Il pupazzetto giallo
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Il pupazzetto giallo
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La gente andava avanti ed indietro nell'atrio affollato della stazione. Gli sguardi frettolosi, chi al tabellone degli arrivi e chi a quello delle partenze, tipici delle persone che devono prendere un mezzo di trasporto.
Un militare, appoggiato il suo grosso zaino ai piedi, scrutava pensoso la macchinetta obliteratrice indeciso sull'opportunità o meno di timbrare il suo biglietto. Una mamma teneva per mano il suo bambino piagnucolante.
"Non è giusto.", disse il bambino tirando su con il naso, "I miei amici a scuola ce l'hanno tutti…"
"Non m'importa niente dei tuoi amici. Ho detto di no e basta!", lo rimproverò la madre, " E se non la finisci le prendi!".
Una coppia di adolescenti si teneva per mano e si dirigeva a passi lunghi e svelti verso la biglietteria. Gli zaini in spalla e i giubbotti di jeans arrotolati alla vita. Lei indossava una maglietta di un gruppo metal, i Dark Tranquillity. Lui una con la scritta "Se tutto ti va bene, non spaventarti: non durerà!".
Li stavo osservando da sotto i miei occhiali da sole, dimentico ormai del libro che stavo sfogliando qualche minuto prima. Il mio amico era andato in edicola per comprare qualche fumetto per il viaggio. Mi aveva chiesto di accompagnarlo alla stazione ed ora gli stavo controllando i bagagli per evitare che glieli rubassero una seconda volta, come gli era capitato qualche mese prima. Lo vidi arrivare, tutto trafelato e sudaticcio per il gran caldo.
"Uhff! Che caldo! E che coda! ", disse, " Ho dovuto aspettare dieci minuti un tizio che probabilmente non sapeva neanche lui cosa comprare…"
Tirò fuori dalla tasca del marsupio un fazzoletto con il quale si asciugò la fronte imperlata dal sudore.
"Ho controllato, il treno è sul binario tre. Muoviamoci, ti aiuto ad accomodare i bagagli", dissi riponendo il libro nel mio zaino. Raccolsi due borsoni e mi diressi verso il treno seguito dal mio amico.
Salimmo su di un vagone e, una volta trovato un posto libero, iniziai a mettere le borse in ordine sul portabagagli, non prima di essermi tolto gli occhiali da sole, in modo che non gli cadessero sulla zucca alla prima curva. Nonostante fosse quasi estate non c'era molta gente. Vi erano parecchi buchi vuoti tra i sedili. Fra i passeggeri notai la coppia di poco prima. Lei era seduta accanto al finestrino e guardava fuori, mentre lui avevo la testa girata dall'altra parte. Entrambi avevano il viso corrucciato, come se avessero appena litigato.
C'era poi un uomo sulla trentina che nonostante il gran caldo si ostinava a tenere la sua giacca. Aveva sulle ginocchia una ventiquattrore che ogni tanto apriva, ne tirava fuori un'agenda sulla quale scriveva qualcosa e poi la riponeva con cura all'interno.
Passai lo sguardo sulla sinistra ad osservare una famigliola composta dai genitori e da due bambini che all'inizio credevo gemelli. Ad una più attenta osservazione scoprii essere solamente molto somiglianti. Probabilmente la differenza di età fra di loro era minima.
Dietro di essi vi era un ragazzo con una tuta azzurra e delle scarpe da ginnastica. Sul petto vi era scritto il nome della squadra alla quale apparteneva: Polisportiva Tracer.
"Sei proprio deciso, allora", mi disse il mio amico, "Guarda che sei ancora in tempo…"
"No, è meglio di no…", risposi. Non feci in tempo a finire la frase che il treno iniziò a muoversi.
"Te l'avevo detto che saresti venuto anche tu", mi disse con un sorriso beffardo sul volto.
"Ma porca miseria! E' partito con cinque minuti d'anticipo!", risposi seccato.
"Tanto adesso devi per forza seguirmi", continuò lui.
"Non è detto, potrei scendere alla prima fermata". Una smorfia di irritazione si disegnò sul mio volto e questo convinse il mio amico a desistere con l'ironia. Capì che non era giornata, come molte altre in quel periodo.
Guardai attraverso il finestrino. Il treno era ormai quasi del tutto fuori dalla stazione ed i primi campi apparivano all'orizzonte. Restai affascinato per qualche secondo dal colore intenso di quella scena. Non erano semplicemente verdi. Il sole estivo si rifletteva su di essi marcando l'intensità cromatica che, unita all'altrettanto intenso colore del cielo, rendeva il quadro perfetto nella sua semplicità. Mi sedetti accanto a lui rassegnato al pensiero di questo viaggetto di pochi minuti non previsto. Iniziai a sperare che non passasse il controllore. Ci voleva proprio una bella multa per completare la giornata.
"Te lo chiedo per l'ultima volta: poi, lo giuro, non ti rompo più. Sicuro che non vuoi venire?", mi chiese, " E' un modo per distrarsi…"
"No", risposi categorico. Mi uscì più deciso di quanto in realtà volessi e ciò m'indusse a fare un sorriso rassicurante al mio amico.
Il tragitto che il treno avrebbe fatto per arrivare all'altra stazione della mia città era molto breve, sarebbero bastati pochi minuti. Nonostante ciò socchiusi gli occhi, disturbati dai raggi di sole, provando un grosso sollievo: non avevo le lenti scure. Mi inumidii le ormai secche labbra con la lingua ed in men che non si dica mi assopii, cullato dal leggero e piacevole movimento provocato dal treno.
Riaprii gli occhi pochi minuti dopo, svegliato dal pianto di uno dei due bambini. Eravamo quasi giunti in prossimità della stazione alla quale sarei dovuto scendere.
"Che abbiocco! Mi sono addormentato", dissi rivolto al mio amico, il quale era intento a leggere il fumetto che aveva comprato poco prima. Distolse lo sguardo dalle pagine di "Julia" e mi rivolse uno scarno sorriso, misto a rassegnazione.
"Ne abbiamo già parlato.", dissi sospirando e cogliendo al volo la sua espressione, "Ci sono momenti particolari nella vita di ognuno di noi in cui si sente il bisogno di rimanere soli".
Effettivamente, come diceva un altro amico, quando la tristezza cade in fondo al cuore è difficile da raccogliere. In questo periodo trovavo questa frase molto condivisibile.
Il mio amico rimase per qualche secondo a fissarmi con un'espressione interrogativa stampata sul volto, come se non avesse capito quello che gli avevo detto. Poi riprese a leggere come se nulla fosse. Mi girai e vidi i due bambini seduti composti uno accanto all'altro. Le mani appoggiate ai braccioli dei sedili e lo sguardo fisso davanti a loro. Pensai che anch'essi fossero prossimi all'addormentarsi. Nessuno parlava, c'era un silenzio innaturale e l'unico rumore udibile era quello prodotto dal treno in corsa.
Feci un cenno di saluto al mio amico, il quale mi rispose con un lieve spostamento dall'alto al basso della testa. Il mio sguardo si posò sul finestrino accanto a lui. Notai che mancava la maniglia per tirarlo giù.
"Hai beccato un finestrino rotto", dissi al mio amico, "sarà meglio se ti sposti. Tra poco il sole inizierà a battere forte", aggiunsi.
Il mio amico non mi rispose e continuò tranquillamente a leggere il suo fumetto. Alzai le spalle, si sarebbe aggiustato lui. D'altronde non ero io che sarei rimasto sotto il sole cocente e senza un minimo di aria. Mi avvicinai alla porta di uscita. Il treno era arrivato alla stazione.
"Signore…", mi sentii tirare i pantaloni da dietro, "mi aiuta a tirare giù il finestrino, per favore?". Mi girai e vidi uno dei due bambini che mi osservava con ancora in mano un lembo dei miei jeans.
"Devo scendere, mi dispiace.", gli dissi, "Chiedilo ai tuoi genitori".
"Ma stanno dormendo, ci ho già provato", mi rispose. "Anche mio fratello dorme e io ho caldo", aggiunse.
Gli rivolsi un sorriso che voleva essere un "mi dispiace" e spostai lo sguardo verso la porta di uscita. A quel punto rimasi interdetto per qualche secondo. Anche qui mancava la maniglia. Mi voltai dall'altra parte e vidi la porta di fronte, anch'essa priva di un qualsiasi appiglio, anche semplicemente di quello per reggersi. Raggiunsi a passi lunghi e svelti l'altro capo del vagone ma pure le altre due porte erano fatte allo stesso modo.
"Ma cosa…", dissi, ormai madido di sudore. Cercai la porta per passare in un altro convoglio, ma non vidi nulla. Girai lo sguardo verso la parte opposta del vagone. Ritornai dalla parte in cui ero salito dalla quale avevo provato a scendere. Niente porta di comunicazione.
Il treno intanto non accennava a rallentare, anzi la velocità aumentò sempre di più, fino a quando in pochi istanti vidi la stazione che si allontanava e diventava sempre più piccola fino a sparire del tutto dal mio sguardo. Un rivolo di sudore mi scivolò dalla fronte e lo asciugai con la manica della maglietta. Istintivamente infilai la mano nella tasca dei jeans a cercare il mio portafortuna: uno di quei pupazzetti gialli di forma vagamente ovaleggiante, omaggio di un sacchetto di patatine. Me l'aveva dato una mia amica e da allora lo portavo sempre con me. Solo quando lo toccai con l'indice ed il medio riuscii a calmarmi.
Mi avvicinai nuovamente al finestrino accanto al mio amico, che evidentemente non si era accorto di niente e continuava a leggere il suo stramaledetto fumetto. Notai che il finestrino non era rotto. La maniglia per aprirlo non esisteva proprio, come se non ci fosse mai stata e fosse stato costruito in questo modo. Spostai lo sguardo sugli altri finestrini ottenendo lo stesso risultato visivo. Ero pronto a scommettere che anche le porte erano fatte allo stesso modo.
Bingo! Complimenti signore, lei ha vinto!!! Din-din-din!!!
Intanto il bambino era sempre alle mie spalle, mi aveva seguito durante tutto il tragitto che avevo fatto avanti ed indietro all'interno del vagone.
"Ho caldo", ripeté guardandomi negli occhi.
"Ma che cazzo sta succedendo?", chiesi quasi fra me, " Siediti per favore!", quasi urlai rivolto al bambino.
Lui si voltò e se ne andò verso i suoi familiari dicendo qualcosa fra sé. Non riuscii a capire cosa e poco mi interessava in questo momento.
"Ce l'ho anche io quel Packo!", disse il bambino sedendosi accanto al fratello più grande. Questa volta riuscii a sentirlo, nonostante fosse a qualche metro di distanza da me ed avesse parlato con un tono di voce prossimo al bisbiglio, come se stesse raccontando un gran segreto ai suoi familiari.
Come diavolo aveva fatto a capire che cosa stessi toccando all'interno della tasca dei miei pantaloni. Lo osservai mentre tirava fuori dalla tasca anteriore del suo marsupio uno dei quei pupazzetti gialli. Era identico al mio. Lo prese tra pollice ed indice ed inizio a guardarlo controluce, come se volesse capire se l'interno contenesse qualche cosa.
In quel momento una strana sensazione si impadronì di me. Una sorta di miscuglio fra incredulità e paura per la situazione quasi kafkiana che si era venuta a creare. Non riuscivo bene a capire quale fosse il confine tra il sogno e la realtà. Se non fosse stato per il mal di testa che iniziava a farsi sentire pulsando violentemente nelle mie tempie, avrei giurato di essere in preda ad un sogno. Anzi un incubo. Il caldo che filtrava attraverso i finestrini serrati era sempre più opprimente. Nessuno dei passeggeri accennava ad uscire da quello stato in cui era piombato. Tranne il bambino. Mi avvicinai a lui, scoprendolo sempre intento nella contemplazione del suo pupazzetto, del tutto identico al mio.
"Hai idea di quello che sta succedendo?", gli chiesi. Lui alzò lo sguardo su di me, appoggiando la mano in cui teneva il giocattolino sul bracciolo della poltrona.
"Non lo so.", mi rispose, "Non riesco a svegliare i miei genitori e mio fratello…", aggiunse poi. Mi fece un mezzo sorriso, probabilmente anche lui era consapevole del fatto che eravamo gli unici a non essere in quello stato di incoscienza e che quindi eravamo in qualche modo "legati". Il motivo di tutto questo, però, ci sfuggiva.
Provai a scuotere il padre del bambino, un uomo con una lunga barba ormai ingrigita dal tempo, il quale teneva gli occhi chiusi e non accennava minimamente a svegliarsi dal suo stato. Decisi di desistere.
"Come ti chiami?", mi rivolsi nuovamente al bambino.
"Davide!", mi rispose fiero.
"Va bene, Davide. Dobbiamo cercare di raggiungere un altro vagone", dissi.
Lui mi fissò con un'aria interrogativa, inarcando le sopracciglia verso l'interno. Gli si formarono delle pieghe sulla fronte che partivano dal centro, al di sopra del naso, fino a formare una sorta di ventaglio.
"Non lo so neanche io in che modo", lo anticipai.
Guardai fuori dal finestrino e vidi la campagna che sfilava via veloce. Le poche fattorie che di tanto in tanto si vedevano sparivano in pochi secondi. In quel momento il treno parve rallentare. Guardai negli occhi Davide leggendo la stessa impressione. Evidentemente ci stavamo avvicinando ad una stazione ferroviaria.
La corsa del treno procedeva sempre più al rilento e la velocità era sempre minore. La campagna era ormai quasi del tutto sparita ed i binari che correvano a fianco al nostro si facevano sempre più numerosi, ad incrociarsi come immense e gigantesche catene di amminoacidi. Non riuscivo, nonostante cercassi di osservare tutto con estrema attenzione, a scorgere il benché minimo cartello che indicasse la località in cui eravamo arrivati. Uno stridere rumoroso ci annunciò che il treno stava aveva appena frenato ed ora era immobile al centro di quella stazione deserta. Non vi era nessuno e il rumore tipico delle stazioni era assente. Non un treno che partisse o uno che giungesse, a parte il nostro. Non un capostazione, un bigliettaio o semplicemente un passeggero. Niente di tutto questo. Mi avvicinai alla porta di uscita cercando con lo sguardo il martelletto per rompere il vetro in caso di emergenza. Trovai l'alloggiamento. Vuoto, naturalmente.
In quel momento sentivo la rabbia, unita all'angoscia ed alla paura, che stava crescendo sempre di più dentro di me. Fino a quando il vulcano eruttò e noncurante della caviglia malandata tirai un calcio, anche se non molto convinto, verso la porta. Fortunatamente non ci misi molta forza. Nel momento stesso in cui appoggiai il piede, la porta si aprì come se non fosse mai stata chiusa, come se fosse semplicemente "appoggiata".
Riuscii a tenermi, rimanendo in bilico per diversi istanti, ad una barra attaccata alla parete.
Una ventata calda mi accarezzò il viso, quando misi piede a terra. La stazione era effettivamente deserta e non un rumore si sentiva. Sembra una di quelle piccole stazioni di qualche paesino sperduto tra le montagne in una afosa domenica pomeriggio. Mi guardai attorno cercando qualcosa che probabilmente sapevo già di non trovare: una persona sveglia. Non ero in grado di comprendere cosa stesse succedendo, ma gli effetti erano molto ben visibili ed intuibili. Il mio sguardo si posò sul treno che ci aveva condotto fin qui. Rimasi senza fiato per alcuni secondi, senza riuscire a formulare un pensiero che non mi facesse credere di essere ormai prossimo alla pazzia. Il treno era in realtà il vagone. Non c'era nessuna locomotiva e la nostra era l'unica carrozza. Sembrava un vagone parcheggiato in un binario morto. Dalla porta fece capolino la piccola figura di Davide che mi osservava con aria interrogativa. Scese dal treno ed iniziò a gironzolare di qua e di là per la stazione. Entrai in sala d'aspetto e vidi una decina di persone sedute, ovviamente tutte addormentate. Persino un cucciolo di cocker dormiva ai piedi della sua padrona. Adesso la paura prese decisamente il sopravvento sull'incredulità per la situazione. Me la stavo letteralmente facendo sotto. Andai verso la biglietteria e trovai la stessa scena dappertutto. Impiegati, ferrovieri, facchini… tutti nel mondo dei sogni. A quel punto decisi di provare ad uscire dalla stazione. Dovevo trovare qualcuno sveglio. Era impossibile che tutti fossero nella medesima situazione. Io e Davide eravamo forse le uniche persone sulla terra a non dormire in quel momento?
La piazza principale sulla quale si affacciava l'entrata della stazione era piuttosto grande per un paesino di provincia. Al centro vi era una bella fontana che rappresentava una serie di tre putti posti in modo triangolare dalle cui anfore scaturiva l'acqua, che andava poi a riempire una vasca circolare del diametro di cinque metri circa. Nell'insieme non era sicuramente uno di quei capolavori d'arte che avrebbero fatto affluire tanti turisti.
Vi era naturalmente il "Bar della Stazione", come in ogni piccolo agglomerato urbano che si rispetti. Entrai dentro e vidi tre o quattro clienti seduti ai tavolini, ognuno con una tazzina di caffè davanti ancora piena. Due erano seduti invece agli sgabelli del bancone uno con un cappuccino ed una brioche accuratamente avvolta in un tovagliolo di carta e l'atro con un bicchiere quasi vuoto di succo d'arancia. Sembrava quasi che tutti fossero stati colti dal sonno al momento della colazione. E la cosa strana che avevo già notato alla stazione era che nessuno era a terra. Se si fosse trattato di una cosa improvvisa qualcuno avrebbe per forza dovuto essere in piedi. Invece erano tutti comodamente seduti, come se fossero in attesa. Solo in quel momento mi accorsi che il mio mal di testa era sparito. Un leggero venticello entrava dalla porta accarezzandomi il viso e procurandomi una sensazione piacevole al contatto con pelle sudata, visto il caldo di quel pomeriggio. Uscii dal locale e vidi Davide intento a guardare all'interno di una Opel Corsa di un colore che mai avevo visto prima: un viola molto tenue, con una tonalità che dava quasi sul blu chiaro. Mi avvicinai.
"Dormono anche loro.", mi disse indicandomi l'interno. Vi era una coppia di anziani, seduti in maniera molto composta e ognuno con la propria cintura ben allacciata.
"Si, ho visto.", risposi. Il vento intanto aumentava di intensità. Adesso era veramente forte. Le cartacce sparse per terra iniziarono a volare di qua e di là come piccolissimi aquiloni sorretti da fili invisibili. Le porte dei vari negozi iniziarono a sbattere violentemente e dai tetti iniziarono a cadere alcune tegole.
"Torniamo in stazione!", urlai a Davide. Il vento era diventato talmente forte che non riuscivo nemmeno a sentire la mia voce. Il bambino, infatti, non riuscì ad udire le mie parole. Alzai lo sguardo e vidi il cielo più nero che avessi mai visto o anche solo immaginato. Mi avvicinai ulteriormente a Davide e, con estrema fatica lo presi per un lembo di maglietta. Lui si girò verso di me e, senza staccare le mani dalla portiera della macchina, mi rispose con uno sguardo interrogativo. Gli indicai con l'indice l'entrata della stazione e dopo qualche secondo si decise a seguirmi. Faticammo non poco a raggiungere la stazione. Anche al suo interno la situazione non era migliore. Il vento, anzi, pareva sempre più potente. Le prime crepe iniziarono a formarsi sui muri. Decidemmo di risalire sul vagone e di aspettare che la bufera calasse un po' di intensità. Riuscimmo a richiuderci la porta alla nostre spalle. In quel momento la maniglia c'era. Non feci in tempo a stupirmi che qualcosa di altrettanto, o forse più stupefacente, accadde proprio sotto i nostri occhi.
La maniglia si sparì letteralmente nel nulla lasciando la porta nello stato in cui l'avevo trovata solo pochi minuti prima. Niente congegno per l'apertura, niente appiglio.
Un boato sovrastò il pur forte rumore del vento: una parte del muro laterale dell'edificio della biglietteria franò in una nuvola di polvere che subito si dissolse nel vento, lasciando a terra un cumulo di macerie e di detriti.
Proprio in quell'istante il treno, o meglio il vagone, iniziò nuovamente a muoversi prendendo sempre più velocità fino a far diventare un puntino all'orizzonte la stazione.
Mi accasciai alla poltrona respirando affannosamente, come quando si è fatto una lunga corsa. La campagna si estendeva ai lati del treno per chilometri e chilometri. Il sole iniziava ormai ad essere meno intenso e le ombre ad allungarsi. Non avevo più voglia di fare il supereroe, non era assolutamente da me. Il mio desiderio, in quel momento, era di essere una delle persone addormentate. Essere svegli, adesso, era peggio della morte probabilmente. Cercai di estraniarmi da tutto, provando in tutti i modi ad addormentarmi come era successo qualche ora prima, cullato dal ritmico movimento del treno.
Cosa che ovviamente non mi riuscì.
Ormai in quella situazione non ci vedevo più niente di razionale. Prendevo ogni nuovo avvenimento senza più stupirmi, quasi come se fosse tutto assolutamente normale. Davide si era seduto al suo posto. Non avevo ancora capito che ruolo potessimo avere noi due in quella vicenda. Eravamo noi i destinati alla salvezza del mondo intero? Probabilmente avevo letto troppi libri. Ma questa sembrava veramente una situazione degna di un romanzo horror. Il pomeriggio schizzava via attraverso i finestrini andando a mischiare le varie tonalità di colore fino a fonderle e a crearne una nuova, frutto della miscelazione di tutte le altre. Una colorazione indefinita ma che sicuramente non presagiva niente di buono. Ed intanto il vagone viaggiava sempre più spedito in direzione di chissà quale destinazione.
"Non riuscirai ad addormentarti", disse Davide. La sua voce arrivava a me quasi ovattata, ma bastò la comprensione della frase a farmi ritornare pienamente padrone di me stesso. Una cosa era certa: quel bambino aveva delle doti che mi rifiutavo di aggettivare come paranormali ma che, nello stesso tempo, non riuscivo a definirle in nessun altro modo.
"Noi non possiamo dormire", aggiunse ancora. Mi avvicinai a lui e lo vidi seduto accanto al fratello. Gli occhi spalancati a fissare chissà che cosa in un punto indefinito davanti a lui. Lo chiamai per nome.
"Noi non possiamo dormire", ripeté nuovamente. Sembrava in uno stato di trance. Iniziò a sudare vistosamente. Non sapevo assolutamente cosa fare. Continuava a ripetere quella frase all'infinito, come uno di quei malati di mente che avevo visto una volta in un documentario alla televisione. Andai nuovamente a cercare il pupazzetto con le dita. Lo tirai fuori dalla tasca. L'usura del tempo stava facendo venire via il bianco degli occhi, che adesso presentavano alcune piccole chiazze gialle. Notai qualcosa di diverso. Non c'era più quel sorriso che mi aveva ispirato tanta simpatia quando la mia amica me lo aveva regalato come portafortuna. Al suo posto vi era un sogghigno che aveva un qualcosa di inquietante. Istintivamente lo riposi in tasca, non avevo più la voglia e la forza di chiedermi il perché delle cose.
Intanto il vento era ancora aumentato di intensità. Era talmente forte da far sussultare il vagone che intanto procedeva ad una velocità sorprendente anche per un treno ultraveloce, figuriamoci per un vagone che da solo non avrebbe dovuto fare neanche un metro.
Il movimento sussultorio era sempre più marcato, tanto che temetti che la carrozza si potesse rovesciare da un momento all'altro. A stento riuscii a raggiungere il posto accanto al mio amico. Il cuore mi batteva a mille, e la sua velocità andava di pari passo con quella del treno. Aumentava sempre di più.
Aprii gli occhi con uno sforzo immenso. Il sole era decisamente basso. Alzai lo sguardo in direzione del mio amico, che mi rispose con un debole sorriso ed un cenno del capo.
"Ti sei fatto una bella dormita", mi disse. Lo guardai per alcuni istanti durante i quali mille pensieri attraversarono la mia mente. Possibile che si fosse trattato di un sogno?
"Per quanto tempo ho dormito?", gli chiesi.
"Poco più di due ore.", rispose lui. Era intento a far fuori un sacchetto di patatine. Le rivolse verso di me con un'espressione interrogativa. Declinai l'offerta.
"Dove siamo?", feci con una punta di fastidio. Non tanto per il fatto di essere in viaggio, ma quanto per la sensazione che provavo.
"Siamo quasi arrivati.", mi disse, "Ormai devi venire con me".
"E il biglietto?", domandai.
"Mentre dormivi è passato il controllore e l'ho fatto. ", rispose, "Eccolo qui.", aggiunse tirando fuori dalla tasca anteriore del suo zaino un foglio piegato in due parti, che poi ripose accuratamente.
Eppure mi era sembrato tutto così reale: la paura, le porte senza maniglie, la stazione, il paesino, il bar…
Mi guardai attorno. Alcune persone che avevo notato alla partenza erano già scese. Non c'erano più l'atleta e l'uomo in giacca e cravatta. La famiglia con i due bambini, invece, era ancora al proprio posto, così come la coppia di adolescenti. Evidentemente si erano rappacificati, poiché stavano discutendo serenamente. I due fratellini, invece, stavano probabilmente giocando a figurine. Avrei però potuto scommettere che non si trattava di calciatori ma di personaggi di cartoni animati.
Sembrava tutto assolutamente normale. Un tranquillissimo viaggio in treno in un afoso tardo pomeriggio estivo. Stavamo per raggiungere la stazione ormai. E così ero stato "costretto" a partire insieme al mio amico. Non riuscivo solo a capire come avessi fatto ad addormentarmi in quel modo: non ero particolarmente stanco in quel periodo. Fatto sta che mi ero appisolato, avevo fatto un brutto sogno ed ero quasi arrivato dove non sarei voluto andare. O forse si, forse in maniera inconscia desideravo partire, per staccare un po' e cercare di dimenticare. Forse, probabilmente, era meglio così.
Ripensandoci, doveva per forza essere stato un sogno. C'erano troppe cose che erano rimaste in sospeso, troppe domande senza risposte, troppi dubbi… si, mi ero convinto, non c'era altra spiegazione.
"Forza, muoviamoci, che tra poco dobbiamo scendere", disse il padre ai due fratellini, "Marco, raccogli le tue figurine! E tu Davide aiutalo!", aggiunse.
Rimasi per un attimo immobile, il battito cardiaco del mio cuore aveva prima perso un colpo e poi accelerato violentemente, come se volesse recuperarlo. L'adrenalina salì fino a solleticarmi la gola. Se si era veramente trattato di un sogno, come mai conoscevo il nome di quel bambino. Adesso le certezze che fino a qualche secondo prima ritenevo ben salde cominciavano a vacillare.
La famiglia passò accanto ai nostri posti in direzione dell'uscita. Davide mi fissò per alcuni secondi con un'espressione indecifrabile sul volto, forse come se volesse farmi capire qualcosa. Poi mi mostrò il suo pupazzetto giallo.
Infilai la mano in tasca e tirai fuori il mio Packo, osservando ormai senza stupirmi il ghigno demoniaco del pupazzetto.
Un racconto di Pietro De Bartolo
Inviato il 28 giugno 2001
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Un militare, appoggiato il suo grosso zaino ai piedi, scrutava pensoso la macchinetta obliteratrice indeciso sull'opportunità o meno di timbrare il suo biglietto. Una mamma teneva per mano il suo bambino piagnucolante.
"Non è giusto.", disse il bambino tirando su con il naso, "I miei amici a scuola ce l'hanno tutti…"
"Non m'importa niente dei tuoi amici. Ho detto di no e basta!", lo rimproverò la madre, " E se non la finisci le prendi!".
Una coppia di adolescenti si teneva per mano e si dirigeva a passi lunghi e svelti verso la biglietteria. Gli zaini in spalla e i giubbotti di jeans arrotolati alla vita. Lei indossava una maglietta di un gruppo metal, i Dark Tranquillity. Lui una con la scritta "Se tutto ti va bene, non spaventarti: non durerà!".
Li stavo osservando da sotto i miei occhiali da sole, dimentico ormai del libro che stavo sfogliando qualche minuto prima. Il mio amico era andato in edicola per comprare qualche fumetto per il viaggio. Mi aveva chiesto di accompagnarlo alla stazione ed ora gli stavo controllando i bagagli per evitare che glieli rubassero una seconda volta, come gli era capitato qualche mese prima. Lo vidi arrivare, tutto trafelato e sudaticcio per il gran caldo.
"Uhff! Che caldo! E che coda! ", disse, " Ho dovuto aspettare dieci minuti un tizio che probabilmente non sapeva neanche lui cosa comprare…"
Tirò fuori dalla tasca del marsupio un fazzoletto con il quale si asciugò la fronte imperlata dal sudore.
"Ho controllato, il treno è sul binario tre. Muoviamoci, ti aiuto ad accomodare i bagagli", dissi riponendo il libro nel mio zaino. Raccolsi due borsoni e mi diressi verso il treno seguito dal mio amico.
Salimmo su di un vagone e, una volta trovato un posto libero, iniziai a mettere le borse in ordine sul portabagagli, non prima di essermi tolto gli occhiali da sole, in modo che non gli cadessero sulla zucca alla prima curva. Nonostante fosse quasi estate non c'era molta gente. Vi erano parecchi buchi vuoti tra i sedili. Fra i passeggeri notai la coppia di poco prima. Lei era seduta accanto al finestrino e guardava fuori, mentre lui avevo la testa girata dall'altra parte. Entrambi avevano il viso corrucciato, come se avessero appena litigato.
C'era poi un uomo sulla trentina che nonostante il gran caldo si ostinava a tenere la sua giacca. Aveva sulle ginocchia una ventiquattrore che ogni tanto apriva, ne tirava fuori un'agenda sulla quale scriveva qualcosa e poi la riponeva con cura all'interno.
Passai lo sguardo sulla sinistra ad osservare una famigliola composta dai genitori e da due bambini che all'inizio credevo gemelli. Ad una più attenta osservazione scoprii essere solamente molto somiglianti. Probabilmente la differenza di età fra di loro era minima.
Dietro di essi vi era un ragazzo con una tuta azzurra e delle scarpe da ginnastica. Sul petto vi era scritto il nome della squadra alla quale apparteneva: Polisportiva Tracer.
"Sei proprio deciso, allora", mi disse il mio amico, "Guarda che sei ancora in tempo…"
"No, è meglio di no…", risposi. Non feci in tempo a finire la frase che il treno iniziò a muoversi.
"Te l'avevo detto che saresti venuto anche tu", mi disse con un sorriso beffardo sul volto.
"Ma porca miseria! E' partito con cinque minuti d'anticipo!", risposi seccato.
"Tanto adesso devi per forza seguirmi", continuò lui.
"Non è detto, potrei scendere alla prima fermata". Una smorfia di irritazione si disegnò sul mio volto e questo convinse il mio amico a desistere con l'ironia. Capì che non era giornata, come molte altre in quel periodo.
Guardai attraverso il finestrino. Il treno era ormai quasi del tutto fuori dalla stazione ed i primi campi apparivano all'orizzonte. Restai affascinato per qualche secondo dal colore intenso di quella scena. Non erano semplicemente verdi. Il sole estivo si rifletteva su di essi marcando l'intensità cromatica che, unita all'altrettanto intenso colore del cielo, rendeva il quadro perfetto nella sua semplicità. Mi sedetti accanto a lui rassegnato al pensiero di questo viaggetto di pochi minuti non previsto. Iniziai a sperare che non passasse il controllore. Ci voleva proprio una bella multa per completare la giornata.
"Te lo chiedo per l'ultima volta: poi, lo giuro, non ti rompo più. Sicuro che non vuoi venire?", mi chiese, " E' un modo per distrarsi…"
"No", risposi categorico. Mi uscì più deciso di quanto in realtà volessi e ciò m'indusse a fare un sorriso rassicurante al mio amico.
Il tragitto che il treno avrebbe fatto per arrivare all'altra stazione della mia città era molto breve, sarebbero bastati pochi minuti. Nonostante ciò socchiusi gli occhi, disturbati dai raggi di sole, provando un grosso sollievo: non avevo le lenti scure. Mi inumidii le ormai secche labbra con la lingua ed in men che non si dica mi assopii, cullato dal leggero e piacevole movimento provocato dal treno.
Riaprii gli occhi pochi minuti dopo, svegliato dal pianto di uno dei due bambini. Eravamo quasi giunti in prossimità della stazione alla quale sarei dovuto scendere.
"Che abbiocco! Mi sono addormentato", dissi rivolto al mio amico, il quale era intento a leggere il fumetto che aveva comprato poco prima. Distolse lo sguardo dalle pagine di "Julia" e mi rivolse uno scarno sorriso, misto a rassegnazione.
"Ne abbiamo già parlato.", dissi sospirando e cogliendo al volo la sua espressione, "Ci sono momenti particolari nella vita di ognuno di noi in cui si sente il bisogno di rimanere soli".
Effettivamente, come diceva un altro amico, quando la tristezza cade in fondo al cuore è difficile da raccogliere. In questo periodo trovavo questa frase molto condivisibile.
Il mio amico rimase per qualche secondo a fissarmi con un'espressione interrogativa stampata sul volto, come se non avesse capito quello che gli avevo detto. Poi riprese a leggere come se nulla fosse. Mi girai e vidi i due bambini seduti composti uno accanto all'altro. Le mani appoggiate ai braccioli dei sedili e lo sguardo fisso davanti a loro. Pensai che anch'essi fossero prossimi all'addormentarsi. Nessuno parlava, c'era un silenzio innaturale e l'unico rumore udibile era quello prodotto dal treno in corsa.
Feci un cenno di saluto al mio amico, il quale mi rispose con un lieve spostamento dall'alto al basso della testa. Il mio sguardo si posò sul finestrino accanto a lui. Notai che mancava la maniglia per tirarlo giù.
"Hai beccato un finestrino rotto", dissi al mio amico, "sarà meglio se ti sposti. Tra poco il sole inizierà a battere forte", aggiunsi.
Il mio amico non mi rispose e continuò tranquillamente a leggere il suo fumetto. Alzai le spalle, si sarebbe aggiustato lui. D'altronde non ero io che sarei rimasto sotto il sole cocente e senza un minimo di aria. Mi avvicinai alla porta di uscita. Il treno era arrivato alla stazione.
"Signore…", mi sentii tirare i pantaloni da dietro, "mi aiuta a tirare giù il finestrino, per favore?". Mi girai e vidi uno dei due bambini che mi osservava con ancora in mano un lembo dei miei jeans.
"Devo scendere, mi dispiace.", gli dissi, "Chiedilo ai tuoi genitori".
"Ma stanno dormendo, ci ho già provato", mi rispose. "Anche mio fratello dorme e io ho caldo", aggiunse.
Gli rivolsi un sorriso che voleva essere un "mi dispiace" e spostai lo sguardo verso la porta di uscita. A quel punto rimasi interdetto per qualche secondo. Anche qui mancava la maniglia. Mi voltai dall'altra parte e vidi la porta di fronte, anch'essa priva di un qualsiasi appiglio, anche semplicemente di quello per reggersi. Raggiunsi a passi lunghi e svelti l'altro capo del vagone ma pure le altre due porte erano fatte allo stesso modo.
"Ma cosa…", dissi, ormai madido di sudore. Cercai la porta per passare in un altro convoglio, ma non vidi nulla. Girai lo sguardo verso la parte opposta del vagone. Ritornai dalla parte in cui ero salito dalla quale avevo provato a scendere. Niente porta di comunicazione.
Il treno intanto non accennava a rallentare, anzi la velocità aumentò sempre di più, fino a quando in pochi istanti vidi la stazione che si allontanava e diventava sempre più piccola fino a sparire del tutto dal mio sguardo. Un rivolo di sudore mi scivolò dalla fronte e lo asciugai con la manica della maglietta. Istintivamente infilai la mano nella tasca dei jeans a cercare il mio portafortuna: uno di quei pupazzetti gialli di forma vagamente ovaleggiante, omaggio di un sacchetto di patatine. Me l'aveva dato una mia amica e da allora lo portavo sempre con me. Solo quando lo toccai con l'indice ed il medio riuscii a calmarmi.
Mi avvicinai nuovamente al finestrino accanto al mio amico, che evidentemente non si era accorto di niente e continuava a leggere il suo stramaledetto fumetto. Notai che il finestrino non era rotto. La maniglia per aprirlo non esisteva proprio, come se non ci fosse mai stata e fosse stato costruito in questo modo. Spostai lo sguardo sugli altri finestrini ottenendo lo stesso risultato visivo. Ero pronto a scommettere che anche le porte erano fatte allo stesso modo.
Bingo! Complimenti signore, lei ha vinto!!! Din-din-din!!!
Intanto il bambino era sempre alle mie spalle, mi aveva seguito durante tutto il tragitto che avevo fatto avanti ed indietro all'interno del vagone.
"Ho caldo", ripeté guardandomi negli occhi.
"Ma che cazzo sta succedendo?", chiesi quasi fra me, " Siediti per favore!", quasi urlai rivolto al bambino.
Lui si voltò e se ne andò verso i suoi familiari dicendo qualcosa fra sé. Non riuscii a capire cosa e poco mi interessava in questo momento.
"Ce l'ho anche io quel Packo!", disse il bambino sedendosi accanto al fratello più grande. Questa volta riuscii a sentirlo, nonostante fosse a qualche metro di distanza da me ed avesse parlato con un tono di voce prossimo al bisbiglio, come se stesse raccontando un gran segreto ai suoi familiari.
Come diavolo aveva fatto a capire che cosa stessi toccando all'interno della tasca dei miei pantaloni. Lo osservai mentre tirava fuori dalla tasca anteriore del suo marsupio uno dei quei pupazzetti gialli. Era identico al mio. Lo prese tra pollice ed indice ed inizio a guardarlo controluce, come se volesse capire se l'interno contenesse qualche cosa.
In quel momento una strana sensazione si impadronì di me. Una sorta di miscuglio fra incredulità e paura per la situazione quasi kafkiana che si era venuta a creare. Non riuscivo bene a capire quale fosse il confine tra il sogno e la realtà. Se non fosse stato per il mal di testa che iniziava a farsi sentire pulsando violentemente nelle mie tempie, avrei giurato di essere in preda ad un sogno. Anzi un incubo. Il caldo che filtrava attraverso i finestrini serrati era sempre più opprimente. Nessuno dei passeggeri accennava ad uscire da quello stato in cui era piombato. Tranne il bambino. Mi avvicinai a lui, scoprendolo sempre intento nella contemplazione del suo pupazzetto, del tutto identico al mio.
"Hai idea di quello che sta succedendo?", gli chiesi. Lui alzò lo sguardo su di me, appoggiando la mano in cui teneva il giocattolino sul bracciolo della poltrona.
"Non lo so.", mi rispose, "Non riesco a svegliare i miei genitori e mio fratello…", aggiunse poi. Mi fece un mezzo sorriso, probabilmente anche lui era consapevole del fatto che eravamo gli unici a non essere in quello stato di incoscienza e che quindi eravamo in qualche modo "legati". Il motivo di tutto questo, però, ci sfuggiva.
Provai a scuotere il padre del bambino, un uomo con una lunga barba ormai ingrigita dal tempo, il quale teneva gli occhi chiusi e non accennava minimamente a svegliarsi dal suo stato. Decisi di desistere.
"Come ti chiami?", mi rivolsi nuovamente al bambino.
"Davide!", mi rispose fiero.
"Va bene, Davide. Dobbiamo cercare di raggiungere un altro vagone", dissi.
Lui mi fissò con un'aria interrogativa, inarcando le sopracciglia verso l'interno. Gli si formarono delle pieghe sulla fronte che partivano dal centro, al di sopra del naso, fino a formare una sorta di ventaglio.
"Non lo so neanche io in che modo", lo anticipai.
Guardai fuori dal finestrino e vidi la campagna che sfilava via veloce. Le poche fattorie che di tanto in tanto si vedevano sparivano in pochi secondi. In quel momento il treno parve rallentare. Guardai negli occhi Davide leggendo la stessa impressione. Evidentemente ci stavamo avvicinando ad una stazione ferroviaria.
La corsa del treno procedeva sempre più al rilento e la velocità era sempre minore. La campagna era ormai quasi del tutto sparita ed i binari che correvano a fianco al nostro si facevano sempre più numerosi, ad incrociarsi come immense e gigantesche catene di amminoacidi. Non riuscivo, nonostante cercassi di osservare tutto con estrema attenzione, a scorgere il benché minimo cartello che indicasse la località in cui eravamo arrivati. Uno stridere rumoroso ci annunciò che il treno stava aveva appena frenato ed ora era immobile al centro di quella stazione deserta. Non vi era nessuno e il rumore tipico delle stazioni era assente. Non un treno che partisse o uno che giungesse, a parte il nostro. Non un capostazione, un bigliettaio o semplicemente un passeggero. Niente di tutto questo. Mi avvicinai alla porta di uscita cercando con lo sguardo il martelletto per rompere il vetro in caso di emergenza. Trovai l'alloggiamento. Vuoto, naturalmente.
In quel momento sentivo la rabbia, unita all'angoscia ed alla paura, che stava crescendo sempre di più dentro di me. Fino a quando il vulcano eruttò e noncurante della caviglia malandata tirai un calcio, anche se non molto convinto, verso la porta. Fortunatamente non ci misi molta forza. Nel momento stesso in cui appoggiai il piede, la porta si aprì come se non fosse mai stata chiusa, come se fosse semplicemente "appoggiata".
Riuscii a tenermi, rimanendo in bilico per diversi istanti, ad una barra attaccata alla parete.
Una ventata calda mi accarezzò il viso, quando misi piede a terra. La stazione era effettivamente deserta e non un rumore si sentiva. Sembra una di quelle piccole stazioni di qualche paesino sperduto tra le montagne in una afosa domenica pomeriggio. Mi guardai attorno cercando qualcosa che probabilmente sapevo già di non trovare: una persona sveglia. Non ero in grado di comprendere cosa stesse succedendo, ma gli effetti erano molto ben visibili ed intuibili. Il mio sguardo si posò sul treno che ci aveva condotto fin qui. Rimasi senza fiato per alcuni secondi, senza riuscire a formulare un pensiero che non mi facesse credere di essere ormai prossimo alla pazzia. Il treno era in realtà il vagone. Non c'era nessuna locomotiva e la nostra era l'unica carrozza. Sembrava un vagone parcheggiato in un binario morto. Dalla porta fece capolino la piccola figura di Davide che mi osservava con aria interrogativa. Scese dal treno ed iniziò a gironzolare di qua e di là per la stazione. Entrai in sala d'aspetto e vidi una decina di persone sedute, ovviamente tutte addormentate. Persino un cucciolo di cocker dormiva ai piedi della sua padrona. Adesso la paura prese decisamente il sopravvento sull'incredulità per la situazione. Me la stavo letteralmente facendo sotto. Andai verso la biglietteria e trovai la stessa scena dappertutto. Impiegati, ferrovieri, facchini… tutti nel mondo dei sogni. A quel punto decisi di provare ad uscire dalla stazione. Dovevo trovare qualcuno sveglio. Era impossibile che tutti fossero nella medesima situazione. Io e Davide eravamo forse le uniche persone sulla terra a non dormire in quel momento?
La piazza principale sulla quale si affacciava l'entrata della stazione era piuttosto grande per un paesino di provincia. Al centro vi era una bella fontana che rappresentava una serie di tre putti posti in modo triangolare dalle cui anfore scaturiva l'acqua, che andava poi a riempire una vasca circolare del diametro di cinque metri circa. Nell'insieme non era sicuramente uno di quei capolavori d'arte che avrebbero fatto affluire tanti turisti.
Vi era naturalmente il "Bar della Stazione", come in ogni piccolo agglomerato urbano che si rispetti. Entrai dentro e vidi tre o quattro clienti seduti ai tavolini, ognuno con una tazzina di caffè davanti ancora piena. Due erano seduti invece agli sgabelli del bancone uno con un cappuccino ed una brioche accuratamente avvolta in un tovagliolo di carta e l'atro con un bicchiere quasi vuoto di succo d'arancia. Sembrava quasi che tutti fossero stati colti dal sonno al momento della colazione. E la cosa strana che avevo già notato alla stazione era che nessuno era a terra. Se si fosse trattato di una cosa improvvisa qualcuno avrebbe per forza dovuto essere in piedi. Invece erano tutti comodamente seduti, come se fossero in attesa. Solo in quel momento mi accorsi che il mio mal di testa era sparito. Un leggero venticello entrava dalla porta accarezzandomi il viso e procurandomi una sensazione piacevole al contatto con pelle sudata, visto il caldo di quel pomeriggio. Uscii dal locale e vidi Davide intento a guardare all'interno di una Opel Corsa di un colore che mai avevo visto prima: un viola molto tenue, con una tonalità che dava quasi sul blu chiaro. Mi avvicinai.
"Dormono anche loro.", mi disse indicandomi l'interno. Vi era una coppia di anziani, seduti in maniera molto composta e ognuno con la propria cintura ben allacciata.
"Si, ho visto.", risposi. Il vento intanto aumentava di intensità. Adesso era veramente forte. Le cartacce sparse per terra iniziarono a volare di qua e di là come piccolissimi aquiloni sorretti da fili invisibili. Le porte dei vari negozi iniziarono a sbattere violentemente e dai tetti iniziarono a cadere alcune tegole.
"Torniamo in stazione!", urlai a Davide. Il vento era diventato talmente forte che non riuscivo nemmeno a sentire la mia voce. Il bambino, infatti, non riuscì ad udire le mie parole. Alzai lo sguardo e vidi il cielo più nero che avessi mai visto o anche solo immaginato. Mi avvicinai ulteriormente a Davide e, con estrema fatica lo presi per un lembo di maglietta. Lui si girò verso di me e, senza staccare le mani dalla portiera della macchina, mi rispose con uno sguardo interrogativo. Gli indicai con l'indice l'entrata della stazione e dopo qualche secondo si decise a seguirmi. Faticammo non poco a raggiungere la stazione. Anche al suo interno la situazione non era migliore. Il vento, anzi, pareva sempre più potente. Le prime crepe iniziarono a formarsi sui muri. Decidemmo di risalire sul vagone e di aspettare che la bufera calasse un po' di intensità. Riuscimmo a richiuderci la porta alla nostre spalle. In quel momento la maniglia c'era. Non feci in tempo a stupirmi che qualcosa di altrettanto, o forse più stupefacente, accadde proprio sotto i nostri occhi.
La maniglia si sparì letteralmente nel nulla lasciando la porta nello stato in cui l'avevo trovata solo pochi minuti prima. Niente congegno per l'apertura, niente appiglio.
Un boato sovrastò il pur forte rumore del vento: una parte del muro laterale dell'edificio della biglietteria franò in una nuvola di polvere che subito si dissolse nel vento, lasciando a terra un cumulo di macerie e di detriti.
Proprio in quell'istante il treno, o meglio il vagone, iniziò nuovamente a muoversi prendendo sempre più velocità fino a far diventare un puntino all'orizzonte la stazione.
Mi accasciai alla poltrona respirando affannosamente, come quando si è fatto una lunga corsa. La campagna si estendeva ai lati del treno per chilometri e chilometri. Il sole iniziava ormai ad essere meno intenso e le ombre ad allungarsi. Non avevo più voglia di fare il supereroe, non era assolutamente da me. Il mio desiderio, in quel momento, era di essere una delle persone addormentate. Essere svegli, adesso, era peggio della morte probabilmente. Cercai di estraniarmi da tutto, provando in tutti i modi ad addormentarmi come era successo qualche ora prima, cullato dal ritmico movimento del treno.
Cosa che ovviamente non mi riuscì.
Ormai in quella situazione non ci vedevo più niente di razionale. Prendevo ogni nuovo avvenimento senza più stupirmi, quasi come se fosse tutto assolutamente normale. Davide si era seduto al suo posto. Non avevo ancora capito che ruolo potessimo avere noi due in quella vicenda. Eravamo noi i destinati alla salvezza del mondo intero? Probabilmente avevo letto troppi libri. Ma questa sembrava veramente una situazione degna di un romanzo horror. Il pomeriggio schizzava via attraverso i finestrini andando a mischiare le varie tonalità di colore fino a fonderle e a crearne una nuova, frutto della miscelazione di tutte le altre. Una colorazione indefinita ma che sicuramente non presagiva niente di buono. Ed intanto il vagone viaggiava sempre più spedito in direzione di chissà quale destinazione.
"Non riuscirai ad addormentarti", disse Davide. La sua voce arrivava a me quasi ovattata, ma bastò la comprensione della frase a farmi ritornare pienamente padrone di me stesso. Una cosa era certa: quel bambino aveva delle doti che mi rifiutavo di aggettivare come paranormali ma che, nello stesso tempo, non riuscivo a definirle in nessun altro modo.
"Noi non possiamo dormire", aggiunse ancora. Mi avvicinai a lui e lo vidi seduto accanto al fratello. Gli occhi spalancati a fissare chissà che cosa in un punto indefinito davanti a lui. Lo chiamai per nome.
"Noi non possiamo dormire", ripeté nuovamente. Sembrava in uno stato di trance. Iniziò a sudare vistosamente. Non sapevo assolutamente cosa fare. Continuava a ripetere quella frase all'infinito, come uno di quei malati di mente che avevo visto una volta in un documentario alla televisione. Andai nuovamente a cercare il pupazzetto con le dita. Lo tirai fuori dalla tasca. L'usura del tempo stava facendo venire via il bianco degli occhi, che adesso presentavano alcune piccole chiazze gialle. Notai qualcosa di diverso. Non c'era più quel sorriso che mi aveva ispirato tanta simpatia quando la mia amica me lo aveva regalato come portafortuna. Al suo posto vi era un sogghigno che aveva un qualcosa di inquietante. Istintivamente lo riposi in tasca, non avevo più la voglia e la forza di chiedermi il perché delle cose.
Intanto il vento era ancora aumentato di intensità. Era talmente forte da far sussultare il vagone che intanto procedeva ad una velocità sorprendente anche per un treno ultraveloce, figuriamoci per un vagone che da solo non avrebbe dovuto fare neanche un metro.
Il movimento sussultorio era sempre più marcato, tanto che temetti che la carrozza si potesse rovesciare da un momento all'altro. A stento riuscii a raggiungere il posto accanto al mio amico. Il cuore mi batteva a mille, e la sua velocità andava di pari passo con quella del treno. Aumentava sempre di più.
Aprii gli occhi con uno sforzo immenso. Il sole era decisamente basso. Alzai lo sguardo in direzione del mio amico, che mi rispose con un debole sorriso ed un cenno del capo.
"Ti sei fatto una bella dormita", mi disse. Lo guardai per alcuni istanti durante i quali mille pensieri attraversarono la mia mente. Possibile che si fosse trattato di un sogno?
"Per quanto tempo ho dormito?", gli chiesi.
"Poco più di due ore.", rispose lui. Era intento a far fuori un sacchetto di patatine. Le rivolse verso di me con un'espressione interrogativa. Declinai l'offerta.
"Dove siamo?", feci con una punta di fastidio. Non tanto per il fatto di essere in viaggio, ma quanto per la sensazione che provavo.
"Siamo quasi arrivati.", mi disse, "Ormai devi venire con me".
"E il biglietto?", domandai.
"Mentre dormivi è passato il controllore e l'ho fatto. ", rispose, "Eccolo qui.", aggiunse tirando fuori dalla tasca anteriore del suo zaino un foglio piegato in due parti, che poi ripose accuratamente.
Eppure mi era sembrato tutto così reale: la paura, le porte senza maniglie, la stazione, il paesino, il bar…
Mi guardai attorno. Alcune persone che avevo notato alla partenza erano già scese. Non c'erano più l'atleta e l'uomo in giacca e cravatta. La famiglia con i due bambini, invece, era ancora al proprio posto, così come la coppia di adolescenti. Evidentemente si erano rappacificati, poiché stavano discutendo serenamente. I due fratellini, invece, stavano probabilmente giocando a figurine. Avrei però potuto scommettere che non si trattava di calciatori ma di personaggi di cartoni animati.
Sembrava tutto assolutamente normale. Un tranquillissimo viaggio in treno in un afoso tardo pomeriggio estivo. Stavamo per raggiungere la stazione ormai. E così ero stato "costretto" a partire insieme al mio amico. Non riuscivo solo a capire come avessi fatto ad addormentarmi in quel modo: non ero particolarmente stanco in quel periodo. Fatto sta che mi ero appisolato, avevo fatto un brutto sogno ed ero quasi arrivato dove non sarei voluto andare. O forse si, forse in maniera inconscia desideravo partire, per staccare un po' e cercare di dimenticare. Forse, probabilmente, era meglio così.
Ripensandoci, doveva per forza essere stato un sogno. C'erano troppe cose che erano rimaste in sospeso, troppe domande senza risposte, troppi dubbi… si, mi ero convinto, non c'era altra spiegazione.
"Forza, muoviamoci, che tra poco dobbiamo scendere", disse il padre ai due fratellini, "Marco, raccogli le tue figurine! E tu Davide aiutalo!", aggiunse.
Rimasi per un attimo immobile, il battito cardiaco del mio cuore aveva prima perso un colpo e poi accelerato violentemente, come se volesse recuperarlo. L'adrenalina salì fino a solleticarmi la gola. Se si era veramente trattato di un sogno, come mai conoscevo il nome di quel bambino. Adesso le certezze che fino a qualche secondo prima ritenevo ben salde cominciavano a vacillare.
La famiglia passò accanto ai nostri posti in direzione dell'uscita. Davide mi fissò per alcuni secondi con un'espressione indecifrabile sul volto, forse come se volesse farmi capire qualcosa. Poi mi mostrò il suo pupazzetto giallo.
Infilai la mano in tasca e tirai fuori il mio Packo, osservando ormai senza stupirmi il ghigno demoniaco del pupazzetto.
Un racconto di Pietro De Bartolo
Inviato il 28 giugno 2001
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