La noia
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La noia
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Fissava intensamente l’angolo sinistro del soffitto bianco.
Una sottile crepa zigzagava verso l’infisso della finestra chiusa creando uno strano arabesco: un profilo di donna, forse, no...no...una foglia trasportata dal vento, o meglio uno scarabocchio senza senso a cui la sua immaginazione stava attribuendo delle forme aliene.
Lo sguardo intento ad analizzare i dettagli di un luogo estraneo, la mente persa sulla scia di pensieri poco articolati, la percezione del mondo esterno offuscata, ottenebrata da una fitta coltre di disinteresse.
“Mi scusi”, un signore lo aveva urtato con una pesante ventiquattr’ore ingombra di scartoffie che tracimavano dalla bocca di pelle spalancata.Lo sorpassò senza voltarsi e si affrettò in direzione dell’unico sportello bancario funzionante.
Una signora poco più avanti osservò la scena con distacco continuando a sventolarsi con un improvvisato ventaglio di carta, un ragazzo entrò dalla porta di sicurezza, si guardò attorno con l’aria un po’ spaesata, prese dal distributore automatico un biglietto con impresso il numero che rappresentava il suo turno e gli si mise di fianco sorridendo.
“Che interminabile coda che c’è stamattina, non trova?” gli chiese con fare benevolo.
Jack tentò di abbozzare un sorriso di convenienza, ma improvviso ed intempestivo, il suo stomaco dette inaspettati segnali di cedimento.Si portò una mano davanti alla bocca serrata ed uscì precipitosamente dalla banca, tuffandosi nella porta d’uscita, miracolosamente aperta.
Una volta giunto in strada la nausea si dissipò rapidamente ed il suo cervello riprese a funzionare in maniera quasi consueta.
Che strano, pensò.
Non soffriva di nausea inattesa dai tempi dell’università, quando il diaframma ed i polmoni si ribellavano all’unisono non appena avvistava il docente fare il suo ingresso nell’aula, prendere l’esiguo foglio delle prenotazioni, ed iniziare l’appello per gli esaminati del giorno.
Camminava svelto nella direzione di casa, aveva un bel po’ di lavoro arretrato; doveva ancora terminare quattro strips per il quotidiano locale e mandare le bozze del suo ultimo albo alla Spell Comics per farlo revisionare da Allan prima della pubblicazione di mercoledì.
Il salone del suo appartamento odorava di fumo e di caffè, aveva trascorso la nottata a perfezionare alcuni quadri dell’ultima pagina del fumetto che aveva ideato quasi, o mio Dio, quattordici anni prima.
Spalancò la finestra, scostò le tende e fece entrare i raggi di un pallido sole autunnale; illuminata la stanza apparve in tutto il suo allegro e maniacale disordine: fogli sparsi sul pavimento, tazzine vuote abbandonate sui braccioli in legno del divano, diverse matite disseminate sul tappeto ed un turbine di tavole illustrate ben disposte sulla scrivania da disegno, sopra la quale troneggiava, saldamente appeso alla parete azzurra, un grande manifesto del suo eroe: “Dominus”.
Dominus era nato in una piovosa ed apparentemente sventurata notte d’agosto; Jack frequentava l’ultimo anno di filosofia e, per demeriti accademici e comportamentali, aveva perso il domicilio presso il campus, trovandosi costretto a trasferirsi in un piccolo loft ammobiliato in compagnia di un conoscente che lavoricchiava come chitarrista in un gruppo jazz. Gli studi progredivano a fatica, un eufemismo per dire che non compivano alcun progresso da diversi mesi, non si profilava all’orizzonte alcuna occasione occupazionale che potesse aprirgli lo spiraglio di una vita migliore, e, come ciliegina sulla torta, i rapporti con la sua ricca ed altolocata famiglia si erano definitivamente incrinati a causa delle sue intemperanze caratteriali, come soleva ripetergli all’epoca quella santa donna di sua madre.
Jonathan,il suo coinquilino, era rincasato sbronzo come non mai e si era abbattuto sulla poltrona letto senza prendersi l’incomodo di togliersi neppure le scarpe bagnate, e Jack si era ritrovato solo ed annoiato a fissare una crepa del soffitto (l’immagine della banca e del sorriso stereotipato del suo compagno d’attesa, gli tornarono alla mente facendo riaffiorare anche un principio di nausea che ricacciò da dove era venuto con un piccolo sforzo di volontà, e di esofago), d’improvviso prese una matita dal fondo di un lercio e malandato cassetto ed iniziò a vergare sul retro di uno stropicciato spartito musicale i tratti somatici di un uomo, in tutto e per tutto simili ad i suoi. Aveva sempre avuto una passione per la ritrattistica e per le arti figurative in genere, ma per assecondare le velleità accademiche della sua famiglia, si era trovato costretto a reprimere i suoi slanci creativi in vista di un futuro più dignitoso e sicuro.
La matita si muoveva agilmente sul foglio, gli occhi profondi, il naso aquilino, la bocca carnosa, la mascella volitiva, i folti capelli neri ricci ed arruffati, ed un’espressione di sfida che i suoi lineamenti non avevano mai assunto. Eccolo lì. Dominus, il genio del male, in tutto il suo beffardo e splendente sorriso.
Lavorò a quell’idea alacremente nei giorni seguenti, aveva la sensazione che le storie di loschi traffici, di assassini immotivati, di vendette efferate di cui si popolavano le tavole che disegnava, prendessero respiro per loro volontà, una sorta di varco nel nulla che la sua mente aveva creato per incanalare l’aggressività e la malvagità che non aveva mai avuto il coraggio di esprimere nel quotidiano.
Spedì le tavole del primo racconto ad una vicina casa editrice e fu la svolta.
Nulla che lo rendesse ricco e famoso, intendiamoci, ma Dominus vendeva bene, aveva il suo accolito di fans accaniti che seguivano fedelmente ogni sua avventura, e serviva bene allo scopo per cui, in fin dei conti, era stato creato: incanalare le energie in qualcosa di catartico e pagare l’affitto di un bell’appartamento e le rate di una macchina quasi di lusso.
E poi?
E poi...
E poi la sua vita si era arrestata.
Aveva avuto qualche esperienza sentimentale ben iniziata e frettolosamente conclusa; aveva avuto attimi di popolarità televisiva; aveva avuto qualche piccola soddisfazione personale e alcuni mesi di vita non comune, ma nulla più.
Le serate trascorse di fronte alla televisione si erano moltiplicate negli ultimi cinque anni; le scorribande in giro per locali notturni e per strade solitarie in compagnia di qualche giovane avvenente appena conosciuta, avevano perso quell’irresistibile interesse che aveva caratterizzato i suoi vent’anni, e parte dei trenta, e le pantofole indossate sotto i pantaloni da ginnastica avevano preso il posto degli stivali di pelle da finto cattivo che amava indossare per somigliare in qualche cosa al suo eroe: Dominus.
Dominus.
Già, lui non era cambiato nel corso di quei quattordici anni.
Sempre bello, accattivante, malvagio, invincibile, ironico, al centro dell’attenzione.
Si fermò dinnanzi al manifesto regalmente appeso sulla parete di fronte, fissò intensamente il volto magro e sorridente della sua creatura, con l’eterno giaccone di pelle che gli svolazzava attorno al torace atletico, e fu assalito dalla voglia improvvisa di accoltellarlo.
“Non è possibile” mormorò “sono geloso di un fumetto”.
Il telefono trillò scotendolo dalle sue elucubrazioni.
“Pronto?”.
“Jack Hamilton?”.
La voce dall’altro capo del filo era di una donna, sembrava giovane.
“Sì, sono io”.
“Buona sera, mi chiamo Amanda Jergens, sono del Tomorrow news di Denver, volevo sapere se era disposto a rilasciare un’intervista al mio giornale”.
“Sono molto occupato in questo periodo” rispose professionalmente Jack, ripescando dal fondo della memoria quel tono spocchioso e noncurante che gli veniva così bene nei primi anni di carriera, quando lui, il disegnatore, era più celebre del suo fumetto.
“Lo capisco benissimo signor Hamilton, ma vede il giornale per il quale lavoro ha in programma di pubblicare alcuni tra i più significativi albi della fumettistica americana degli ultimi dieci anni, corredati, ovviamente dalla biografia degli autori”.
“Se avete intenzione di annoverare Dominus nella vostra raccolta, dovete chiedere l’autorizzazione alla mia casa editrice, non a me, sono loro che si interessano di copy right e d’affari del genere”.
“Lo sappiamo signor Hamilton, abbiamo già ottenuto l’autorizzazione dalla Spell Comics”.
“Allora può avere da loro le note biografiche che le interessano”.
“Veramente preferirei farle un’intervista vera e propria, l’idea del Tomorrow news non è quella di dare delle scarne informazioni sugli autori, ma di metterli in relazione con i loro, come dire, prodotti artistici...”.
(Prodotti artistici) pensò Jack sorridendo (questa donna non ha la minima idea di chi sia Dominus), improvvisamente il sospetto che la sua interlocutrice ignorasse la sua creazione, lo mise di buon umore.
“Capisco, quindi vorrebbe rivolgermi delle domande inerenti...?”.
“Inerenti la sua personalità, la sua visione della vita, insomma...ci interesserebbe il punto di vista del creatore di Dominus, conoscere ciò che lo accomuna e ciò che lo rende differente dal personaggio che ha inventato.Poi, so che le sembrerà sciocco, ma io tengo particolarmente a farle quest’intervista”.
“Perché?”.
“Sono una grande ammiratrice di Dominus, non ho perso neppure uno degli albi che sono stati pubblicati, conoscerla personalmente equivarrebbe a realizzare un mio sogno”.
L’umore di Jack tornò esattamente quello che era prima della telefonata: funereo.
“Va bene, mi dica quando e dove”.
“Perfetto” esclamò lei ridendo “che ne direbbe di domani sera nel ristornate dell’hotel Sheraton?”.
“A che ora?”.
“Sette e mezzo?”.
“Ci sarò”.
Riagganciò il ricevitore e si sedette sul divano.
Accavallò le gambe poggiandole sul tavolino, dal quale caddero alcune riviste.
Si accese una sigaretta e ricominciò a fissare il soffitto.
Si rese conto che mentre tutto decresceva nella sua vita, affetti, svaghi, donne, creatività, una sola cosa si era ingigantita a dismisura: la noia.
Non guidava mai con la radio spenta.
Il silenzio nell’abitacolo della vettura sembrava divenire tangibile, solido, lo assaliva come uno strano senso di claustrofobia.
Accese il display a cristalli liquidi della sua vecchia e fidata buick.
Un’emittente locale stava trasmettendo le previsioni del tempo, cambiò canale con la mano destra e si sintonizzò su una canzone dei Doors, “Break on trough”, uno dei gruppi che Dominus adorava, pensò, non rammentava di aver mai disegnato un’avventura del suo anti eroe senza che una delle melodie di Morrison e colleghi non facesse da sottofondo a qualche quadro della storia. Quando voleva citare un brano musicale, indicava a penna la strofa della canzone in un angolo in alto della striscia, contornando la frase con l’effige di piccole note musicali, un espediente che lo aveva sempre fatto sorridere.
La voce sensuale e ruvida di Jim gli fece venir voglia di tamburellare sulla superficie liscia del volante, il ritmo incalzante lo conquistò a poco a poco.
Si fermò ad un semaforo, un vecchio lacero e sporco si avvicinò al finestrino della vettura chiedendo l’elemosina.
Jack lo fissò per un attimo, poi, dopo aver abbassato il vetro, gli disse:
“Cosa vuoi vecchio” la voce che sentì fluire dalle sue labbra, gli suonò estranea, dura, metallica, sgraziata, la voce di un cartone animato.
Il mendicante, gli propinò un sorriso sdentato e gli porse la mano protesa, senza aggiungere neppure una parola.
Jack si sfilò la sigaretta dall’angolo della bocca e gliela spense sul palmo aperto.
Il vecchio uggiolò come un cane ferito e corse via imprecando.
(Che diamine ho fatto?) si chiese mentalmente.
Accostò l’auto vicino al primo albero e scese dalla macchina cercando con lo sguardo l’uomo che aveva ferito senza alcuna ragione apparente.
Risalì sulla vettura, spense la radio e, confuso, si diresse verso lo Sheraton.
La testa gli doleva, non riusciva a cancellare l’immagine della sua mano che con fredda lucidità infieriva sul palmo di quel povero vecchio.
(Devo mantenere la calma) si disse (non è nulla, un semplice atto di vandalismo immotivato, un accumulo di stress, null’altro.Quel vecchio doveva essere sicuramente ubriaco, domani non si rammenterà neppure dove si è bruciato, o chi lo ha fatto).
Lo Sheraton era splendido.
Entrò e chiese al metrè dove fosse seduta la signorina Amanda Jergens.
Le si avvicinò e si sedette con disinvoltura al tavolo in fondo, accanto alla finestra.
Non era esattamente come se l’era immaginata: si aspettava di trovare una ragazza giovane, attraente, e perché no, disponibile.La giornalista che aveva di fronte era rigidamente impettita sulla sedia di velluto, indossava un tailleur grigio di poche pretese, aveva i capelli corti e scarmigliati di un opaco color marrone pallido, due grandi occhiali senza montatura che sovrastavano un naso non esattamente diritto ed una bocca più simile ad una ferita.
La donna intuì l’analisi visiva che Hamilton doveva aver fatto su di lei, perché lo guardò accigliata, prima di porgergli la mano.
“Buona sera signor Hamilton”.
“Buona sera signorina Jergens, come sta?”.
“Molto bene, mi ha detto di essere oberato di lavoro, quindi tenterò di non farle perdere tempo”.
“Esattamente quello che volevo chiederle” rispose Jack sgarbatamente.
Le domande che la donna si era meticolosamente appuntata sul taccuino di pelle nera non erano malvagie, dovette ammettere Jack con sé stesso, non era sicuramente avvenente, ma scaltra e ben addestrata a condurre la conversazione esattamente dove voleva, raggiungendo in breve gli scopi che si era preffisata.
L’intervista verté quasi esclusivamente sul rapporto d’identità che si instaura fra un autore, anche se di fumetti, e il personaggio chiave dei suoi racconti, Jack spiegò amabilmente che Dominus non era un suo alterego, non era nato con questa intenzione, era un tentativo, il tentativo di dare ad un personaggio sicuramente spiacevole e moralmente discutibile un fascino, un seguito, un pubblico che non lo giudicasse, ma apprezzasse la sua peculiare “anormalità”.
La Jergens aveva appuntato ogni risposta di Hamilton con la massima dovizia, verso la metà della loro chiacchierata, e dopo aver trangugiato diversi bicchieri di tequila, pendeva letteralmente dalle sue labbra.
Jack si sentiva inspiegabilmente bene.
“Quindi lei sostiene che Dominus non è nato per dare a lei, signor Hamilton, una sorta di seconda vita, anche se meramente immaginaria, ma è stata una sorta di sfida con i lettori”.
“Non direi proprio una sfida, ho sempre creduto che i lettori di fumetti non fossero illetterati o uomini di scarsa cultura, ma attenti critici, desiderosi d’evasione. Ecco cos’e Dominus: un’evasione dalla quotidianità, un essere che non conosce la morale comune, o meglio la ignora, che non conosce limiti e, soprattutto, che non conosce la noia”.
La donna lo guardò pensierosa.
“Mi dica” chiese Jack, incuriosito da quell’espressione.
“Condivido da giornalista, e da affezionata collezionista di Dominus, tutto ciò che mi ha detto nel corso di questo nostro colloquio, ma non posso fare a meno di notare l’estrema somiglianza esistente fra lei ed il suo personaggio”.
“Di quale somiglianza parla?”.
“Di quella fisica, ovviamente, non certamente di quella morale, non credo che nessun uomo in carne ed ossa e sano di mente, assumerebbe mai i comportamenti di un eroe nero dei fumetti” aggiunse ridacchiando.
Jack sorrise a sua volta, ma l’immagine del vecchio mendicante gli fece correre un brivido lungo la schiena.
“La somiglianza fisica è voluta, usai un mio ritratto per creare Dominus, ma sono trascorsi quattordici anni, lui non è invecchiato, ma io sì”.
“Interessante” notò la Jergens “lei ha usato il suo volto per creare Dominus, e sostiene che non sia il suo alterego?”.
(Tana, Jack, la ragazza è brutta, ma sveglia).
“Infatti, non lo è” tagliò corto Hamilton.
Fece presente alla signorina Jergens che aveva urgenza di tornare a casa per terminare del lavoro arretrato, e quasi all’unisono si alzarono dal tavolo.
Giunti nel parcheggio antistante l’hotel, Jack salutò la giornalista in maniera frettolosa dirigendosi verso l’auto, quando Amanda lo richiamò a gran voce inducendolo a voltarsi, lo raggiunse trafelata e, mal celando un evidente imbarazzo, gli disse:
“Mi perdoni, ma, ecco...vede...”.
Jack le fece cenno di proseguire nel discorso con un ampio e spazientito gesto della mano.
“Sono venuta in taxi, e al momento non ho denaro con me”.
Hamilton accennò una smorfia fra il sorpreso, l’infastidito ed il divertito.
“Le dispiacerebbe riaccompagnarmi a casa, non è molto distante da qui, la prego”.
Salirono in auto e per diversi minuti non si scambiarono neppure una parola, poi accadde qualcosa di difficilmente spiegabile.
“Mi sono sempre fatta una domanda”.
“Se posso aiutarla a risolvere un quesito di lunga data...”.
“Che voce ha un fumetto?”.
“Scusi?” replicò Jack divertito.
“Sì, insomma, il personaggio di un fumetto ha un volto, delle abitudini, un particolare abbigliamento, una vasta gamma di espressioni mimiche, ma che voce ha, o meglio, che voce potrebbe avere? Dominus come parlerebbe?”.
Hamilton rise nervosamente, mentre nella testa presero a volare un nugolo di farfalle impazzite.
“Avrebbe una parlata scaltra e poco piacevole credo”.
“Del tipo?”.
Farfalle.
Impazzite.
Uno stormo intero che vagava senza meta.
“Direbbe:
Mai passata una serata più noiosa di questa, mai vista una donna più pettegola ed insignificante di te; sei come un mal di testa che ti opprime i pensieri e ti far venir voglia di urlare, sei banale come una mattinata d’inverno, sei monotona come una moglie frigida, credo che la tua esistenza sia perfettamente inutile”.
Lo disse tutto di un fiato, con la stessa voce da cartone animato che aveva usato qualche ora prima con quel mal capitato mendicante.
La donna ebbe un sussulto ed un improvviso scatto d’ira.
“Che bastardo figlio di puttana” imprecò.
Jack non ci pensò due volte, estrasse la chiave inglese che teneva sempre sotto il sedile del guidatore, per difendersi da sgradevoli incontri notturni, e la colpì alla testa con una violenza inaudita.
La testa della donna rimbalzò contro il vetro del finestrino, poi contro il sedile della macchina, per piombare immobile sul cruscotto.
Un violento fiotto di sangue infradiciò il volto e le mani di Jack, non ci badò, continuò a colpire, e colpire, finché il cranio della ragazza non divenne una massa gelatinosa ed informe, con ciocche di capelli aggrovigliate e appiccicate un po’ ovunque.
Accelerò e raggiunse il garage della sua abitazione.
Scese dall’abitacolo tremante, si sedette accanto allo sportello ancora aperto e si premette le mani sugli occhi chiusi.
Spiò all’interno dell’auto,ma la macabra scena non era mutata.
“E ora?” chiese ad alta voce, non ottenendo, ovviamente, alcuna risposta.
“Pensa, non ti fermare adesso, pensa” si esortò.
“Cosa farebbe Dominus in questa situazione?”.
Ma Dominus era un fumetto.
(“Lei ha usato il suo volto per creare Dominus, e sostiene ancora che non sia il suo alterego?”).
Certo.
La donna aveva ragione.
Lui era Dominus.
Non poteva lasciare il cadavere nella macchina, anzi, doveva fare in modo di sviare ogni sospetto.
Certamente alla redazione del giornale sapevano che la Jergens aveva un appuntamento con lui, una volta rinvenuta la salma la polizia lo avrebbe immediatamente interrogato, e sarebbe stato l’epilogo della sua carriera.
Sarebbe stata la fine della sua nuova vita.
No, non poteva andare così.
Doveva esserci una via d’uscita.
Doveva...
Doveva.
Trasportò il cadavere della donna nel suo appartamento, lo depose sul pavimento del bagno.
Si infilò sotto la doccia per lavarsi di dosso le tracce di sangue; si sentì vagamente imbarazzato, nudo, insaponato, di fronte agli occhi strabuzzati e sbarrati di Amanda, che lo fissavano senza espressione.
“Scusami, cara” mormorò con la nuova voce della sua nuova vita “ma ci conosciamo ancora troppo poco”.
Rise e chiuse la tendina.
S’infilò un accappatoio, scavalcò con noncuranza il cadavere di Amanda e si sedette alla sua scrivania.
Le tavole del nuovo albo erano ancora tutte lì, ordinate e pronte per la correzione.Da ogni striscia Dominus ammiccava sorridente; prese la matita e terminò il contorno dell’ultimo ovale.
Armeggiò un po’ con le sfumature e pose la parola fine al cento ventiquattresimo episodio della serie.
L’ultimo.
Prese i disegni, li infilò nella solita busta marrone gigante e li lasciò appoggiati sul tavolino del salotto.
Entrò in camera da letto, s’infilò un paio di vecchi jeans, una maglietta nera e prese dal fondo dell’armadio una lunga giacca di pelle che era solito indossare nei primi anni di università; gli stava leggermente più stretta, ma l’attività fisica non gli sarebbe di certo mancata di lì a poco, sarebbe tornato in forma smagliante.
Entrò nel bagno, non diede neppure uno sguardo al corpo che giaceva immobile sul pavimento di piastrelle lucide, incrostate qui e la da piccoli grumi color ruggine che circondavano la salma di Amanda, si guardò per un attimo allo specchio: c’era qualcosa che non andava, i capelli, ordinatamente pettinati all’indietro, non gli si addicevano.
Li arruffò con le mani in modo che le ciocche appena arricciate gli incorniciassero la fronte e gli piovessero sugli occhi che avevano assunto un’espressione attenta e malevola, che avrebbe fatto rabbrividire qualunque essere sano di mente.
Fece ritorno in salotto, si fermò dinnanzi al manifesto del suo eroe: non c’era più alcuna differenza.
Scese in garage, montò nell’auto dopo aver deposto un asciugamano pulito sul sedile del posto di guida,e mise in moto.
In pochi minuti raggiunse una delle bettole più malfamate della zona. Parcheggiò ed entrò.
Gli sembrava di muoversi nel suo habitat naturale, loschi figuri che si aggiravano attorno ai tavoli da biliardo, avventori ubriachi al bancone del bar, urla sguaiate e bestemmie come caramelle.
Si sedette su un alto sgabello ed osservò il suo mondo.
Lo guardavano con rispetto, sapevano che era uno di loro, ignoravano che fosse il loro capo.
Un uomo sulla quarantina ben piazzato, ma quasi distinto sonnecchiava appoggiato ad un angolo vicino ad una porta, con il capo inclinato contro lo stipite.
Si alzò.
“Hey, tu, bello, dico a te”.
“Vuoi me, amico?” la sua vecchia voce non aveva lasciato alcuna traccia della primitiva esistenza.
“Non ti ho mai visto da queste parti, sei nuovo?”.
“Sono appena nato” replicò ridendo.
“Sentito il tipo?” disse l’uomo corpulento e tatuato che gli aveva rivolto la parola, diretto a quattro tizi intenti a giocare l’ennesima partita a stecca.
“Sei spiritoso, e la tua mamma dov’è?”chiese ridendo.
Dominus, Jack era sparito e non sembrava intenzionato a tornare,
gli si avvicinò e gli prese la gola fra il pollice e l’indice serrando la morsa e costringendo l’uomo ad inginocchiarsi.
“E’ con tua madre a sollazzare due bravi signori, mio caro fratellino” disse mollando la presa e lasciandolo stramazzare al suolo paonazzo e rantolante.
Guardò gli altri avventori con aria di sfida.
“Pace, amico” fu tutto ciò che un uomo alto con dei folti baffi biondi da texano, replicò tornando a dedicarsi al biliardo.
Si sedette affianco del signore addormentato, gli assestò un paio di pacche su di una spalla, ottenendo come unica reazione un buffo brontolio disarticolato.
Lo issò in piedi appoggiandoselo su di una spalla ed uscì.
Nessuno ebbe interesse, o coraggio, di seguirlo.
Caricò lo sconosciuto in macchina, sdraiandolo sul sedile posteriore, in modo che non si lordasse con il sangue della pettegola.
Gli frugò in tutte le tasche e trovò una patente sgualcita.
“Theodor Brown” lesse “piacere di fare la tua conoscenza Ted; nato in Alabama quaranta tre anni fa, bene, bene, bene, ti facevo più giovane amico; stato civile: celibe. Almeno non lascerai una vedova inconsolabile” rise metallicamente.
Tornò a casa.
Trasportò a fatica Ted su per le scale, si sincerò di non essere né visto né seguito, ed entrò nell’appartamento.
Tutto pronto, era ora di terminare lo show.
Trascinò il cadavere di Amanda in camera, lo scaraventò sul letto, quindi prese dall’armadietto sotto il lavello della cucina una bottiglia di acido muriatico.
Ted, intanto, stava bofonchiando qualcosa d’incomprensibile.
Stappò la bottiglia di vetro trasparente con l’immagine dell’immancabile teschio con le tibie incrociate ad indicarne la pericolosità, stampata sull’etichetta.
Si mise a cavalcioni sopra Ted.
“Bene, mio buon amico, è ora che tu tolga il disturbo, è ora che tu prenda congedo dalla tua misera vita e permetta alla mia meravigliosa esistenza di avere inizio”.
Baciò Ted sulla fronte e lo soffocò con un cuscino.
Non ci volle molto, il poveretto non oppose neanche una gran resistenza, passò dal sonno del brandy a quello della morte senza troppe proteste e, forse, senza neppure rendersene realmente conto.
“Bravo amico mio” disse Dominus “tu sì che sei un uomo di classe”.
Versò l’acido sul volto dell’uomo rapito nel bar; il liquido a contatto con la pelle emise un sinistro sfrigolio, come d’olio che bolle, la carne si arrossò, si gonfiò, ed infine si macerò con zelo, scoprendo in più punti il candore dell’osso, gli occhi scomparvero in due piccole esplosioni di sangue lasciando le orbite nere e vuote a fissare l’infinto.
Fu la volta delle mani, era meglio non lasciare le impronte digitali, se il buon vecchio Ted aveva a suo carico qualche pendenza penale, il suo meticoloso piano si sarebbe infranto come una bolla di sapone.
Fu la volta dei denti.
Il suo alterego, Jack Hamilton, aveva scritto avventure simil poliziesche per tutta la sua defunta esistenza, anche l’arcata dentaria poteva essere riconoscibile.
Prese un martello dalla cassetta degli attrezzi e lo smagliante sorriso di Theodor andò in frantumi, insieme a buona parte del suo osso mascellare.
Indietreggiò per osservare meglio la scena: perfetto.
Ed ora il tocco di maestria, pura arte, credetemi, pure arte.
Accese lo schermo del personal computer che Jack a volte usava per la corrispondenza in rete, e su un immacolato documento di word, scrisse poche righe; lasciò il monitor acceso ed uscì.
La sigla del telegiornale nazionale risuonò puntuale come ogni giorno.
Il presentatore, impomatato e leggermente ingessato nell’abito blu, raccontò ad un pubblico intento a cenare distrattamente di fronte alla televisione accesa, gli accadimenti che avevano sconvolto il globo in ogni sua parte nelle precedenti ventiquattro ore di un giorno normale, banale e presto dimenticato.
“Ed ora una notizia dalle tinte forti.
Sono stati rinvenuti questa mattina nell’appartamento del noto disegnatore di fumetti Jack Hamilton, due corpi orrendamente trucidati.
Quello di Amanda Jergens, giornalista del Tomorrow News, e quello di un uomo non ancora identificato, che si presupporrebbe essere lo stesso Hamilton.
La donna è stata rinvenuta distesa sul letto della camera padronale con il cranio fracassato da diversi colpi inferti con un pesante corpo contundente; l’uomo, disteso sul divano, con il volto orrendamente sfigurato e reso irriconoscibile.
Gli agenti hanno effettuato la macabra scoperta dopo essere stati chiamati da una vicina di casa che non aveva notizie del signor Hamilton da diversi giorni, e che sentiva provenire dall’appartamento un odore sgradevole.
E’ stato ritrovato anche un delirante messaggio scritto dall’autore dell’efferato delitto, nel quale l’uomo attesta di essere Dominus, il personaggio dei fumetti ideato dal defunto Hamilton, e di essere finalmente libero dalla noia”.
Dominus si alzò dalla sedia del ristorante dove aveva consumato un abbondante pasto, pagò il conto, e dopo aver gettato un ultimo sguardo divertito al monitor della televisione accesa risalì sulla sua Camaro nera.
La vecchia Buick del povero Jack era finita in un burrone lungo l’autostrada, con, chiuso nel portabagagli, il proprietario della Camaro, troppo riluttante a separarsi dalla sua auto e troppo attaccato ai beni materiali per avere il diritto di sopravvivere.
Accese la radio.
La strada verso il Messico era ancora lunga, chissà quante persone interessanti avrebbe incontrato lungo il cammino.
Non sapeva cosa esattamente gli avrebbe riservato il futuro, ma era certo che avrebbe fatto qualunque cosa pur di uccidere la monotonia e la noia.
Una sottile crepa zigzagava verso l’infisso della finestra chiusa creando uno strano arabesco: un profilo di donna, forse, no...no...una foglia trasportata dal vento, o meglio uno scarabocchio senza senso a cui la sua immaginazione stava attribuendo delle forme aliene.
Lo sguardo intento ad analizzare i dettagli di un luogo estraneo, la mente persa sulla scia di pensieri poco articolati, la percezione del mondo esterno offuscata, ottenebrata da una fitta coltre di disinteresse.
“Mi scusi”, un signore lo aveva urtato con una pesante ventiquattr’ore ingombra di scartoffie che tracimavano dalla bocca di pelle spalancata.Lo sorpassò senza voltarsi e si affrettò in direzione dell’unico sportello bancario funzionante.
Una signora poco più avanti osservò la scena con distacco continuando a sventolarsi con un improvvisato ventaglio di carta, un ragazzo entrò dalla porta di sicurezza, si guardò attorno con l’aria un po’ spaesata, prese dal distributore automatico un biglietto con impresso il numero che rappresentava il suo turno e gli si mise di fianco sorridendo.
“Che interminabile coda che c’è stamattina, non trova?” gli chiese con fare benevolo.
Jack tentò di abbozzare un sorriso di convenienza, ma improvviso ed intempestivo, il suo stomaco dette inaspettati segnali di cedimento.Si portò una mano davanti alla bocca serrata ed uscì precipitosamente dalla banca, tuffandosi nella porta d’uscita, miracolosamente aperta.
Una volta giunto in strada la nausea si dissipò rapidamente ed il suo cervello riprese a funzionare in maniera quasi consueta.
Che strano, pensò.
Non soffriva di nausea inattesa dai tempi dell’università, quando il diaframma ed i polmoni si ribellavano all’unisono non appena avvistava il docente fare il suo ingresso nell’aula, prendere l’esiguo foglio delle prenotazioni, ed iniziare l’appello per gli esaminati del giorno.
Camminava svelto nella direzione di casa, aveva un bel po’ di lavoro arretrato; doveva ancora terminare quattro strips per il quotidiano locale e mandare le bozze del suo ultimo albo alla Spell Comics per farlo revisionare da Allan prima della pubblicazione di mercoledì.
Il salone del suo appartamento odorava di fumo e di caffè, aveva trascorso la nottata a perfezionare alcuni quadri dell’ultima pagina del fumetto che aveva ideato quasi, o mio Dio, quattordici anni prima.
Spalancò la finestra, scostò le tende e fece entrare i raggi di un pallido sole autunnale; illuminata la stanza apparve in tutto il suo allegro e maniacale disordine: fogli sparsi sul pavimento, tazzine vuote abbandonate sui braccioli in legno del divano, diverse matite disseminate sul tappeto ed un turbine di tavole illustrate ben disposte sulla scrivania da disegno, sopra la quale troneggiava, saldamente appeso alla parete azzurra, un grande manifesto del suo eroe: “Dominus”.
Dominus era nato in una piovosa ed apparentemente sventurata notte d’agosto; Jack frequentava l’ultimo anno di filosofia e, per demeriti accademici e comportamentali, aveva perso il domicilio presso il campus, trovandosi costretto a trasferirsi in un piccolo loft ammobiliato in compagnia di un conoscente che lavoricchiava come chitarrista in un gruppo jazz. Gli studi progredivano a fatica, un eufemismo per dire che non compivano alcun progresso da diversi mesi, non si profilava all’orizzonte alcuna occasione occupazionale che potesse aprirgli lo spiraglio di una vita migliore, e, come ciliegina sulla torta, i rapporti con la sua ricca ed altolocata famiglia si erano definitivamente incrinati a causa delle sue intemperanze caratteriali, come soleva ripetergli all’epoca quella santa donna di sua madre.
Jonathan,il suo coinquilino, era rincasato sbronzo come non mai e si era abbattuto sulla poltrona letto senza prendersi l’incomodo di togliersi neppure le scarpe bagnate, e Jack si era ritrovato solo ed annoiato a fissare una crepa del soffitto (l’immagine della banca e del sorriso stereotipato del suo compagno d’attesa, gli tornarono alla mente facendo riaffiorare anche un principio di nausea che ricacciò da dove era venuto con un piccolo sforzo di volontà, e di esofago), d’improvviso prese una matita dal fondo di un lercio e malandato cassetto ed iniziò a vergare sul retro di uno stropicciato spartito musicale i tratti somatici di un uomo, in tutto e per tutto simili ad i suoi. Aveva sempre avuto una passione per la ritrattistica e per le arti figurative in genere, ma per assecondare le velleità accademiche della sua famiglia, si era trovato costretto a reprimere i suoi slanci creativi in vista di un futuro più dignitoso e sicuro.
La matita si muoveva agilmente sul foglio, gli occhi profondi, il naso aquilino, la bocca carnosa, la mascella volitiva, i folti capelli neri ricci ed arruffati, ed un’espressione di sfida che i suoi lineamenti non avevano mai assunto. Eccolo lì. Dominus, il genio del male, in tutto il suo beffardo e splendente sorriso.
Lavorò a quell’idea alacremente nei giorni seguenti, aveva la sensazione che le storie di loschi traffici, di assassini immotivati, di vendette efferate di cui si popolavano le tavole che disegnava, prendessero respiro per loro volontà, una sorta di varco nel nulla che la sua mente aveva creato per incanalare l’aggressività e la malvagità che non aveva mai avuto il coraggio di esprimere nel quotidiano.
Spedì le tavole del primo racconto ad una vicina casa editrice e fu la svolta.
Nulla che lo rendesse ricco e famoso, intendiamoci, ma Dominus vendeva bene, aveva il suo accolito di fans accaniti che seguivano fedelmente ogni sua avventura, e serviva bene allo scopo per cui, in fin dei conti, era stato creato: incanalare le energie in qualcosa di catartico e pagare l’affitto di un bell’appartamento e le rate di una macchina quasi di lusso.
E poi?
E poi...
E poi la sua vita si era arrestata.
Aveva avuto qualche esperienza sentimentale ben iniziata e frettolosamente conclusa; aveva avuto attimi di popolarità televisiva; aveva avuto qualche piccola soddisfazione personale e alcuni mesi di vita non comune, ma nulla più.
Le serate trascorse di fronte alla televisione si erano moltiplicate negli ultimi cinque anni; le scorribande in giro per locali notturni e per strade solitarie in compagnia di qualche giovane avvenente appena conosciuta, avevano perso quell’irresistibile interesse che aveva caratterizzato i suoi vent’anni, e parte dei trenta, e le pantofole indossate sotto i pantaloni da ginnastica avevano preso il posto degli stivali di pelle da finto cattivo che amava indossare per somigliare in qualche cosa al suo eroe: Dominus.
Dominus.
Già, lui non era cambiato nel corso di quei quattordici anni.
Sempre bello, accattivante, malvagio, invincibile, ironico, al centro dell’attenzione.
Si fermò dinnanzi al manifesto regalmente appeso sulla parete di fronte, fissò intensamente il volto magro e sorridente della sua creatura, con l’eterno giaccone di pelle che gli svolazzava attorno al torace atletico, e fu assalito dalla voglia improvvisa di accoltellarlo.
“Non è possibile” mormorò “sono geloso di un fumetto”.
Il telefono trillò scotendolo dalle sue elucubrazioni.
“Pronto?”.
“Jack Hamilton?”.
La voce dall’altro capo del filo era di una donna, sembrava giovane.
“Sì, sono io”.
“Buona sera, mi chiamo Amanda Jergens, sono del Tomorrow news di Denver, volevo sapere se era disposto a rilasciare un’intervista al mio giornale”.
“Sono molto occupato in questo periodo” rispose professionalmente Jack, ripescando dal fondo della memoria quel tono spocchioso e noncurante che gli veniva così bene nei primi anni di carriera, quando lui, il disegnatore, era più celebre del suo fumetto.
“Lo capisco benissimo signor Hamilton, ma vede il giornale per il quale lavoro ha in programma di pubblicare alcuni tra i più significativi albi della fumettistica americana degli ultimi dieci anni, corredati, ovviamente dalla biografia degli autori”.
“Se avete intenzione di annoverare Dominus nella vostra raccolta, dovete chiedere l’autorizzazione alla mia casa editrice, non a me, sono loro che si interessano di copy right e d’affari del genere”.
“Lo sappiamo signor Hamilton, abbiamo già ottenuto l’autorizzazione dalla Spell Comics”.
“Allora può avere da loro le note biografiche che le interessano”.
“Veramente preferirei farle un’intervista vera e propria, l’idea del Tomorrow news non è quella di dare delle scarne informazioni sugli autori, ma di metterli in relazione con i loro, come dire, prodotti artistici...”.
(Prodotti artistici) pensò Jack sorridendo (questa donna non ha la minima idea di chi sia Dominus), improvvisamente il sospetto che la sua interlocutrice ignorasse la sua creazione, lo mise di buon umore.
“Capisco, quindi vorrebbe rivolgermi delle domande inerenti...?”.
“Inerenti la sua personalità, la sua visione della vita, insomma...ci interesserebbe il punto di vista del creatore di Dominus, conoscere ciò che lo accomuna e ciò che lo rende differente dal personaggio che ha inventato.Poi, so che le sembrerà sciocco, ma io tengo particolarmente a farle quest’intervista”.
“Perché?”.
“Sono una grande ammiratrice di Dominus, non ho perso neppure uno degli albi che sono stati pubblicati, conoscerla personalmente equivarrebbe a realizzare un mio sogno”.
L’umore di Jack tornò esattamente quello che era prima della telefonata: funereo.
“Va bene, mi dica quando e dove”.
“Perfetto” esclamò lei ridendo “che ne direbbe di domani sera nel ristornate dell’hotel Sheraton?”.
“A che ora?”.
“Sette e mezzo?”.
“Ci sarò”.
Riagganciò il ricevitore e si sedette sul divano.
Accavallò le gambe poggiandole sul tavolino, dal quale caddero alcune riviste.
Si accese una sigaretta e ricominciò a fissare il soffitto.
Si rese conto che mentre tutto decresceva nella sua vita, affetti, svaghi, donne, creatività, una sola cosa si era ingigantita a dismisura: la noia.
Non guidava mai con la radio spenta.
Il silenzio nell’abitacolo della vettura sembrava divenire tangibile, solido, lo assaliva come uno strano senso di claustrofobia.
Accese il display a cristalli liquidi della sua vecchia e fidata buick.
Un’emittente locale stava trasmettendo le previsioni del tempo, cambiò canale con la mano destra e si sintonizzò su una canzone dei Doors, “Break on trough”, uno dei gruppi che Dominus adorava, pensò, non rammentava di aver mai disegnato un’avventura del suo anti eroe senza che una delle melodie di Morrison e colleghi non facesse da sottofondo a qualche quadro della storia. Quando voleva citare un brano musicale, indicava a penna la strofa della canzone in un angolo in alto della striscia, contornando la frase con l’effige di piccole note musicali, un espediente che lo aveva sempre fatto sorridere.
La voce sensuale e ruvida di Jim gli fece venir voglia di tamburellare sulla superficie liscia del volante, il ritmo incalzante lo conquistò a poco a poco.
Si fermò ad un semaforo, un vecchio lacero e sporco si avvicinò al finestrino della vettura chiedendo l’elemosina.
Jack lo fissò per un attimo, poi, dopo aver abbassato il vetro, gli disse:
“Cosa vuoi vecchio” la voce che sentì fluire dalle sue labbra, gli suonò estranea, dura, metallica, sgraziata, la voce di un cartone animato.
Il mendicante, gli propinò un sorriso sdentato e gli porse la mano protesa, senza aggiungere neppure una parola.
Jack si sfilò la sigaretta dall’angolo della bocca e gliela spense sul palmo aperto.
Il vecchio uggiolò come un cane ferito e corse via imprecando.
(Che diamine ho fatto?) si chiese mentalmente.
Accostò l’auto vicino al primo albero e scese dalla macchina cercando con lo sguardo l’uomo che aveva ferito senza alcuna ragione apparente.
Risalì sulla vettura, spense la radio e, confuso, si diresse verso lo Sheraton.
La testa gli doleva, non riusciva a cancellare l’immagine della sua mano che con fredda lucidità infieriva sul palmo di quel povero vecchio.
(Devo mantenere la calma) si disse (non è nulla, un semplice atto di vandalismo immotivato, un accumulo di stress, null’altro.Quel vecchio doveva essere sicuramente ubriaco, domani non si rammenterà neppure dove si è bruciato, o chi lo ha fatto).
Lo Sheraton era splendido.
Entrò e chiese al metrè dove fosse seduta la signorina Amanda Jergens.
Le si avvicinò e si sedette con disinvoltura al tavolo in fondo, accanto alla finestra.
Non era esattamente come se l’era immaginata: si aspettava di trovare una ragazza giovane, attraente, e perché no, disponibile.La giornalista che aveva di fronte era rigidamente impettita sulla sedia di velluto, indossava un tailleur grigio di poche pretese, aveva i capelli corti e scarmigliati di un opaco color marrone pallido, due grandi occhiali senza montatura che sovrastavano un naso non esattamente diritto ed una bocca più simile ad una ferita.
La donna intuì l’analisi visiva che Hamilton doveva aver fatto su di lei, perché lo guardò accigliata, prima di porgergli la mano.
“Buona sera signor Hamilton”.
“Buona sera signorina Jergens, come sta?”.
“Molto bene, mi ha detto di essere oberato di lavoro, quindi tenterò di non farle perdere tempo”.
“Esattamente quello che volevo chiederle” rispose Jack sgarbatamente.
Le domande che la donna si era meticolosamente appuntata sul taccuino di pelle nera non erano malvagie, dovette ammettere Jack con sé stesso, non era sicuramente avvenente, ma scaltra e ben addestrata a condurre la conversazione esattamente dove voleva, raggiungendo in breve gli scopi che si era preffisata.
L’intervista verté quasi esclusivamente sul rapporto d’identità che si instaura fra un autore, anche se di fumetti, e il personaggio chiave dei suoi racconti, Jack spiegò amabilmente che Dominus non era un suo alterego, non era nato con questa intenzione, era un tentativo, il tentativo di dare ad un personaggio sicuramente spiacevole e moralmente discutibile un fascino, un seguito, un pubblico che non lo giudicasse, ma apprezzasse la sua peculiare “anormalità”.
La Jergens aveva appuntato ogni risposta di Hamilton con la massima dovizia, verso la metà della loro chiacchierata, e dopo aver trangugiato diversi bicchieri di tequila, pendeva letteralmente dalle sue labbra.
Jack si sentiva inspiegabilmente bene.
“Quindi lei sostiene che Dominus non è nato per dare a lei, signor Hamilton, una sorta di seconda vita, anche se meramente immaginaria, ma è stata una sorta di sfida con i lettori”.
“Non direi proprio una sfida, ho sempre creduto che i lettori di fumetti non fossero illetterati o uomini di scarsa cultura, ma attenti critici, desiderosi d’evasione. Ecco cos’e Dominus: un’evasione dalla quotidianità, un essere che non conosce la morale comune, o meglio la ignora, che non conosce limiti e, soprattutto, che non conosce la noia”.
La donna lo guardò pensierosa.
“Mi dica” chiese Jack, incuriosito da quell’espressione.
“Condivido da giornalista, e da affezionata collezionista di Dominus, tutto ciò che mi ha detto nel corso di questo nostro colloquio, ma non posso fare a meno di notare l’estrema somiglianza esistente fra lei ed il suo personaggio”.
“Di quale somiglianza parla?”.
“Di quella fisica, ovviamente, non certamente di quella morale, non credo che nessun uomo in carne ed ossa e sano di mente, assumerebbe mai i comportamenti di un eroe nero dei fumetti” aggiunse ridacchiando.
Jack sorrise a sua volta, ma l’immagine del vecchio mendicante gli fece correre un brivido lungo la schiena.
“La somiglianza fisica è voluta, usai un mio ritratto per creare Dominus, ma sono trascorsi quattordici anni, lui non è invecchiato, ma io sì”.
“Interessante” notò la Jergens “lei ha usato il suo volto per creare Dominus, e sostiene che non sia il suo alterego?”.
(Tana, Jack, la ragazza è brutta, ma sveglia).
“Infatti, non lo è” tagliò corto Hamilton.
Fece presente alla signorina Jergens che aveva urgenza di tornare a casa per terminare del lavoro arretrato, e quasi all’unisono si alzarono dal tavolo.
Giunti nel parcheggio antistante l’hotel, Jack salutò la giornalista in maniera frettolosa dirigendosi verso l’auto, quando Amanda lo richiamò a gran voce inducendolo a voltarsi, lo raggiunse trafelata e, mal celando un evidente imbarazzo, gli disse:
“Mi perdoni, ma, ecco...vede...”.
Jack le fece cenno di proseguire nel discorso con un ampio e spazientito gesto della mano.
“Sono venuta in taxi, e al momento non ho denaro con me”.
Hamilton accennò una smorfia fra il sorpreso, l’infastidito ed il divertito.
“Le dispiacerebbe riaccompagnarmi a casa, non è molto distante da qui, la prego”.
Salirono in auto e per diversi minuti non si scambiarono neppure una parola, poi accadde qualcosa di difficilmente spiegabile.
“Mi sono sempre fatta una domanda”.
“Se posso aiutarla a risolvere un quesito di lunga data...”.
“Che voce ha un fumetto?”.
“Scusi?” replicò Jack divertito.
“Sì, insomma, il personaggio di un fumetto ha un volto, delle abitudini, un particolare abbigliamento, una vasta gamma di espressioni mimiche, ma che voce ha, o meglio, che voce potrebbe avere? Dominus come parlerebbe?”.
Hamilton rise nervosamente, mentre nella testa presero a volare un nugolo di farfalle impazzite.
“Avrebbe una parlata scaltra e poco piacevole credo”.
“Del tipo?”.
Farfalle.
Impazzite.
Uno stormo intero che vagava senza meta.
“Direbbe:
Mai passata una serata più noiosa di questa, mai vista una donna più pettegola ed insignificante di te; sei come un mal di testa che ti opprime i pensieri e ti far venir voglia di urlare, sei banale come una mattinata d’inverno, sei monotona come una moglie frigida, credo che la tua esistenza sia perfettamente inutile”.
Lo disse tutto di un fiato, con la stessa voce da cartone animato che aveva usato qualche ora prima con quel mal capitato mendicante.
La donna ebbe un sussulto ed un improvviso scatto d’ira.
“Che bastardo figlio di puttana” imprecò.
Jack non ci pensò due volte, estrasse la chiave inglese che teneva sempre sotto il sedile del guidatore, per difendersi da sgradevoli incontri notturni, e la colpì alla testa con una violenza inaudita.
La testa della donna rimbalzò contro il vetro del finestrino, poi contro il sedile della macchina, per piombare immobile sul cruscotto.
Un violento fiotto di sangue infradiciò il volto e le mani di Jack, non ci badò, continuò a colpire, e colpire, finché il cranio della ragazza non divenne una massa gelatinosa ed informe, con ciocche di capelli aggrovigliate e appiccicate un po’ ovunque.
Accelerò e raggiunse il garage della sua abitazione.
Scese dall’abitacolo tremante, si sedette accanto allo sportello ancora aperto e si premette le mani sugli occhi chiusi.
Spiò all’interno dell’auto,ma la macabra scena non era mutata.
“E ora?” chiese ad alta voce, non ottenendo, ovviamente, alcuna risposta.
“Pensa, non ti fermare adesso, pensa” si esortò.
“Cosa farebbe Dominus in questa situazione?”.
Ma Dominus era un fumetto.
(“Lei ha usato il suo volto per creare Dominus, e sostiene ancora che non sia il suo alterego?”).
Certo.
La donna aveva ragione.
Lui era Dominus.
Non poteva lasciare il cadavere nella macchina, anzi, doveva fare in modo di sviare ogni sospetto.
Certamente alla redazione del giornale sapevano che la Jergens aveva un appuntamento con lui, una volta rinvenuta la salma la polizia lo avrebbe immediatamente interrogato, e sarebbe stato l’epilogo della sua carriera.
Sarebbe stata la fine della sua nuova vita.
No, non poteva andare così.
Doveva esserci una via d’uscita.
Doveva...
Doveva.
Trasportò il cadavere della donna nel suo appartamento, lo depose sul pavimento del bagno.
Si infilò sotto la doccia per lavarsi di dosso le tracce di sangue; si sentì vagamente imbarazzato, nudo, insaponato, di fronte agli occhi strabuzzati e sbarrati di Amanda, che lo fissavano senza espressione.
“Scusami, cara” mormorò con la nuova voce della sua nuova vita “ma ci conosciamo ancora troppo poco”.
Rise e chiuse la tendina.
S’infilò un accappatoio, scavalcò con noncuranza il cadavere di Amanda e si sedette alla sua scrivania.
Le tavole del nuovo albo erano ancora tutte lì, ordinate e pronte per la correzione.Da ogni striscia Dominus ammiccava sorridente; prese la matita e terminò il contorno dell’ultimo ovale.
Armeggiò un po’ con le sfumature e pose la parola fine al cento ventiquattresimo episodio della serie.
L’ultimo.
Prese i disegni, li infilò nella solita busta marrone gigante e li lasciò appoggiati sul tavolino del salotto.
Entrò in camera da letto, s’infilò un paio di vecchi jeans, una maglietta nera e prese dal fondo dell’armadio una lunga giacca di pelle che era solito indossare nei primi anni di università; gli stava leggermente più stretta, ma l’attività fisica non gli sarebbe di certo mancata di lì a poco, sarebbe tornato in forma smagliante.
Entrò nel bagno, non diede neppure uno sguardo al corpo che giaceva immobile sul pavimento di piastrelle lucide, incrostate qui e la da piccoli grumi color ruggine che circondavano la salma di Amanda, si guardò per un attimo allo specchio: c’era qualcosa che non andava, i capelli, ordinatamente pettinati all’indietro, non gli si addicevano.
Li arruffò con le mani in modo che le ciocche appena arricciate gli incorniciassero la fronte e gli piovessero sugli occhi che avevano assunto un’espressione attenta e malevola, che avrebbe fatto rabbrividire qualunque essere sano di mente.
Fece ritorno in salotto, si fermò dinnanzi al manifesto del suo eroe: non c’era più alcuna differenza.
Scese in garage, montò nell’auto dopo aver deposto un asciugamano pulito sul sedile del posto di guida,e mise in moto.
In pochi minuti raggiunse una delle bettole più malfamate della zona. Parcheggiò ed entrò.
Gli sembrava di muoversi nel suo habitat naturale, loschi figuri che si aggiravano attorno ai tavoli da biliardo, avventori ubriachi al bancone del bar, urla sguaiate e bestemmie come caramelle.
Si sedette su un alto sgabello ed osservò il suo mondo.
Lo guardavano con rispetto, sapevano che era uno di loro, ignoravano che fosse il loro capo.
Un uomo sulla quarantina ben piazzato, ma quasi distinto sonnecchiava appoggiato ad un angolo vicino ad una porta, con il capo inclinato contro lo stipite.
Si alzò.
“Hey, tu, bello, dico a te”.
“Vuoi me, amico?” la sua vecchia voce non aveva lasciato alcuna traccia della primitiva esistenza.
“Non ti ho mai visto da queste parti, sei nuovo?”.
“Sono appena nato” replicò ridendo.
“Sentito il tipo?” disse l’uomo corpulento e tatuato che gli aveva rivolto la parola, diretto a quattro tizi intenti a giocare l’ennesima partita a stecca.
“Sei spiritoso, e la tua mamma dov’è?”chiese ridendo.
Dominus, Jack era sparito e non sembrava intenzionato a tornare,
gli si avvicinò e gli prese la gola fra il pollice e l’indice serrando la morsa e costringendo l’uomo ad inginocchiarsi.
“E’ con tua madre a sollazzare due bravi signori, mio caro fratellino” disse mollando la presa e lasciandolo stramazzare al suolo paonazzo e rantolante.
Guardò gli altri avventori con aria di sfida.
“Pace, amico” fu tutto ciò che un uomo alto con dei folti baffi biondi da texano, replicò tornando a dedicarsi al biliardo.
Si sedette affianco del signore addormentato, gli assestò un paio di pacche su di una spalla, ottenendo come unica reazione un buffo brontolio disarticolato.
Lo issò in piedi appoggiandoselo su di una spalla ed uscì.
Nessuno ebbe interesse, o coraggio, di seguirlo.
Caricò lo sconosciuto in macchina, sdraiandolo sul sedile posteriore, in modo che non si lordasse con il sangue della pettegola.
Gli frugò in tutte le tasche e trovò una patente sgualcita.
“Theodor Brown” lesse “piacere di fare la tua conoscenza Ted; nato in Alabama quaranta tre anni fa, bene, bene, bene, ti facevo più giovane amico; stato civile: celibe. Almeno non lascerai una vedova inconsolabile” rise metallicamente.
Tornò a casa.
Trasportò a fatica Ted su per le scale, si sincerò di non essere né visto né seguito, ed entrò nell’appartamento.
Tutto pronto, era ora di terminare lo show.
Trascinò il cadavere di Amanda in camera, lo scaraventò sul letto, quindi prese dall’armadietto sotto il lavello della cucina una bottiglia di acido muriatico.
Ted, intanto, stava bofonchiando qualcosa d’incomprensibile.
Stappò la bottiglia di vetro trasparente con l’immagine dell’immancabile teschio con le tibie incrociate ad indicarne la pericolosità, stampata sull’etichetta.
Si mise a cavalcioni sopra Ted.
“Bene, mio buon amico, è ora che tu tolga il disturbo, è ora che tu prenda congedo dalla tua misera vita e permetta alla mia meravigliosa esistenza di avere inizio”.
Baciò Ted sulla fronte e lo soffocò con un cuscino.
Non ci volle molto, il poveretto non oppose neanche una gran resistenza, passò dal sonno del brandy a quello della morte senza troppe proteste e, forse, senza neppure rendersene realmente conto.
“Bravo amico mio” disse Dominus “tu sì che sei un uomo di classe”.
Versò l’acido sul volto dell’uomo rapito nel bar; il liquido a contatto con la pelle emise un sinistro sfrigolio, come d’olio che bolle, la carne si arrossò, si gonfiò, ed infine si macerò con zelo, scoprendo in più punti il candore dell’osso, gli occhi scomparvero in due piccole esplosioni di sangue lasciando le orbite nere e vuote a fissare l’infinto.
Fu la volta delle mani, era meglio non lasciare le impronte digitali, se il buon vecchio Ted aveva a suo carico qualche pendenza penale, il suo meticoloso piano si sarebbe infranto come una bolla di sapone.
Fu la volta dei denti.
Il suo alterego, Jack Hamilton, aveva scritto avventure simil poliziesche per tutta la sua defunta esistenza, anche l’arcata dentaria poteva essere riconoscibile.
Prese un martello dalla cassetta degli attrezzi e lo smagliante sorriso di Theodor andò in frantumi, insieme a buona parte del suo osso mascellare.
Indietreggiò per osservare meglio la scena: perfetto.
Ed ora il tocco di maestria, pura arte, credetemi, pure arte.
Accese lo schermo del personal computer che Jack a volte usava per la corrispondenza in rete, e su un immacolato documento di word, scrisse poche righe; lasciò il monitor acceso ed uscì.
La sigla del telegiornale nazionale risuonò puntuale come ogni giorno.
Il presentatore, impomatato e leggermente ingessato nell’abito blu, raccontò ad un pubblico intento a cenare distrattamente di fronte alla televisione accesa, gli accadimenti che avevano sconvolto il globo in ogni sua parte nelle precedenti ventiquattro ore di un giorno normale, banale e presto dimenticato.
“Ed ora una notizia dalle tinte forti.
Sono stati rinvenuti questa mattina nell’appartamento del noto disegnatore di fumetti Jack Hamilton, due corpi orrendamente trucidati.
Quello di Amanda Jergens, giornalista del Tomorrow News, e quello di un uomo non ancora identificato, che si presupporrebbe essere lo stesso Hamilton.
La donna è stata rinvenuta distesa sul letto della camera padronale con il cranio fracassato da diversi colpi inferti con un pesante corpo contundente; l’uomo, disteso sul divano, con il volto orrendamente sfigurato e reso irriconoscibile.
Gli agenti hanno effettuato la macabra scoperta dopo essere stati chiamati da una vicina di casa che non aveva notizie del signor Hamilton da diversi giorni, e che sentiva provenire dall’appartamento un odore sgradevole.
E’ stato ritrovato anche un delirante messaggio scritto dall’autore dell’efferato delitto, nel quale l’uomo attesta di essere Dominus, il personaggio dei fumetti ideato dal defunto Hamilton, e di essere finalmente libero dalla noia”.
Dominus si alzò dalla sedia del ristorante dove aveva consumato un abbondante pasto, pagò il conto, e dopo aver gettato un ultimo sguardo divertito al monitor della televisione accesa risalì sulla sua Camaro nera.
La vecchia Buick del povero Jack era finita in un burrone lungo l’autostrada, con, chiuso nel portabagagli, il proprietario della Camaro, troppo riluttante a separarsi dalla sua auto e troppo attaccato ai beni materiali per avere il diritto di sopravvivere.
Accese la radio.
La strada verso il Messico era ancora lunga, chissà quante persone interessanti avrebbe incontrato lungo il cammino.
Non sapeva cosa esattamente gli avrebbe riservato il futuro, ma era certo che avrebbe fatto qualunque cosa pur di uccidere la monotonia e la noia.
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