La piazzetta
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La piazzetta
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A sera, quando gli squilli di tromba del "Carosello" echeggiavano nitidi nell'aria placida e i richiami cantilenanti dei vigili genitori si sperdevano cheti alle note vagabonde, la piazzetta stava lì, sparuta e attorta in una ombrosa verzura, tra l'ergersi del cemento degli edifici cui il pallor di luna settembrino gli conferiva, in particolari motivi di riverbero, come un'imbiancatura esteriore. Vetuste e malandate panche di
marmo stavano a giro, davanti a cintate aiuole; quelle, come stanchi guerrieri ormai dediti soltanto a compiti sociali, facean la guardia alla
minuta e nera fontanella, queste, variopinte e aggruppate a tratti sulla smossa terra, stiravano i loro talami all'indietro, al reptante, caduco
incedere, soffio eolico.
Era, la fontanella, relegata in un cantuccio, accanto al vivace chiosco delle bibite dove il sig. Lo Vecchio, trafficando dietro il bancone, tra il
tintinnio di bicchieri e sguazzo di liquidi, schizzava seltz con senile mano esperta: a destra e a manca, di getto, ove bollicine turbinose salivano fragorosamente dai fondi dei bicchieri per indi colmarsi e spegnersi in uno svampito spumoso. Una punta di sale, un mulinare il cucchiaino, e la bocca era tutto un salivare e un inghiottire. E noi mocciosi, aggrappati con le punta delle dita al bordo del bancone, affacciando appena il minuto capo, scrutavamo avidamente, con vispi occhi mobili, tale affaccendarsi, indovinando in cuor nostro il gusto acre della bibita. Allora l'ossuta figura del sig. Lo Vecchio, da là dal banco, si chinava verso di noi, e mostrando l'oblungo e scarno viso solcato, che gli si stendeva ad accenno di sorriso, ci diceva: "Aviti siti, ahh?, picciriddi!".
E a queste parole scompariva dietro il banco per ricomparire subito dopo, sempre con quella letizia stampata in viso, porgendoci due bicchieroni colmi di seltz in mano.
Quanto era bello il seltz del sig. Lo Vecchio!
Intanto la piagnucolosa voce di "Calimero" sgattaiolava sinuosa dagli intermezzi delle serrande, e fluttuando semovente nell'etere, lungo
direttrici ben delineate, scandiva con efficacia il suo verbo nella piazza: ".Ve ne approfittate perché sono piccolo e nero.o Ava come lava." E tutti lì ad ascoltare, ad intercalare il motivo dell'amato ritornello. Si attendeva il prossimo rintocco del "Carosello"; ma non era certo cosa di poco conto lasciare lì per lì il "caricabbotti e viri ca vegnu. arrivai", proprio quando Valerio il ciccione stava per salire in groppa alla predestinata "pecora" per starci a cavalcioni contando fino a dieci. Era anche questo uno spettacolo di rilevante interesse! E noi mocciosi, scommettevamo tutti che al "dieci" la pecorella l'avremmo raccolta bocconi da terra, magari con la lingua di fuori e il viso paonazzo. Mamma mia quanto pesava Valerio il Ciccione! Suo padre gestiva una bottega di macelleria e ben nutriva i suoi figlioli. Tutti uguali in famiglia e tutti in carne, dal più piccolo al più grande: viso rotondo, gote chiazzate di rosso, prominenti e cascanti, naso schiacciato e occhi cinesini che, facendo il paio con le labbra strette e sottili, conferiva loro tutti un aspetto da down.
Eppure, a volte, i giochi erano interrotti, e giù ad affrettarsi per vedere il "Carosello". In casa, si prendeva posto in un canto, magari accovacciati sul tiepido pavimento. Colli dritti e visi puntati al tubo catodico, allora incipiente istruttore di coscienze. Tutto, però, era umile a quei tempi, di un'umiltà intrisa di un tardo romanticismo consono dell'epoca, di quegli anni sessanta dove giocare a pallone per strada era un segnale di vita sana e sicura. Nessuna vettura poteva transitare oltre al nostro cospetto: se si doveva "tirare la punizione di prima". La palla era ben piazzata, sistemata a due mani, accuratamente, magari puntellata da pietrisco, mentre alcuni si occupavano che le macchine fossero effettivamente ferme; e poi tutti in rigoroso silenzio, persino i conducenti dei veicoli, che pregustavano l'azione calcistica. E quando il "tiro" veniva finalmente scoccato, urla e commenti fioccavano all'unisono, i veicoli potevano riprendere la loro marcia e i guidatori pigiavano sui loro chiassosi clacson.
Erano i tempi di Gianni Morandi e Rita Pavone, degli autoscontri alla giostra, dove il sapore della "calia" e semenza abbrustolita ti entrava
diritto al cuore. Tempi in cui se entravi nella "putia do' zu Saru" venivi invaso da una miriadi di odori, dal pungente effluvio delle uova bollite, al
piccante fragore dei carciofi arrostiti, dall'esalazione pregnante del buon vino, alla divina visione di una bistecca rosso sangue. E che dire di quelle minestre fumanti le cui scie rasentavano le nari di ogni povero mortale?
Persino il trillare delle posate sui piatti aveva un suo suono caratteristico: ad ogni echeggiar d'armi, si espandeva altresì il buco che
avevi allo stomaco per la fame. Allora non ti rimanevano che soltanto due soluzioni: o svenire, rovinando disteso lungo per terra, o addentare ivi qualcosa: magari un uovo bollito, che giacché caldo e infine sbucciato con cautela, sarebbe certo danzato sui polpastrelli di mano in mano, accompagnato da ripetuti soffi con la bocca.
Di tra le aiuole, fronzuti alberi dai bassi rami penduli, parean tentacoli tesi di orribili mostri che, animati nell'ombra, tentavano di agguantare
nelle loro spire qualunque cosa si muoveva attorno a loro: fosse questo il felpato passo di gattino randagio, dal pelo irto e ingobbito sulla schiena, fosse questa l'anima planante d'un infante, smarritasi nel crocicchio della sua realtà fantastica. Nella piazza, la chiazza di luce artificiale riverberata dai ricurvi lampioni e le zone d'ombre sparse qua è là, sembravano delimitare il confine di due eserciti contrapposti e ben delineati tra loro: le forze del bene e quelle del male. Il nemico da combattere ovviamente stava di là dalla chiazza di luce, e si materializzava nelle nere figure mobili della vegetazione; mentre nell'occhio di bue di luce le forze del bene si organizzavano per dar battaglia, spinte dall'incedere del vento che squassava tutto l'ombroso fogliame.
La piazzetta oggi sta ancora lì, tra l'imperversare del cemento, inghiottita da un nugolo di veicoli e annientata dall'aleggiare dei gas di scarico; non c'è più il sig. Lo Vecchio e la gente sembra diversa, frenetica e non più disposta ad ascoltare gli echi dissipati lungo le strade: non si ode più il cigolar del vecchio carro del carbonaio, o il cantilenare dell'amico arrotino.
E' la fine di un sogno?
marmo stavano a giro, davanti a cintate aiuole; quelle, come stanchi guerrieri ormai dediti soltanto a compiti sociali, facean la guardia alla
minuta e nera fontanella, queste, variopinte e aggruppate a tratti sulla smossa terra, stiravano i loro talami all'indietro, al reptante, caduco
incedere, soffio eolico.
Era, la fontanella, relegata in un cantuccio, accanto al vivace chiosco delle bibite dove il sig. Lo Vecchio, trafficando dietro il bancone, tra il
tintinnio di bicchieri e sguazzo di liquidi, schizzava seltz con senile mano esperta: a destra e a manca, di getto, ove bollicine turbinose salivano fragorosamente dai fondi dei bicchieri per indi colmarsi e spegnersi in uno svampito spumoso. Una punta di sale, un mulinare il cucchiaino, e la bocca era tutto un salivare e un inghiottire. E noi mocciosi, aggrappati con le punta delle dita al bordo del bancone, affacciando appena il minuto capo, scrutavamo avidamente, con vispi occhi mobili, tale affaccendarsi, indovinando in cuor nostro il gusto acre della bibita. Allora l'ossuta figura del sig. Lo Vecchio, da là dal banco, si chinava verso di noi, e mostrando l'oblungo e scarno viso solcato, che gli si stendeva ad accenno di sorriso, ci diceva: "Aviti siti, ahh?, picciriddi!".
E a queste parole scompariva dietro il banco per ricomparire subito dopo, sempre con quella letizia stampata in viso, porgendoci due bicchieroni colmi di seltz in mano.
Quanto era bello il seltz del sig. Lo Vecchio!
Intanto la piagnucolosa voce di "Calimero" sgattaiolava sinuosa dagli intermezzi delle serrande, e fluttuando semovente nell'etere, lungo
direttrici ben delineate, scandiva con efficacia il suo verbo nella piazza: ".Ve ne approfittate perché sono piccolo e nero.o Ava come lava." E tutti lì ad ascoltare, ad intercalare il motivo dell'amato ritornello. Si attendeva il prossimo rintocco del "Carosello"; ma non era certo cosa di poco conto lasciare lì per lì il "caricabbotti e viri ca vegnu. arrivai", proprio quando Valerio il ciccione stava per salire in groppa alla predestinata "pecora" per starci a cavalcioni contando fino a dieci. Era anche questo uno spettacolo di rilevante interesse! E noi mocciosi, scommettevamo tutti che al "dieci" la pecorella l'avremmo raccolta bocconi da terra, magari con la lingua di fuori e il viso paonazzo. Mamma mia quanto pesava Valerio il Ciccione! Suo padre gestiva una bottega di macelleria e ben nutriva i suoi figlioli. Tutti uguali in famiglia e tutti in carne, dal più piccolo al più grande: viso rotondo, gote chiazzate di rosso, prominenti e cascanti, naso schiacciato e occhi cinesini che, facendo il paio con le labbra strette e sottili, conferiva loro tutti un aspetto da down.
Eppure, a volte, i giochi erano interrotti, e giù ad affrettarsi per vedere il "Carosello". In casa, si prendeva posto in un canto, magari accovacciati sul tiepido pavimento. Colli dritti e visi puntati al tubo catodico, allora incipiente istruttore di coscienze. Tutto, però, era umile a quei tempi, di un'umiltà intrisa di un tardo romanticismo consono dell'epoca, di quegli anni sessanta dove giocare a pallone per strada era un segnale di vita sana e sicura. Nessuna vettura poteva transitare oltre al nostro cospetto: se si doveva "tirare la punizione di prima". La palla era ben piazzata, sistemata a due mani, accuratamente, magari puntellata da pietrisco, mentre alcuni si occupavano che le macchine fossero effettivamente ferme; e poi tutti in rigoroso silenzio, persino i conducenti dei veicoli, che pregustavano l'azione calcistica. E quando il "tiro" veniva finalmente scoccato, urla e commenti fioccavano all'unisono, i veicoli potevano riprendere la loro marcia e i guidatori pigiavano sui loro chiassosi clacson.
Erano i tempi di Gianni Morandi e Rita Pavone, degli autoscontri alla giostra, dove il sapore della "calia" e semenza abbrustolita ti entrava
diritto al cuore. Tempi in cui se entravi nella "putia do' zu Saru" venivi invaso da una miriadi di odori, dal pungente effluvio delle uova bollite, al
piccante fragore dei carciofi arrostiti, dall'esalazione pregnante del buon vino, alla divina visione di una bistecca rosso sangue. E che dire di quelle minestre fumanti le cui scie rasentavano le nari di ogni povero mortale?
Persino il trillare delle posate sui piatti aveva un suo suono caratteristico: ad ogni echeggiar d'armi, si espandeva altresì il buco che
avevi allo stomaco per la fame. Allora non ti rimanevano che soltanto due soluzioni: o svenire, rovinando disteso lungo per terra, o addentare ivi qualcosa: magari un uovo bollito, che giacché caldo e infine sbucciato con cautela, sarebbe certo danzato sui polpastrelli di mano in mano, accompagnato da ripetuti soffi con la bocca.
Di tra le aiuole, fronzuti alberi dai bassi rami penduli, parean tentacoli tesi di orribili mostri che, animati nell'ombra, tentavano di agguantare
nelle loro spire qualunque cosa si muoveva attorno a loro: fosse questo il felpato passo di gattino randagio, dal pelo irto e ingobbito sulla schiena, fosse questa l'anima planante d'un infante, smarritasi nel crocicchio della sua realtà fantastica. Nella piazza, la chiazza di luce artificiale riverberata dai ricurvi lampioni e le zone d'ombre sparse qua è là, sembravano delimitare il confine di due eserciti contrapposti e ben delineati tra loro: le forze del bene e quelle del male. Il nemico da combattere ovviamente stava di là dalla chiazza di luce, e si materializzava nelle nere figure mobili della vegetazione; mentre nell'occhio di bue di luce le forze del bene si organizzavano per dar battaglia, spinte dall'incedere del vento che squassava tutto l'ombroso fogliame.
La piazzetta oggi sta ancora lì, tra l'imperversare del cemento, inghiottita da un nugolo di veicoli e annientata dall'aleggiare dei gas di scarico; non c'è più il sig. Lo Vecchio e la gente sembra diversa, frenetica e non più disposta ad ascoltare gli echi dissipati lungo le strade: non si ode più il cigolar del vecchio carro del carbonaio, o il cantilenare dell'amico arrotino.
E' la fine di un sogno?
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