Il vuoto
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Il vuoto
un racconto di Chiara Cancellario
..non seppe mai dire che sensazione la prese
Sentì il suo corpo svanire, le braccia eran ali rapprese..
(F.Guccini)
Gli alberi a stento facevano vedere il cielo, intrecciati e folti, e per terra un cuscino di foglie morte morbido, dove i piedi affondavano dolcemente. Camminavo seguendo la strada tracciata da qualche animale da poco, quel sentiero mi avrebbe portato in cima, a vedere il sole, e quella vetta appuntita, il passo di montagna aperto da due rocce imponenti. Io continuavo a camminare, cercando di concentrarmi sul rumore del vento, che stava portando delle grosse nuvole cariche di pioggia. Mi dovevo muovere, perché altrimenti non ce l’avrei fatta a scendere a valle. Avevo scelto quel percorso, che mi avrebbe impegnato per qualche ora, perchè era il più difficile. Una vecchia rivista di escursionismo lo faceva apparire quasi magico, con delle fotografie di grosse radici di alberi annodate fuori dal terreno e quelle rocce coperte di muschio che, con un gioco di ombre, sembrava fossero anziani volti di pietra.
Vinta la pigrizia e messi i miei scarponi, mi ero avviata all’alba, quando il sole era solo un semicerchio rosso e nel cielo c’erano delle sfumature azzurre e rosa. Si vedevano ancora le stelle, e i lampioni erano ancora accesi. L’atmosfera era irreale, avrei voluto che durasse per sempre. Avevo freddo, e presi un cappuccino ad un piccolo bar, l’unico aperto a quell’ora. Il panciuto signore al bancone mi guardava con curiosità. Cosa ci faceva una ragazza della mia età, a quell’ora del mattino, vestita in quel modo? Io gli sorrisi e pagai la mia colazione. Poi pochi minuti in macchina ed eccomi all’inizio del sentiero.
Salire, avere freddo, fermarmi un po’ per prendere fiato. Mi sembrava che il mio fisico stava percorrendo quello che era, in quel momento, la mia vita interiore. Una salita ripida, rocciosa, piena di fossi e di buche. Il bastone troppo fragile, su cui non si può contare, poi, era l’emblema della mia ultima relazione. L’avevo scelto apposta, per ricordare a me stessa la natura instabile di molti rapporti umani. Solo sulle mie gambe-pensai-solo sulle mie gambe.
Erano un paio d’ore che camminavo, e il giorno ormai era alto, faceva meno freddo. Mi misi a sedere su una roccia, le mie gambe erano graffiate. La solita imbranata, che non guarda dove mette i piedi.
Cominciavo a vedere la vetta, alta e imponente.
Gli alberi finirono e davanti a me c’era il paesaggio giallo e roccioso della montagna. Mi voltai, mi resi conto di essere in alto. Non c’era nessuno. Solo le nuvole, pesanti, cariche. Forse non ce l’avrei mai fatta ad arrivare, la pioggia non mi avrebbe permesso di salire in cima.
Mi fermai in piedi, dritta, controvento. Vedevo la valle, il paese arroccato. Alzai le braccia e la testa e presi una grossa boccata d’aria.
Per la prima volta, dopo mesi, sentii dentro un senso di vuoto. Il vuoto di chi riesce a liberare la testa, era come se in quel momento fossi diventata irraggiungibile, sulla cima di quel monte. Potente e padrona del mio corpo, dei miei segreti più nascosti, ero li ed era come se mi guardassi in uno specchio.
Tutto ciò aveva qualcosa di mistico, ma questa sensazione fu troppo breve per poterla definire. Quell’inspiegabile ebbrezza finì con la prima goccia di pioggia.
Spaventata, ripresi il sentiero di corsa, per evitare l’acquazzone. Corsi e inciampai tra le foglie. Non cambio mai, sono la solita imbranata, pensai.