed il compitino di passare un po’ del suo prezioso tempo con il suo amico disadattato venisse assolto, io continuai a guardarmi intorno, senza una precisa meta. Molti di quei volti mi disgustavano, i loro gesti mi ricordavano più bestie che esseri pensanti, sempre che la facoltà di parola renda un essere pensante, cosa di cui cominciavo a dubitare. C’erano molti uomini in cerca di una scopata facile, l’unico vero scopo delle loro squallide esistenze. Era capitato anche a me in passato, più di una volta, ma tutto ciò che mi lasciavano quelle esperienze erano solitudine e frustrazione. Avevo forti difficoltà a dissociare il godimento fisico all’appagamento sentimentale, cosicché rimanevo sempre deluso, quasi mi forzavo a volte a concludere un atto sessuale che per un altro maschio sarebbe stato esaltante. Mi chiedevo spesso perché continuavo a cascarci considerata l’angoscia che ne seguiva, ma era uno dei pochi modi per sentirmi perlomeno vivo. Ma ripeto, in quel periodo sembravo non essere in grado nemmeno di trovarmi una ragazza per una sera, forse cominciavo a non tollerare più tanta sofferenza; di certo la solitudine che stavo vivendo non mitigava quel dolore, anzi lo rafforzava rendendolo quasi intollerabile. Mi fermai per un attimo a pensarci, lo sguardo fisso nel vuoto. In tutta la vita non mi ero mai innamorato, ma non finiva qui. Pochissimi volti mi avevano realmente colpito, e nessuna di queste ragazze mi era mai capitato di conoscere. Invece, tutte quelle con cui in passato avevo diviso frammenti del mio essere erano completamente insignificanti ai miei occhi. Tutto questo mi convinceva, mio malgrado, che forse non avrei mai trovato la ragazza dei miei sogni, l’amore assoluto, e avrei condotto una vita solitaria, con un enorme vuoto interiore mai colmato. O forse, per me che da tempo non riuscivo più a sognare, la ragazza che cercavo non esisteva, era un fiore mai nato.
Tra i pochi volti che avevano colpito i miei occhi, vi era una ragazza che frequentava, anche se raramente, quel locale. L’avevo vista poche volte in un anno, ed ecco che rivolgendo lo sguardo all’ingresso la notai. Non mi aspettavo venisse quella sera, perché non la vedevo molto in realtà. Sicuramente aveva di meglio da fare che passare le sue serate in quella bolgia, ma mi ricordavo lo stesso di aver più volte espresso pareri positivi sulla sua bellezza, nonostante fosse fidanzata, come scoprii dopo poco tempo, osservandola baciare un insignificante ragazzino. Inoltre non mi aveva mai nemmeno notato, cosa che aveva leggermente ferito il mio orgoglio, ma nulla che non potevo gestire. In realtà ero ancora in un periodo di confusione, dove al mio scarso interesse per avventure con ragazze sconosciute si contrapponeva un forte rifiuto di ogni legame amoroso.
Occhi marroni. Ancora oggi ricordo il suo sguardo di quella sera, quando per la prima volta qualcosa cambiò tra noi, e vidi che forse poteva esistere un interesse anche da parte sua.
Era meravigliosa ai miei occhi, per tanti piccoli particolari che accendevano la mia fantasia, creando barlumi di speranze. Quasi sempre in compagnia di amiche invisibili, sembrava essere timida e riservata, per nulla interessata ai complimenti e le lusinghe delle bestie che ronzavano intorno al loro gruppo. Le amiche, più esuberanti e appariscenti, sembravano riscuotere maggior successo, ma questo soltanto perché gli ammiratori appartenevano ad una categoria di persone che definire superficiali sarebbe riduttivo. Non sorrideva spesso, ma la sua bocca, in alcuni momenti, assumeva una strana smorfia, forse di disappunto e noia, che mi dava conforto. Il sorriso, poi, era aperto e fugace. Lunghi capelli castani le scendevano oltre le spalle. Il suo corpo, longilineo e sensuale, era diventato un misterioso oggetto del mio desiderio. E quello sguardo, mi sarei potuto perdere in quegli occhi innocenti e puri, un piccolo angioletto che gettava la sua luce in un mare di tenebre. Vestiva in maniera sobria, ma molto femminile, cosa che apprezzavo molto, compreso lo scarso trucco nel viso, proprio come adoravo.
Vide che la stavo osservando e per un breve attimo, che mi sembrò eterno, posò il suo sguardo su di me. Sentii il mio cuore accelerare e per una volta non era la droga ad esserne responsabile. Avevo già abbandonato il pensiero della coca, in verità. Anche Alberto, le persone intorno a me, la musica assordante, tutto aveva perso consistenza, come se due forti riflettori si fossero posati su entrambi. Ci guardammo, poi accadde ancora, ed ancora. Non sapevo che fare, ero timido in quel tipo di situazione in cui sembrava ci potesse essere qualcosa da perdere, perché il mio interesse era reale. E poi c’erano quelle maledette amiche intorno, e le bestie, non avrei mai sopportato il minimo scherno, sono poco incline alle prese in giro e per nulla trattabile. Ma dovevo agire, e l’occasione capitò, quando mi passò davanti di ritorno dal bagno, finalmente sola, e nuovamente con gli occhi fissi su di me. Con un passo le fui davanti, abbozzai un sorriso e le rivolsi un saluto avvicinando la mia bocca alle sue piccole orecchie. Contraccambiò il saluto, ed a quel punto capii che mi dovevo inventare qualche cosa, poiché ormai ero in ballo.
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Mi svegliai molto tardi il giorno dopo, come spesso capitava di Sabato. Non avevo nulla da fare, nessuno da vedere. Il mio primo pensiero andò a lei e, per quanto tentassi di respingerlo, si fece largo nella mia mente, inesorabile. La mia stanza era piccola ma accogliente, con grande armadio bianco ed il letto, rigorosamente disfatto e pieno di vestiti smessi. Accesi il cellulare riposto sul comodino, nessun messaggio. Alcuni dei miei libri erano appoggiati per terra, altri su un piccolo tavolo da lavoro sul quale appoggiavo il computer portatile. I restanti pezzi pregiati della mia biblioteca erano al sicuro in un’intera ala dell’armadio, che non avrei mai potuto riempire con i miei pochi vestiti. Non me ne era mai importato nulla di moda, eleganza e quant’altro. Mi infilai velocemente maglietta e pantaloni della tuta, raggiungendo il piccolo bagno alla mia destra. La casa si completava con la cucina e sala da pranzo annessa; ovvero un angolo cottura con un piccolo tavolo di plastica, frigo e scarse riserve di cibo. Ma non avevo molta fame. Decisi di bere un semplice succo di frutta, e mi buttai nuovamente sul letto, annoiato. Un leggero mal di testa mi ricordava l’ennesimo abuso di droga risalente alla sera prima. Notai però che c’era qualcosa che non andava in me. Sapevo di averla finita ed era sabato, quindi non mi sarei mai potuto permettere di uscire senza, non succedeva da tempo. Ma non ci pensavo, non avevo la necessità di cercarla. Non ne capivo chiaramente il motivo, ma sembrava essersi spenta un’ossessione senza colpo ferire. O forse se ne era semplicemente sostituita un’altra. Lo stomaco mi si contraeva quando il ricordo andò ancora una volta a lei. Non potevo fare niente, e quella condizione di impotenza era frustrante più della mia solitudine. Ripresi sonno e per qualche ora rimasi in quel sottile confine tra la veglia ed il regno di Orfeo nel quale i sogni più si avvicinano alla realtà. Così, per la prima volta, la vidi persino in sogno, immobile, davanti a me; cercavo di attirare la sua attenzione ma non mi vedeva, urlavo, saltavo, nulla. Risvegliandomi, mi sentii ancora peggio di prima.
Pochi minuti e mi ritrovai intento nella preparazione del pranzo. Non avevo televisione, il che non era un male, così accesi il portatile ed inserii un cd di musica classica, che riequilibrava il mio spirito, oltre a tenermi compagnia. Trovai in frigo un paio di fettine avanzate, che preparai velocemente unendo un paio di pomodori. Mi sentivo già tremendamente sazio, così raggiunsi di nuovo il letto, guardando nel vuoto per svariati minuti.
Mi destò una decisione. Sarei di nuovo andato nel locale di ieri sera, questa volta da solo, tanto i miei amici il Sabato erano sempre impegnati con le fidanzate. E l’avrei cercata, dovevo parlarle ancora, sapere se aveva pensato a me quanto io a lei. E se mi avesse risposto di no, o peggio non mi avesse nemmeno voluto parlare? L’eventualità negativa di ogni situazione doveva essere sempre ben presente nella mia mente, per non andare incontro a delusioni. Come se la razionalità fosse in grado di preservarci da ogni male. Ma avrei scoperto a mie spese quanto fallimentare fosse questa tecnica, poiché i sentimenti prevaricano ogni cosa. Afferrai dal comodino “Delitto e Castigo”, che da alcuni giorni stavo leggendo, e mi immersi subito nella vicenda, ora che, rilassato, avevo stabilito le mie prossime mosse. Non rimaneva che aspettare. Il pomeriggio sarebbe risultato uno dei più lunghi della mia vita.
Non tralasciai nessun particolare durante la preparazione. Non che fossi troppo curato, in verità, poiché non ne ero in grado, era un’operazione totalmente estranea alla mia natura. Ma indossai la maglietta che più mi piaceva, o che probabilmente meglio evidenziava le forme dei miei muscoli. Poi mi soffermai a lungo sulla pulizia dei denti, nell’eventualità di un bacio, un sogno ad occhi aperti. Poter solo sfiorare le splendide labbra di Elena mi rendeva elettrico. Avevo consumato un pasto ancor più frugale del precedente, ma la fame non mi preoccupava, né pensai ad eventuali scorciatoie per il divertimento. Non quella sera, c’era solo lei nel mio destino. Il cellulare, muto per tutta la giornata, emise all’improvviso il breve rumore che annunciava l’arrivo di un sms.
“Io vado al Kolio verso le undici. Mi raggiungi?”
Era Stefano, il mio unico amico non fidanzato, ma dalle capacità cerebrali pari ad un orango in calore. Il suo unico scopo nella vita era il sesso, che ovviamente non riusciva mai ad ottenere, date le sue scarse qualità fisiche, per non parlare del resto. Quindi viveva un’esistenza frustrante a dir poco, che soffocava, o perlomeno provava a soffocare, con sbornie memorabili, condite da ritorni in auto al limite della legalità. Decisi che avrei risposto più tardi, tanto sapevo dov’era. Mi chiamava ogni tanto, ma non ne capivo il motivo, considerando che ogni volta che lo raggiungevo in quel locale che frequentava spesso, lo trovavo intento a parlare con questa o quella ragazza, ignorandomi completamente. Poi, quando al termine della serata si accorgeva di non aver più speranze con nessuna, andavamo insieme a fare colazione, mentre lui si occupava di smaltire l’ennesima sbronza, e l’altrettanto ennesima delusione. Mi riservavo serate di questo tipo solo in occasioni speciali, ovvero quando il mio soffio vitale era pari a zero. In sostanza, quando non avevo stimoli a fare nulla.
Uscii di casa con calma, scendendo le due brevi rampe di scale e varcando il portone, accolto dallo stesso freddo della serata precedente. Mi chiesi quale atteggiamento adottare, se andare subito a parlarle o aspettare una sua mossa. E se non fosse venuta? O peggio, fosse stata in compagnia del fidanzato. Mille domande angosciavano la mia mente mentre spingevo l’auto lungo la strada statale, stranamente deserta dato l’orario
Dal momento del mio arrivo in quel locale, che cominciavo ad odiare, sino all’arrivo di lei, i miei ricordi sono confusi. Stetti a lungo solo e in disparte, completamente estraniato dalla realtà. Rammento soltanto che mi fermai a riflettere sulla mediocrità degli esseri che si muovevano intorno a me, conversando, ballando, con il solo scopo di apparire. Questo per intendere quanto fossi realmente fuori da ogni contesto quella sera, esclusivamente impegnato nella ricerca di due splendidi occhi marroni.
Che finalmente vidi. Varcò l’ingresso con due amiche, e tirai il primo sospiro di sollievo. Incrociammo subito gli sguardi, e dalla mia posizione più che favorevole rimasi ad osservarla a lungo, mentre, imbarazzata, mi lanciava a volte occhiate maliziose, non perdendosi nessuna mia mossa, come del resto feci io. Una ragazza si mise al mio fianco dicendomi qualcosa che nemmeno sentii; non mi voltai nemmeno per guardarla, ma notai quanto questa scena non fosse sfuggita agli occhi del mio angelo, che mi apparve persino scocciata, incredibile a dirsi, era già gelosa di me. Poi arrivò anche per me il momento di innervosirmi, quando un idiota ubriaco cominciò a martoriarla di domande e discorsi senza senso, mentre Elena cercava di scostarsi senza essere scortese. Era elegante in ogni suo movimento, una piccola principessa in mezzo ad orchi puzzolenti. Fu l’occasione giusta per muovermi, le andai incontro, scostai l’orango, e la salutai con un cenno, facendole poi segno verso l’esterno. Avevo bisogno di silenzio e tranquillità per parlarle. Annuì e la vidi dire qualcosa all’amica che, con un’espressione da civetta, mi guardò ostile. La ignorai e mi fiondai fuori, spingendo alcuni ragazzi, mentre alle mie spalle potevo ancora sentire il dolce profumo della sua pelle.
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Sorrisi, e salimmo in auto. Ora il suo profumo invadeva il piccolo abitacolo, mentre la osservavo sistemarsi i capelli, e capivo che non potevo più fare a meno di lei. Si mordeva il labbro inferiore, sfiorando con una mano il finestrino. Non parlò durante il breve tragitto, se non per indicarmi la strada da seguire. Parcheggiai lungo la sua via, in un breve spiazzo coperto dagli alberi. La notte rifletteva il mio stato d’animo, poche stelle e un freddo vento invernale, l’albero che resisteva indomito, ed io non dovevo essere da meno. Mi guardava con aria sognante, e capivo che l’attrazione tra noi non poteva più essere trattenuta, ogni discorso sembrò perdere importanza. Rimanevano due ragazzi, un sogno, ed un amore in partenza verso l’ignoto. Ma feci il mio primo errore. Usai la ragione, e spezzai l’incantesimo.
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Non risposi e continuammo a guardarci. Aveva ragione. Avrei voluto che cadesse tra le mie braccia, che dimenticasse per sempre il suo ragazzo, che mi amasse per sempre. Perché era in quel modo che pensavo a lei ora, come la donna della mia vita, che finalmente mi avrebbe fatto conoscere ogni sfaccettatura di quel grande mistero chiamato amore. Ed ogni donna incontrata prima, che avevo sempre respinto, era stata necessaria per capire la differenza con quell’angelo, meraviglioso. Ma nulla di tutto questo poteva accadere in quel momento. Stavamo male, entrambi, per non poterci lasciar andare, per un sentimento che sembrava già forte per quanto appena nato. Come ogni cosa che valga la pena vivere, era travolgente, inspiegabile, tremendamente possente. E poi ancora sguardi, e le nostre mani che si incontrarono; un brivido salì lungo la mia schiena nel sentire la sua pelle sulla mia, mentre il cuore batteva sempre più forte. Non volevamo più soffrire. Con uno slancio mi abbracciò forte, ed io la strinsi a me. Quando i nostri corpi furono finalmente vicini, capii di amarla, senza timore di sembrare assurdo, o superficiale. Rimanemmo a lungo in quella posizione, con la testa di lei appoggiata al mio petto, ed il mio viso sui suoi capelli, senza perdermi nemmeno un istante il suo aroma dolce. Lentamente alzò lo sguardo e le nostre labbra si incontrarono. Fu un bacio dolce, affettuoso, passionale, in sé sembrò contenere l’intera essenza del nostro amore. Mi sentii sollevare, leggero, verso una dimensione che non conoscevo, una felicità che non avrei mai più provato con lei, mai.
Continuammo a baciarci per un tempo che sembrò volare, mentre il sole sorgeva sulla città ed il nuovo giorno ci salutava imbarazzato. Quando finalmente ritornammo sulla terra, erano già le sette della mattina, decisamente molto tardi, in particolare per lei che viveva con i suoi genitori.
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Quando mi svegliai, il giorno dopo, accesi immediatamente il cellulare, ma non arrivò nessun messaggio. In compenso, mi accorsi che erano già le quattro del pomeriggio. Erano secoli che non dormivo così a lungo, e profondamente. Dovetti conciliare colazione e pranzo in un unico pasto a base di yogurt, uova e frutta. Mi sentivo in forma, sicuramente il primo Sabato da tanto tempo senza cocaina mi aveva giovato. Ma il fuoco che sentivo divampare dentro il mio cuore, più di ogni altra cosa, sembrava avermi dotato di una vitalità fuori dal comune. Dopo quei baci, e il contatto tra noi, ero convinto che la favola sarebbe cominciata anche per me, ed avrei vissuto finalmente la storia d’amore dei miei sogni. Lei non avrebbe potuto rinunciare al nostro rapporto per una storia ormai logora; avevo ormai razionalizzato questo pensiero, fissandolo nella mia mente.
Decisi di uscire e di andare a trovare il mio amico al cimitero. Ci andavo una volta a settimana, ma non sempre, non contava nulla. Per noi le regole non erano mai importate, credevamo di poter vivere fuori da ogni schema. Quella con Filippo era stata un’amicizia autentica, definitiva, un rapporto che le persone comuni non avrebbero mai potuto vivere, o almeno questo dicevamo tra noi, durante le nostre interminabili conversazioni. Si era ucciso sei mesi fa, lasciandomi solo, completamente. Nessuno riesce mai a comprendere un gesto risolutorio come il suicidio, ma io sapevo il perché. Lo sapevo, per lo stesso motivo per cui anche io, nelle notti più disperate, avevo desiderato di compiere quel passo. Eravamo soli, in un mondo che non ci comprendeva, rispondevamo col disprezzo ed il sarcasmo, credendo in un futuro radioso che ci avrebbe visti elevarci dalla feccia. Li avremmo guardati tutti dall’alto, e con la nostra arte saremmo vissuti in eterno come dei. Leggevamo la mitologia, e ci paragonavamo ad Achille e Patroclo, o Alessandro ed Efestione, soli contro il mondo avremmo vinto la nostra battaglia e realizzato tutti i nostri desideri. In fondo al nostro cuore, sapevamo che tra questi desideri il bisogno di essere amati aveva la priorità, poiché entrambi eravamo dotati di un animo nobile e capaci di donare in maniera disinteressata. Ma non è così che ama il genere umano, e la nostra sensibilità ci impediva di trovare altre creature con le quali aprirci, per non rischiare danni permanenti. Ma eravamo due, forse una lotta impari, ma pur sempre due. Fino a quando lui non decise di arrendersi, ed io rimasi solo. Conservavo la mia copia dell’Iliade sul comodino, a fianco una sua foto, e spesso ne rileggevo dei passi, in particolare la morte di Patroclo e la successiva vendetta di Achille. Anche io avrei desiderato vendicarmi, lo dissi persino al funerale quando, in lacrime, accusai tutti i presenti di essere responsabili della sua morte, per non averlo capito e amato come meritava. Giurai vendetta, davanti ad un dio nel quale non credevo, poi uscii dalla Chiesa. Sulla sua lapide volli scritta una frase di un film, “Alexander”, il nostro sogno. Una frase che ancora oggi mi commuove lacerandomi il cuore. Il cimitero si trovava a poche centinaia di metri dal mio appartamento, così decisi di raggiungerlo a piedi. In strada poca confusione, una densa nebbia aveva avvolto la città impedendo il solito passeggio del gregge. Non mi dispiaceva quel clima, ben si adattava al mio stato d’animo, per quanto mi sembrava di vedere una luce, a tratti, indicarmi la via. Anche il cimitero era desolato, e raggiunsi subito la tomba di Filippo. Alcuni fiori erano stati portati di recente, mentre tutt’intorno una fastidiosa erbaccia deturpava il riposo del mio amico. Ne strappai via alcuni ciuffi. Tutto era come sempre, le date, fredde, la sua foto, mortalmente dolorosa, e la mia frase. Rimasi più di mezz’ora seduto, raccontando a bassa voce di Elena e di come una parte dei nostri sogni forse si sarebbe realizzata. Avrei voluto che si fossero conosciuti, e sono sicuro gli sarebbe piaciuta subito. Già immaginavo cosa avrebbe detto, di non preoccuparmi di quel misero essere che lei chiamava fidanzato, perché noi eravamo superiori fisicamente ed emotivamente, e se lei fosse stata realmente preziosa l’avrebbe capito subito. Mi mancava, come respiro vitale. E la vendetta, non era ancora nemmeno iniziata. Temevo il suo biasimo, ma cosa avrei potuto fare? Solo disperazione. Quando mi rialzai, prima di tornare a casa, gettai un ultimo sguardo alla mia frase:
“I sognatori ci svuotano, devono morire prima che ci uccidano con i loro maledetti sogni.”
Sulla via del ritorno, sentii un forte peso che mi opprimeva l’animo. Non sapevo ancora che sarebbe stato solo l’inizio della tempesta.
Mi misi a scrivere, di tutte quelle sensazioni che in quei giorni mi accompagnavano. Pensieri, senza un filo logico, ma un’ottima valvola di sfogo, non avendo del resto nessuno con cui parlare. Chissà, un giorno qualcuno avrebbe raccolto tutte quelle pagine e ne sarebbe uscito un capolavoro. Ancora sogni, mi stupivo di riuscire ancora a desiderare. Forse era merito di Elena. Restai tutta la sera in attesa di un suo messaggio, ma nulla. Io decisi di non agire, e mi addormentai turbato, ansioso.
Bramare tutto e subito era uno dei miei problemi principali.
Mi svegliai all'improvviso. Un'occhiata al cellulare, ancora nessun messaggio. Erano già le undici e decisi di alzarmi ed uscire subito. Raccolsi le forze e con un balzo fui in bagno, un leggero mal di testa mi angustiava la mente, mentre dalla piccola finestra vidi che la nebbia era nuovamente pronta ad avvolgere la città. Il frigo vuoto mi ricordò la necessità di fare la spesa, la sporcizia generale invece incoraggiava un'attenzione maggiore per non finire ad abitare in una discarica. Gli ultimi giorni avevano visto i miei pensieri perdersi in una sola, esaltante, angosciante direzione. E tutto il resto era passato in secondo piano. Dovevo cominciare da me stesso, una colazione sostanziosa, un po' di sport. Avevo ancora due uova, così le bevvi crude, con un po' di zucchero; pane e marmellata, ed una mela. Dovetti forzarmi a mangiare, sopratutto la mattina ero quasi completamente inappetente. Misi la tuta, infilai un asciugamano non proprio pulito nello zaino, ed in pochi minuti raggiunsi la mia auto. Le strade erano abbastanza trafficate, lunedì le formiche ricominciavano il tic toc di quell'assillante monotonia che pretendevano di chiamare vita. Ma tra il disprezzo, faceva capolino nel mio cervello un'esigenza purtroppo imprescindibile dell'esistenza umana, quella che senza un lavoro non mangi, per dirla in maniera spiccia. Ed a proposito di questo, i miei risparmi erano decisamente sulla via dell'esaurimento; ma non era ancora il tempo di pensare a questo problema, ora solo Elena riempiva le mie giornate, ed ero convinto che con lei vicina tutto sarebbe andato a posto, avrei risolto ogni cosa. Sarebbe stata la mia musa, grazie a lei sarei diventato un grande scrittore, e con i soldi guadagnati saremmo andati a vivere in un posto caldo, magari la California, lontano da questo squallore. Fantasticavo, guidando distrattamente, ed intanto raggiunsi la palestra che frequentavo da pochi mesi, con scarsa costanza in verità. Era un complesso immerso nel verde, con alcuni campi da calcetto alla destra, e la spiaggia a pochi passi. Un'assonnata segretaria mi salutò senza nemmeno alzare la testa; osservai i suoi capelli scuri e la carnagione chiara, quasi bianca, mentre era intenta ad inserire dati nel computer. Lo spogliatoio era completamente vuoto, con due sole borse appoggiate sulle panche. Ottimo segno, la sala pesi era decisamente vuota, ed io mi sarei allenato nella totale serenità. Misi il lettore mp3 nelle orecchie, ed entrai nella grande sala; ogni rumore esterno mi era completamente estraneo e nessuno avrebbe potuto rivolgermi la parola, così sarei stato completamente isolato. C'erano due uomini, un ragazzo ed un adulto, intenti a spandere sudore e ad alzare pesi senza alcun criterio. Ed una ragazza, che vedevo ogni volta, qualsiasi ora e qualsiasi giorno andassi, sempre occupata a correre, alla ricerca della perfezione fisica che i giornali e la televisione le dicevano di avere. La guardai per un attimo, sorridendo all'idea di quanto Elena fosse incredibilmente più bella di lei. Cominciai il mio allenamento, risultato di anni di studi e prove, breve ed efficace come dovrebbe essere il metodo di ogni materia affrontata con serietà. Mi facevano ridere quelli che trascorrevano ore della loro giornata in allenamenti estenuanti ed inutili, mentre io con pochi esercizi mirati ero in forma perfetta. O così credevo. Vivevo dei piccoli momenti di esaltazione in cui mi sentivo superiore, sempre e comunque. Eccetto che al mio angelo, naturalmente.
Dopo nemmeno un’ora ritornai nello spogliatoio. Avrei fatto la doccia a casa, mi faceva abbastanza schifo mischiare la mia intimità con persone che non conoscevo, perdipiù in un ambiente che non sembrava per nulla pulito. Gettai un’occhiata al telefono, tutto taceva. Mi era venuta fame, ma non avevo nessuna voglia di cucinare. Per un attimo sentii le forze mancare, lo sconforto mi invase rendendo ogni mia azione futura inutile. La spesa, pulire la casa, provare a scrivere qualcosa, tutto mi apparve privo di senso. Poi la sensazione cessò. Ma era allarmante soffermarsi su una semplice considerazione: che questi momenti di resa erano sempre più frequenti, come se il mio spirito tentasse un estremo tentativo di ribellione ad un’esistenza che mal tollerava. In alcuni casi, la filosofia mi calmava anche se non ero ancora così saggio da avere pronta una risposta ad ogni difficoltà, anche se era mio preciso dovere, dopo tanti studi e tanta passione, tentare di diventarlo. Ma Elena era la prova vivente della mia umanità, sentivo il desiderio crescente di possederla, che mi amasse intensamente e restasse per sempre accanto a me. Ed una bramosia così grande non avrebbe potuto che allontanarla, erano le leggi del tempo e dello spazio, filosofia orientale e stoicismo. Un altro errore. L’impulso era incontrollabile, mentre la mia mente la immaginava nelle braccia del suo ragazzo sentii una profonda angoscia lacerarmi lo stomaco, mentre altrettanto potente cresceva la rabbia. Il mio ego non accettava la sconfitta, non da quel tipo con cui usciva, non l’avrei sopportato. In fondo, se non voleva lasciarlo per me forse anche lei era così, non era alla mia altezza, e lo sapeva, mi temeva, era più facile amare un sempliciotto, se si può definire amore un rapporto così, piuttosto che una persona imprevedibile e dalle mille complessità come me. Ma le mie qualità, il mio enorme potenziale, come poteva non vederle? Proprio così, non riusciva perché ero al di là dei suoi bisogni, due razze diverse. O forse doveva solo crescere. O forse…Rimuginavo, lo feci durante un’interminabile spesa tra massaie annoiate, durante la rapida ma efficace pulizia della casa, ed infine quando, stanco e indolente dopo un abbondante pranzo, mi stesi nel letto, occhi rivolti al soffitto. Volevo urlare, per liberare la mia mente e tornare la persona di tre giorni prima, desiderai per un attimo di non averla mai conosciuta. Finché, il breve suono del telefono mi annunciò l’arrivo di un messaggio:
“Ho parlato con il mio ragazzo e penso sia finita. Sto malissimo ma credo fosse la cosa giusta da fare…”
Era lei. Incredibile a dirsi, si stava avverando quello che avevo desiderato, al di là di ogni ottimistica previsione. Non persi tempo e risposi subito. I caratteri scorrevano veloci sul piccolo display:
“Vorrei vederti. Pensi sia possibile dopo cena? Se ti va bene, verso le nove ti passo a prendere.”
Il tempo trascorse mentre con il cuore in gola attendevo la sua risposta.
“Anch’io ti voglio vedere. Ti aspetto. Un bacio.”
Lo rilessi una decina di volta, per essere sicuro di non aver frainteso nulla. D’un tratto, un’eccezionale voglia di vivere si impadronì del mio essere, ed ogni mia azione divenne frenetica. Dimenticai persino di prendere in considerazione eventualità negative, ero il vincitore, anche per me era giunto il momento di amare. Ma la vita non va mai come desidero.
Raggiunsi in breve tempo l’abitazione di Elena, il traffico era quasi inesistente. Giunto sotto il suo palazzo, le feci squillare il telefono lasciando la macchina accesa. Apparve in pochi minuti. Indossava la sua giacca di pelle e jeans stretti, che evidenziavano le splendide forme del suo corpo. I capelli, sciolti, oggi erano leggermente mossi, ed il trucco, sempre leggero e sobrio, le dava un’aria sbarazzina che mi inteneriva da morire. Quando entrò nell’auto, il suo profumo raggiunse subito le mie narici. Mi guardò, per un interminabile attimo, e con un’espressione dolcemente imbronciata disse:
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Quando riaprii gli occhi, un fastidioso mal di testa mi riportò alla realtà del dolore. Un sapore sgradevole invase la mia bocca, mentre mi sentivo stanco come se non avessi chiuso occhio nemmeno per un attimo. Conoscevo gli effetti negativi di quelle sostanze molto bene, ma dopo tutto quel tempo avevo dimenticato la durezza delle sensazioni, legate soprattutto al consumo di alcool che non ero solito assumere. Accesi la luce, la mia stanza era completamente avvolta nell’oscurità. Dalla finestra non arrivava alcun timido raggio di sole, nonostante le serrande non fossero perfettamente chiuse. Con la coda dell’occhio vidi il resto della droga sparso sul mio tavolo, proprio accanto il computer. Raggiunsi la finestra, vestito come la sera precedente, del resto non mi ero spogliato prima di andare a dormire. Aprii del tutto la tapparella, e con stupore vidi che il buio aveva già raggiunto le strade, accompagnato da una lieve e malinconica pioggia di fine inverno.
Guardai finalmente il telefono, erano quasi le sette di sera. Mi buttai nuovamente sul letto privo di forze, senza sentire in alcun modo lo stimolo della fame. Caddi in uno stato tra il sonno e la veglia, nel quale la sofferenza del giorno prima tornò a farmi visita insieme al volto di lei. Mi mancava come respiro vitale, e la rassegnazione che tanto agognavo sembrava lontana migliaia di chilometri. Mi odiavo per la mia debolezza, per i miei errori, per desiderare così disperatamente di amare ed essere amato. Elena aveva aperto delle porte nel mio cuore che nemmeno pensavo esistessero più, riportandomi da uno stato di completa apatia ad uno in cui la passione era diventata la mia unica ragione di vita. Ma non era più mia, non lo era mai stata, se non per un attimo, quando le nostre labbra si erano sfiorate per la prima volta. Mi sarei dovuto arrendere, ma non ne ero in grado, mi convinsi che solo con il coraggio di prendere ciò che si desidera si raggiungono i propri obiettivi nella vita, al di là di ogni rischio ed ogni conseguenza.
Per la prima volta, però, l’eventualità di una vita senza di lei si materializzò nella mia mente. Così ripensai ad un progetto che già da tempo coltivavo, sin dalla morte di Filippo, ovvero lasciare tutto ed andarmene lontano. Avrei anche lavorato pur di vivere all’estero e abbandonare questa disperazione, figlia di una solitudine ormai inarrestabile. E, chissà che, in un altro ambiente, avrei finalmente trovato l’ispirazione per scrivere un grande romanzo. Il mio sogno era l’Australia, che nel mio immaginario rappresentava l’ultimo paradiso incontaminato della terra, o l’estremo oriente, con i suoi misteri, proprio come Alessandro il Grande prima di me. Ma, fino a quella sera, non ero mai stato concretamente deciso a partire. Abbandonai con angoscia quel pensiero, nuovamente soffermandomi sul mio amore. Non volevo chiamarla, non avrebbe avuto senso. Per quel che ne sapevo, poteva già essere tra le braccia del suo fidanzato, ed avermi dimenticato, avvalorando la tesi che per lei non ero stato altro che un gioco. Ma, in cuor mio, non volevo ancora abbandonarmi alla negatività, così scelsi un simbolo, qualcosa che le comunicasse i miei sentimenti e le parlasse di me, di quanto fossi speciale. Accesi nuovamente la luce, e gettai un’occhiata alla mia libreria, individuando immediatamente ciò che andavo cercando. Avevo due copie de “Il giovane Holden” e ne afferrai una. Erano entrambe molto preziose, ma non quanto lo fosse quella ragazza incantevole. Holden l’avrebbe convinta del suo errore, ne ero certo. Con quel dolce pensiero, decisi di aspettare dopo mezzanotte prima di agire, sperando di evitare cattivi incontri, poiché avrei lasciato il libro nella sua cassetta della posta. Riuscii persino a mangiare qualcosa, poi mi misi a leggere fino a quando giunse il momento di agire. Le strade erano deserte, ottimo auspicio per la mia missione. Giunsi velocemente davanti la sua abitazione, nessuno in vista. Scesi dall’auto, ma dovetti con disappunto appurare che le cassette della posta erano poste nell’atrio dell’appartamento, e ovviamente il portone era chiuso. Dovevo inventarmi qualcosa, e velocemente. Così decisi che avrei lasciato il libro sopra il citofono, ma avrei dovuto scrivere almeno un biglietto affinché si capisse chi fosse il destinatario. Rientrai in macchina, e rifacendo la strada a ritroso mi imbattei in un bar ancora aperto. Entrai, il barista stava pulendo il bancone, mentre l’unico avventore era intento a spendere i suoi ultimi soldi nella trappola del video poker. Tutto, in quel locale, trasudava squallore, compreso il commesso, un ragazzo poco più grande di me, magro, trasandato, decisamente brutto. Chiesi una bottiglia d’acqua piccola, un foglio ed una penna. Scrissi velocemente il nome di Elena sul foglio, restituii la penna e pagai. Piegai poi il biglietto in modo che, infilato all’interno del libro, fosse ben visibile e non rischiasse di volare via. Contavo anche sulla buona fede dei vicini di casa, ma era in fondo abbastanza raro che qualcuno rubasse un libro. Se avessi lasciato una maglietta firmata, di sicuro non sarebbe stata ancora lì la mattina seguente. Sinceratomi che il campo fosse ancora libero, lasciai il mio regalo nel luogo stabilito, poi corsi a casa, tentando nuovamente di prendere sonno, impresa a dir poco ardua. L’attesa di futuri sviluppi mi rese elettrico. Spensi il telefono e lessi fino a tarda notte. Con una tenue speranza infine mi addormentai, il volto di lei nella mente.
Il giorno seguente, come un automa, vagai per la mia piccola abitazione, imitando la vita. Mangiavo, poco, poi tornavo a dormire, provavo a leggere, ma dopo poche righe abbandonavo tutto. Non mi aveva chiamato, nemmeno un messaggio per ringraziarmi del libro, niente, ero già polvere per lei. Mi sembrava assurdo, ma ero combattuto tra una resa incondizionata ed un ultimo sussulto d’orgoglio, come un pugile che sferra un grande colpo prima di andare al tappeto. Nel pomeriggio cominciai a prendere in considerazione l’eventualità che non l’avesse ricevuto, per chissà quale inconveniente. Verso sera, quell’ipotesi divenne per me l’unica realtà possibile. Così decisi finalmente di scrivere un messaggio, almeno l’avrei fatta finita una volta per tutte con le domande che affollavano la mia mente.
“Ti ho lasciato un libro ieri sera, l’hai trovato?” Non dovetti attendere a lungo, per fortuna, non avrei sopportato ulteriore indifferenza.
“Certo, grazie mille. L’ho letto oggi, tutto d’un fiato, ed è bellissimo. Grazie ancora.” Nessun accenno a noi, alla nostra situazione, come se stesse parlando ad un qualunque estraneo. Ignorai una fastidiosa sensazione di impotenza, e decisi di usare le mie qualità dialettiche per trovare un appiglio in quella ripida cima di pensieri.
“L’hai già finito? Strano, pensavo avessi altro cui pensare che leggere il mio libro preferito. E perché tanta fretta?” Tentai di aggirare il problema.
“Perché piace a te, per questo ero così entusiasta nel leggerlo. E avevi ragione, Holden ti assomiglia proprio…”
Quella risposta infuocò il mio animo, rendendomi ardito come non mai. Forse era il coraggio di chi non ha più niente da perdere. Mandai subito un ulteriore messaggio, geniale ai miei occhi.
“Ti innamoreresti di un ragazzo come Holden?”
“Penso proprio di si. Credo che io e te dobbiamo parlare e chiarire alcune cose. Ti va di venirmi a prendere stasera?”
“Speravo mi dicessi qualcosa del genere. Alle nove e mezza sono da te. A dopo.”
Non riuscii a ritrovare entusiasmo, troppa freddezza in quei messaggi, ed anche l’ultimo, c’era qualcosa che non andava. Ero convinto di sapere in sintesi quanto mi avrebbe detto quella sera, cosa significasse per lei chiarire. Ma dovevo affrontare quel dolore e metter fine a quell’assurda situazione una volta per tutte, senza dare ascolto alle mie paure, ignorando il dolore. Ero troppo debole, così ancora una volta caddi. Decisi che la cocaina mi avrebbe aiutato, in quella fredda notte in cui il destino mi avrebbe riservato la delusione finale. Così, dopo essermi preparato senza particolare cura, misi persino la tuta, mi avvicinai al tavolo ed un’altra riga di droga invase la mia narice destra. Per alcuni minuti stetti immobile, intento a reprimere lo stimolo a vomitare che alcune volte mi provocava, non essendo un consumatore abituale. Questa volta vinsi la mia battaglia con lo stomaco, ed una piacevole sensazione da eccitante cominciò ad occupare corpo e mente. Ero pronto ad affrontare un esercito. Guidai veloce, ai limiti del lecito, ed anche oltre, carico come non mai. Quando fui sotto il suo appartamento, aspettai alcuni minuti prima di chiamarla. Dovevo ritrovarmi, assumere un comportamento che non la insospettisse, ed ero molto bravo in questo genere di cose. Poco dopo entrò nella mia auto, e fui sorpreso di come la sua bellezza non mi turbò per nulla, segno che in quel momento la droga era più potente di qualsiasi altro istinto.
Girai il veicolo, e in un attimo fui nello stesso posto dove ci eravamo baciati la prima volta, una sorta di chiusura del cerchio, dove tutto era iniziato sarebbe anche terminato. Non avevo più timori, forte della sostanza che mi circolava nel sangue, così affrontai subito di petto il problema. La guardai, era splendida più che mai, con i capelli legati, una maglietta stretta e bianca che accendeva desideri impronunciabili. Teneva lo sguardo fisso verso il basso, imbronciata, triste.
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Quasi non ascoltavo, mi sentivo completamente stralunato. Stava accadendo realmente? Il dolore, insopportabile, mi annebbiò la vista. Risuonava nella mia mente quel “glielo devo”, come un’ enorme montagna aveva seppellito tutti i miei sogni. E non solo, aveva anche irrimediabilmente deturpato l’iimmagine di lei, una ragazza così giovane che rinunciava a sogni e passioni, per un incomprensibile senso del dovere. Stetti alcuni minuti in silenzio, creando un’atmosfera irreale, che entrambi non avremmo tollerato ancora a lungo. Poi ripresi la parola.
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Mi fissò, poi tornò a mirare il tappetino dell’auto. Non rispondeva.
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Passò una settimana nella quale persi completamente il contatto con la realtà. Per i primi giorni dovetti sopportare gli effetti del down che l’abuso di droga mi aveva causato. Dentro di me promisi a me stesso che non avrei mai più introdotto nel mio corpo quel veleno, ma mentivo, ed anche malamente. Non lessi più nulla, non accesi nemmeno il computer, mangiavo poco ed uscivo solo se necessario. Ricevetti un paio di messaggi dai miei amici, forse preoccupati della mia prolungata assenza, ma li liquidai inventandomi un’influenza. E poi, no, non avevo bisogno di nulla. Volevo soltanto una cosa, e l’avevo persa per sempre. Di Elena non ebbi più nessuna notizia; forzavo la mia mente ad immaginarla tra le braccia del suo ragazzo, una tortura che apriva voragini di angoscia nel mio stomaco, ma non mi permetteva in alcun modo di dimenticarla.
Poi, il lunedì successivo, qualcosa cambiò. Inspiegabilmente, ripresi a sperare, oltre ogni evidenza. Pensai ai miei eroi, mi ricordai di Achille, che mai si sarebbe arreso, si sarebbe adoperato per ottenere ciò che desiderava ad ogni costo. Ed io volli dimostrare a me stesso di essere così, di saper ancora lottare per qualcosa di puro, e sarei stato il solo in grado di mettere la parola fine a questa storia, nel bene o nel male, avrei stabilito io la conclusione. Ma non potevo chiamarla o vederla, e mi trovavo nella medesima situazione di pochi giorni prima. Volevo stupirla ancora, dimostrarle il mio amore e il mio coraggio. Tutte le cose che le avevo detto con rabbia, non contavano più nulla. Sono le azioni di una persona che la definiscono realmente, non ciò che pensa o dice. Ed io sapevo che anche i suoi sentimenti erano reali, che era una ragazza pura e leale, altrimenti non mi sarei mai potuto innamorare di lei. Era solo confusa ed inquieta, ed in questo stato di cose spesso si feriscono gli altri, io lo sapevo bene. Ma dovevo tentare, io sarei riuscito a renderla veramente felice come meritava quella creatura così splendida. L’idea giusta mi venne subito, accompagnata da un entusiasmo che non conoscevo appartenermi. Ricordai quanto Elena mi avesse pregato per conoscere tutto quello che di lei mi aveva colpito, così accesi il computer e scrissi una sorta di lettera, che iniziai così:
Ecco perché ti amo:
i tuoi occhi splendono come stelle,
sei dolce, premurosa e bellissima,
hai un sorriso che apre le porte del paradiso,
una voce meravigliosa,
sei gentile e delicata,
umile e sensuale,
generosa e pura:
un piccolo angelo.
Non la firmai, naturalmente avrebbe capito subito l’autore, almeno lo speravo. E per il piano che avevo in mente, doveva essere anonima. Ne stampai trenta copie, e le appoggiai tutte con cura. Avrei agito a tarda notte, così impegnai la restante parte della giornata per rimettermi in sesto, pulire un appartamento che ormai sembrava un porcile, andare persino in palestra, e consumare un pasto decente. Verso l’una di notte, armato di nastro adesivo mi diressi verso il suo appartamento. Pioveva a dirotto, evento positivo per me che di tutto avevo bisogno tranne che di essere disturbato da qualcuno in giro. Per non parlare dell’eventualità di un incontro con Elena ed il suo ragazzo, tanto imbarazzante per me quanto per lei. In fondo lui non sapeva nulla di me, ma non mi preoccupai che la mia azione potesse metterla nei guai, ero allucinato, in preda ad un delirio che un sentimento troppo forte aveva causato dentro la mia mente. La porta d’ingresso era posta in posizione laterale rispetto alla strada, coperta da una robusta tettoia, così potei agire non visto ed al sicuro dalla pioggia. Cominciai ad attaccare la mia lettera sui muri, sopra il citofono, persino sulla vetrata dell’ingresso. Quando tutte e trenta le copie furono sistemate, osservai compiaciuto la mia opera, per poi allontanarmi rapido nella notte, con i vestiti ormai bagnati. Era il gesto più romantico che avessi mai compiuto, anzi nel mio immaginario era il gesto più romantico di tutti i tempi. Fantasticavo sull’effetto che avrebbe avuto su di lei, e quando fui a casa volli spegnere il telefono. La mattina seguente l’avrei acceso, e sicuramente avrebbe capito di amarmi, e tutto sarebbe tornato a posto. Mi addormentai profondamente, i pensieri oscuri mi avevano abbandonato, lasciandomi in tregua con me stesso.
Quando mi svegliai, aprire gli occhi ed afferrare il cellulare furono un solo gesto. Nel momento in cui ricevetti un messaggio, il mio cuore trasalì, e leggere il mittente, Elena, mi gettò nel panico:
“Sei stato tu?”
Questo era il testo. Niente altro. Non potevo credere che potesse dubitare sull’autore di un gesto così, e pensai subito, ragionevolmente, che cercasse solo una conferma. Ignorai il fastidio crescente che cominciava a turbarmi, e la accontentai:
“Certo che sono stato io.”
“Grazie, sei stato dolcissimo.”
“Non era proprio la risposta che aspettavo. E’ cambiato qualcosa in questa settimana?”
“Io non so se la scelta che ho fatto sia giusta, ti ripeto, ma devo aggiustare le cose con lui. Ora è l’unica cosa che sento.”
Non risposi più nulla. Un’enorme rabbia mi crebbe dentro, ed il desiderio di distruggere si riversò sull’anta del mio piccolo armadio, che si spezzò colpita dal mio pugno. La nocca centrale cominciò a sanguinare, ma il dolore fisico non era nulla rispetto a quello del mio spirito, ancora una volta ferito a fondo. Dissi a me stesso che questa era la fine, non meritava nulla, era solo una vigliacca ed una persona mediocre. Ma non sapevo cosa fare e dove andare. L’epilogo non si era fatto attendere, ed un unico pensiero tornò a far capolino tra angosce e crampi. Lasciare tutto e andarsene il più lontano possibile. La mia unica salvezza.
Tutto ebbe termine la terza sera di marzo, quando il freddo aveva già concesso una lunga tregua alla città, ed il sole sempre più spesso riscaldava le vite di centinaia di essere insignificanti.
Trascorsi alcuni giorni in balia della droga, sempre fuori, di locale in locale, poi nel mio letto, lunghe ore spento nella disperazione, poi ancora in giro, senza aver alcun tipo di contatto con nessuno. Nel mio stato d’animo di quel momento non avevo alcun bisogno, solo il piacere di godermi gli effetti di un veleno perfetto.
Quella sera avevo deciso di andare più lontano del solito, in un locale che non avevo mai visto, ma di cui mi avevano parlato alcuni conoscenti in passato. Dopo aver mangiato un paio di uova crude ed un frutto, accesi il computer e mi misi a fare un solitario, nell’attesa che arrivasse il momento giusto per uscire. Preparai le ultime due righe di coca, e cominciò la solita trafila, mentre il mio corpo e la mia mente si assuefacevano sempre di più a quella sostanza, preannunciando un futuro d’inferno. Il pensiero di Elena mi aveva tormentato ogni ora, sempre presente, come un pugnale piantato nel petto che non riuscivo in alcun modo ad estrarre. Ero disperato, senza più alcun sogno, solo, innamorato. Mi venne un’ispirazione, ed ancora oggi non saprei spiegarmene il motivo. Scrissi una poesia, sul mio stato d’animo. Poi ne stampai una copia. E, al di là di ogni logica, sentii il desiderio di farla avere a lei. Scrissi nel lato bianco del foglio il suo nome, a caratteri grandi. Spensi tutto ed uscii, i miei movimenti tradivano uno stato alterato che non ero più in grado di controllare. Mi misi alla guida partendo di scatto, quasi persi il controllo del veicolo. Dopo pochi minuti e vari rischi, parcheggiai nella via parallela all’appartamento di Elena. Anche se incastrare la poesia nella parte superiore del citofono era un’operazione semplice e rapida, dovevo sincerarmi di avere campo libero. In lontananza, infatti, vidi due persone proprio davanti il mio obiettivo, che si tenevano abbracciate scambiandosi tenerezze. Dopo pochi passi il terrore si trasformò in certezza, e capii che erano Elena ed il suo ragazzo. Rimasi immobile ad osservarli per alcuni minuti, non visto, mentre un dolore lancinante aveva abbattuto ogni difesa che la droga potesse offrirmi. Alcune lacrime mi rigarono il volto, e capii che il momento era arrivato. Era finita, per sempre. Mi voltai, facendo a pezzi la poesia e gettandola ai piedi di un albero. Ripresi a camminare a ritroso, poi mi dovetti fermare, all’improvviso un conato di vomito mi costrinse ad appoggiarmi ad un albero, smarrito. Tentai di controllarmi, ma ero come malato, cominciai a tossire, ed infine fu inevitabile rigettare quel poco cibo che avevo ingerito a cena. Mi feci forza e ricominciai a camminare verso la mia auto, mentre una leggera brezza mi fendeva il volto, ed un cielo privo di stelle faceva da palcoscenico alla mia caduta. Dovetti ammettere a me stesso quanto poco avessi rappresentato per lei, causandomi ulteriore dolore, poiché se era rimasta con lui, allora voleva dire che non ero nulla. Con un’ opprimente sensazione di solitudin+e, raggiunsi la mia macchina, non ero più sicuro di nulla, nemmeno del fatto che avrei vissuto fino al giorno successivo. Troppo dolore, inarrestabile.
Questa è l’ultima immagine di me stesso che ricordo legata a questa storia, racconto di un amore così puro ed intenso da sembrare irreale. Vagai a lungo, da allora, con il corpo e lo spirito, ma mai più incontrai occhi splendidi come quelli di Elena, capaci di donarmi sensazioni così forti, restando sempre più solo, immerso in una malinconia desolante. E da quel giorno, nulla fu più come prima. Ma questa è un’altra storia. Rimase solo una poesia, che nessuno poté mai leggere:
Fine del sogno.
Dipingevo sogni su una tela consunta
raccoglievo lacrime in un calice rotto.
Conoscevo la solitudine e ne godevo
fino a quando vidi i tuoi occhi, e caddi.
La tua essenza testimonia il mio nulla
ti perdo ancor prima di averti, ma non sono pronto.
Non riuscirò ad aspettare ancora, non ho difese
sono sul punto di cadere, una vita spezzata.
Lunghi sonni senza immagini,
giornate senza colori, vacue come il mio animo
e poi il dolore, fresco, profondo, antico.
La sconfitta incombe inesorabile
E raccolgo le ultime forze per te,
ti dimentico, mi annullo.
Ora basta.