Le strade di Liverpool
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Le strade di Liverpool
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La voce metallica dell’altoparlante lo riportò di colpo alla realtà: l’onda dei pensieri lo aveva trasportato per alcuni minuti, facendogli dimenticare dove si trovava.
Uomini e donne indaffarati e affannati si aggiravano per l’aeroporto, trascinando con se' bambini, bagagli e stress: tutti a godersi le vacanze, pensò Giulio, sentendosi in qualche modo estraneo e anche un po' superiore a quel movimento che lo circondava.
Lui, finalmente, ce l’aveva fatta: stava partendo per Liverpool, stava andando a vedere dove tutto era cominciato.
La calda giornata di fine agosto era là fuori, a scaldare le macchine nei parcheggi e ad arrostire la città: il cielo sembrava negare ai pochi rimasti a casa il suo autentico colore, mostrandosi incertamente grigio.
La sveglia mattutina era stata precoce ed agitata, piena di controlli al gas, alle finestre ed ai bagagli; sempre quella solita paura di dimenticare qualcosa.
Donato aveva telefonato per sapere l’orario di arrivo a Bruxelles del volo, dove una pioggia consueta attendeva Giulio.
La chiamata per l’imbarco fece muovere una piccola processione sospettosa, ognuno attento a non perdere il proprio diritto a partire ma desideroso allo stesso tempo di mostrarsi viaggiatore sciolto ed abituale.
L’aereo non era pieno, così Giulio si trovò da solo in una fila da tre poltrone: accettò di buon grado un quotidiano dalla hostess e, con un ultimo sguardo all’orologio, le sette e venti, si mise a leggere.
Solito segnale occulto, ormai sapeva individuarli: una signora inglese residente in Australia sosteneva di essere la sorella segreta di John Lennon. Incredibile, pensò, quante persone non riescono ad accettare lo stato esistenziale dell’anonimato e si coprono di ridicolo inventando legami con personaggi famosi: chissà, magari avendo esse stesse dei talenti, dei numeri sprecati scioccamente.
Il suono aspro del fiammingo, che, dopo il francese e l’inglese pareva ancora più estraneo, preparò i passeggeri al decollo; Giulio si costrinse a guardare in basso, tanto per avere conferma dall’alto della incoerenza della forma urbana di Milano, ed il cambio di visuale prospettica non modificò il suo giudizio, appena distorto dalla deformazione professionale del suo mestiere di urbanista.
Tutto a posto, disse il comandante, anticipando ai suoi passeggeri un volo tranquillo e rilassante.
Giulio non riusciva, però, a togliersi di dosso un certo nervosismo, si sentiva avvolto da quel solito immotivato senso di colpa che lo assaliva ogni volta che si allontanava da casa. Eppure sua moglie Vera lo aveva salutato con dolcezza, apparentemente felice del fatto che lui andasse a coronare quel sogno adolescenziale; sua figlia Anita, dall’alto dei suoi sei anni, gli aveva solo chiesto un regalo, “qualcosa per la musica”.
Deglutì un paio di volte per compensare l’effetto dell’altitudine e accolse con piacere l’avvicinarsi del carrello delle bevande dal fondo del corridoio.
Prese un succo d’arancia, sentendosi già molto inglese nelle abitudini e sorrise alla hostess, bionda ed educata, assumendo quell’aria melensa che tanto odiava nel prossimo, ma che normalmente non riusciva ad evitare davanti ad una donna.
Il succo era troppo freddo, ed anche il clima interno dell’aereo si era fatto più fresco: si mise la giacca, palpando come sempre la tasca interna per sentire il confortante gonfiore del portafoglio, una abitudine che contrastava con il suo modo piuttosto libero di usare il denaro: piccola rassicurante mania.
Non era stato facile, un paio di settimane prima, tovare una camera a Liverpool: la “Beatle Week” aveva riempito tutti gli alberghi fino all’inverosimile.
Giulio aveva comunque prenotato l’essenziale: da dormire e il “Magical Mystery Tour”, un favoloso giro per la città a bordo di un bus identico a quello del film.
“Roll up...” canticchiò, mentre l’aereo iniziava la discesa su Bruxelles: il tempo era proprio brutto, come si aspettava; una volta atterrati, Giulio tirò fuori il suo ombrellino tascabile dal bagaglio a mano, sentendo già inadeguato il suo abbigliamento, abito estivo con camicia a maniche corte.
Donato era, come sempre, in ritardo: la sala degli arrivi era piena di gente, appartenente alle più svariate etnie, che incontrava amici e parenti con larghi sorrisi e generosi abbracci.
Giulio si sentì un po’ solo e uscì all’aperto, fumando una sigaretta sul marciapiede, camminando avanti e indietro per scaldarsi, guardando la pioggia cadere.
Vide la Volvo dell’amico avvicinarsi a tutta velocità: bellissimo rivederlo dopo quasi due anni, un po’ più calvo ed appesantito nella figura, ma tutto sommato sempre elegante.
“E allora, ce la facciamo stavolta?”
“Tu cosa dici?”
“Dico di si, accidenti! Fatti vedere: bel vestito, è quello del matrimonio?”
“Ah,ah, spiritoso...”
“Dai, hai fame? Ho delle meravigliose pizze surgelate a casa, a proposito, la casa, vedrai!”
Giulio era felicissimo per Donato e Maria che finalmente erano riusciti a comprare una villetta alla periferia di Bruxelles.
Dopo dieci anni in Belgio si erano decisi, loro, inguaribilmente romani, a radicarsi, più che altro per le opportunità future che ciò avrebbe dato al loro unico figlio, Marco.
“Si sta bene quando la famiglia è in ferie, eh?” chiese Giulio.
“Non mi lamento: almeno riesco a suonare un po’...”
“Come va col piano, fai progressi?”
“Si, qualcosa, ma è il tempo il vero problema.”
Donato lavorava per la Comunità Europea, funzionario ben pagato ed insoddisfatto come tutti gli altri; spesso si lamentava del freddo, ma, tutto sommato, aveva trovato una buona dimensione di vita, discretamente adatta al suo carattere, almeno a parere di Giulio.
La serata divenne presto notte, fra una birra e l’altra: la casa era ancora incompleta nei dettagli ma accogliente e la soffitta dedicata alla musica coinvolse presto i due amici in caldi duetti chitarra-piano, ovviamente a tema unico, i Beatles.
Tutto era cominciato a Roma, dove Giulio e Donato avevano vissuto gli anni giovanili, compagni di classe in un Liceo Ginnasio degli anni ‘70, vissuto fra scioperi, sassaiole e pallone.
La chitarra li aveva uniti, allora, e i Fab Four erano stati il loro pane quotidiano per tanti lunghi pomeriggi a casa di Donato, dove si incontravano con l’ovvia scusa di studiare, coccolati con discrezione e calzoni al forno dalla mamma.
Era musica grezza, poco studiata ma molto appassionata; si sentivano degli eroi quando imbracciavano i legnacci che chiamavano strumenti, le corde sfilacciate e ottuse grattate con furore più agonistico che artistico.
Non si dormì molto quella notte: troppa l’eccitazione per il giorno dopo...
L’auto scivolava come una talpa nel grigio mattino belga: “le plat pays” la circondava minacciosamente, facendo sembrare nullo il suo pur veloce movimento verso Nord.
La conversazione fra Donato e Giulio parve risentire del paesaggio circostante.
“Sai, alle volte mi chiedo se non ho sbagliato tutto...” disse Giulio.
“A cosa pensi?”
“Alla mia professione, ai soldi, a quello che faccio quando mi alzo al mattino, boh...”
“Ma hai la musica, no?”
Si, la musica, eterna compagna di giochi e di lotta, pensò Giulio.
Donato proseguì: “In fondo, per noi non è mai stata solo un hobby, credi? Io la considero una ragione di vita!”
“Invece del Prozac, vero?”
“Perchè no? Ma ci pensi, avere oggi il tempo di suonare che avevamo vent’anni fa?”
“Senti, caro, stiamo facendo un viaggio nostalgico, non scivoliamo sul patetico!”
L’accelerazione improvvisa che Donato impresse all’auto fu una risposta interlocutoria e definitiva allo stesso tempo.
Il traghetto si intuiva appena nella nebbia di Ostenda: il fronte delle case con i tetti a punta pareva quasi un set cinematografico, una rappresentazione a due sole dimensioni, come se dietro non ci fossero case e persone, odori e rumori.
Mangiarono una baguette fredda con una birra calda, la ragazza al bancone aveva un faccia seria ed annoiata.
Intorno era pieno di inglesi calati a comprare alcolici a buon prezzo al duty-free: a Giulio erano simpatici solo per il fatto di parlare la loro lingua, l’idioma delle canzoni dei Quattro.
Le scogliere di Dover erano davvero bianche e sovrastate da stormi di gabbiani: Donato era eccitatissimo per la sua prima volta oltre la Manica
L’autostrada verso Londra migliorò radicalmente l’atmosfera dei due: il nastro asfaltato era fiancheggiato da morbide colline e da una incredibile gamma di tonalità di verde.
“Che meraviglia, non me l’aspettavo così!”
“Te l’avevo detto, no?”, disse Giulio con falsa indifferenza ma anch’egli colpito dall’ambiente e, più ancora, meravigliato per la facilità con la quale Donato si era adattato alla guida a sinistra.
“Let me take you down, ‘cause I’m going to...”
“Strawberry Fields...”
“Nothing is real...”
“C’è qualcosa di vero?”
“Mah, ho sempre meno certezze. Che canzone, però!”
Si accesero una sigaretta, l’ennesima, per fermare la fame che cominciava a farsi sentire.
“Ascolta, fra 20 miglia c’è Oxford; facciamo tappa?”
“Va bene, è anche una meta culturale, chissà che ti faccia bene!”
“Falla finita...”
Il bed and breakfast non era granchè, ma i letti sembravano soffici e loro erano stanchissimi.
Mangiarono un piccantissimo chili con carne in un pub lì vicino; Giulio dormì male, come al solito, dando la colpa al cibo.
La mattina seguente era fresca e assolata; Donato divorò il suo Full English Breakfast con foga e buon umore.
Ripresero la strada verso Liverpool, faticando un poco ad uscire dal centro di Oxford, inspiegabilmente trafficato.
Fabbriche e centrali elettriche cominciarono a fare mostra di sè verso Birmingham; forse era solo suggestione, ma Giulio si sentì d’improvviso sotto un cielo domestico, con quelle belle nuvole appese.
Le case a schiera della periferia di Liverpool facevano ala all’ingresso in città: l’Hotel Britannia Adelphi troneggiava alla base di una collina, sovrastato dalla strana statua del “Liverpool Resurgent”.
Il vento del mare che si incanalava nelle strade perpendicolari ai docks sapeva di America, onda atlantica rovesciata sul porto morente di una città incredibilmente viva.
L’albergo era un bolgia. Decine di persone affollavano la hall, tutte in fila con la prenotazione in mano.
Donato e Giulio storsero un po’ la bocca davanti alla brutta camera che fu loro assegnata, ma ne fecero subito motivo di scherzo, essendosi ripromessi di prendere le cose come venivano.
Dopo mezz’ora scarsa erano in piscina: l’Adelphi era un vecchio superstite dei tempi d’oro del primo Novecento, ingombro di decorazioni ridondanti ma piacevoli.
Giulio incassò con dispetto le insistenti occhiate di un anziano gay, fra le risate soffocate di Donato: il gioco della finta omosessualità, peraltro, era sempre stato una costante del loro rapporto, una sorta di esorcizzazione di quella loro parte latente.
La birra in ciabatte e coi capelli bagnati sapeva di libertà e di tempo da perdere: Giulio si sentiva sereno e, lo ammise con calma, privo di ansia per la lontananza da casa.
Mentre Donato salì in camera a riposare, Giulio andò a comperare i biglietti per gli “eventi” dei giorni successivi, che prevedevano una serie di concerti di gruppi più o meno cloni dei Beatles, di celebrazioni e di feste in discoteca e all’aperto: una pacchia.
Il mattino dopo, dopo la solita abbuffata di breakfast, girarono per mezz’ora intorno al gigantesco edificio di mattoni rossi degli Albert Docks, trovando finalmente grazie a “You like me too much”, emessa da un altoparlante stranamente non gracchiante, l’ingresso alla “Beatles Story”, il museo ufficiale dei Fab Four.
Di museo, poi, non si poteva parlare: piuttosto di una raccolta di feticci e memorabilia che a un non amante del soggetto poteva sembrare di gusto dubbio se non macabro: ma per Giulio e Donato era come ripassare le pagine di un libro già tante volte letto, alla ricerca della frase perduta o del doppio senso non colto.
Forse la cosa più emozionante era proprio l’incrociarsi dei loro sguardi, una specie di continuo trasmettersi “Allora era tutto vero, è tutto successo!”
Accompagnati dalla musica, si aggiravano fra le anguste sale del sottoscala dei Docks in cui si trovava il museo, viaggiando idealmente nel tempo fra le icone della memoria.
Giulio si sentì vagamente a disagio, all’improvviso.
Mangiarono un hamburger e una coca, anch’essi travolti dall’americanizzazione dei costumi inglesi che appariva sempre più evidente: non aveva un cattivo sapore, la situazione lo faceva diventare per incanto un cibo dell’anima.
Alle due del pomeriggio era fissata la partenza del Magical Mystery Tour.
Il torpedone multicolore arrivò in perfetto orario: ne scese per prima la guida, una splendida vecchia ragazza dagli occhi intelligenti, Edwina, così si presentò, le cui descrizioni dei luoghi sacri, accompagnate da aneddoti e citazioni, crearono subito nel bus una atmosfera complice e divertita.
Davanti ai due amici c’erano due donne, una anziana ed una giovane con una bambina di pochi anni addormentata in grembo; la loro faccia disinteressata ed annoiata faceva a pugni con l’eccitazione di Donato, che era sull’orlo della commozione.
L’incrocio sbilenco di strade suburbane che è Penny Lane apparve a Giulio e Donato in tutto il suo periferico splendore; che scherzi può fare la memoria! Chissà come si era trasfigurato quel luogo urbano, apparentemente insignificante, nella testa di Paul McCartney.
Edwina continuava a snocciolare, con il suo inglese colto che a tratti scivolava sull’accento del Merseyside, aneddoti sulla sua gioventù durante la Beatlemania.
Dopo la sosta di rito davanti al cancello di Strawberry Field, il giro toccò le case dei quattro, poverissima quella di Ringo, modesta quella di George, dignitosa quella di Paul, borghese quella di John; che strano, pensò Giulio, i loro caratteri, in fondo, rispecchiavano le rispettive origini: l’orgoglio di essere un “Working class hero” da parte di John Lennon era quindi solo una negazione un po’ isterica del proprio ceto sociale di appartenenza.
Sul bus era salita a Penny Lane una troupe della BBC, che, guarda caso, individuò in Giulio e in una giapponese i soggetti da intervistare.
Giulio balbettò al giornalista un confuso paragone fra il loro viaggio ed un pellegrinaggio religioso: Donato, in disparte, sogghignava.
Alle quattro e mezza il bus li fece scendere in Mathew Street, proprio davanti al Cavern Club; una copia del glorioso tempio dei Fab Four, ma funzionava, così come il gruppo che suonava, dei bravissimi moldavi dalle facce tristi e i vestiti fuori moda.
Dopo qualche pinta di birra, si incamminarono verso l’albergo, perdendosi subito nonostante la mappa della città che Donato aveva sempre con sé; cominciò a piovigginare.
Mentre attraversavano la strada, Giulio vide una ragazza in piedi sul lato opposto, una bellissima ragazza con delle splendide gambe ben esposte, che sembrava aspettare qualcuno, non aveva l’aria di una prostituta: incoraggiato dalla birra le si avvicinò chiedendole:
“Are you waiting for me? Aspetti me?”
La ragazza, senza degnarlo di uno sguardo, sibilò qualcosa di incomprensibile che lo convinse a passare oltre senza altri approcci.
Donato, invece di ridere come al solito, cominciò a canticchiare qualcosa che aveva a che fare con la sfortunata richiesta di Giulio: non era male, ci sarebbero tornati sopra.
Il bus ritornò al Britannia nel tardo pomeriggio: giusto il tempo di una doccia, una birra e via, ad ascoltare il primo di una lunga serie di concerti, una tre giorni di musica beatlesiana destinata a concludersi con la grande maratona dell’esecuzione dal vivo di tutti, dico tutti, gli album dei Beatles.
Certo gli Hare Georgeson, gli Instant Karma, i Band on the Run, i Lenny Pane non erano male, ma dopo qualche concerto subentrò negli amici una certa noia.
La giornata più suggestiva fu la penultima del soggiorno liverpudliano (vocabolo che Giulio spendeva con orgoglio); l’organizzazione del Festival aveva convocato un concerto-party a Strawberry Field, giardino privato di una orfanotrofio nel quale il giovane Lennon andava a rifugiarsi e a isolarsi.
Certo, quella moltitudine colorata che si radunò non era molto rispettosa di quel ricordo solitario, ma tant’è; i due amici non riuscivano a porre critiche a quei giorni e a quelle fragole con panna che mangiarono con sacro rispetto sotto il tiepido sole inglese.
Quella sera scesero per la prima volta giù in discoteca, dove i convegnisti della Beatle Week si incontravano dopo le undici per ballare ed ubriacarsi al ritmo dei Quattro.
Donato e Giulio investirono un capitale in birra e whisky, vagando fra i tavoli con l’aspetto di due cacciatori attenti alla preda.
Un’irlandese brilla si allacciò come una piovra a Donato al grido di “Bello italiano, facciamo amore!” Era francamente un sacrificio troppo grande per chiunque e per lui in particolare, che lasciò cadere la cosa negando di essere italiano, il tutto mentre Giulio rideva fino alle lacrime.
“E vacci tu, che ridi tanto!”
“Io? E mica sono scemo...poi lei ama te! She loves you, yeah, yeah, yeah...”
”Falla finita!”
Mentre Giulio si girava per tornare al bar a fare rifornimento, urtò una ragazza, con la quale si scusò, per poi restare a bocca aperta: era lei, quella della fermata, vestita allo stesso modo, “Are you waiting for me?”, no, stavolta non poteva sfuggire.
Esibendo il meglio del suo inglese la invitò a bere qualcosa; con la coda dell’occhio vide Donato che lo guardava disperato, trascinato su un divano dalla rossa irlandese, giunta ormai all’assalto fisico.
“My name is Giulio, I’m forty-two and I’m italian...”
La ragazza si chiamava June e gli disse subito, ma sorridendo, che non amava troppo gli italiani, specie quelli che importunavano le ragazze alle fermate del bus.
Giulio incassò con eleganza, spacciando la cosa come uno scherzo innocente, un comportamento distante dal suo carattere timido: lei rise, chiaramente non gli credeva.
Chiacchierarono per un po’ del più o del meno; la ragazza, poi, propose di andare a mangiare qualcosa.
Uscirono dall’albergo e si infilarono in una friggitoria abbastanza squallida; a Giulio il fish and chips sembrò comunque delizioso.
June aveva venticinque anni, faceva la segretaria per un avvocato e viveva con altre due amiche in un quartiere periferico: non amava particolarmente i Beatles, forse perchè suo padre glieli aveva propinati in tutte le salse da bambina; Giulio si sentì d’improvviso vecchissimo.
“Vedi, è una questione di amore, non puoi dimenticare il primo amore e ti piace ricordartene per soffrire un poco.”
“I understand...”
In quel momento entrarono nel locale Donato, affiancato come da due gendarmi dalla rossa irlandese e da una sua amica; l’alcool sembrava aver vinto le sue resistenze e alzò le spalle, arreso, allo sguardo incredulo dell’amico.
Giulio e June uscirono a fare due passi; cominciava a cadere una pioggia sottile e la ragazza accettò sorridendo la giacca di lui per ripararsi.
Giulio era combattuto fra il desiderio di completare la conquista invitandola in camera e la paura di rovinare quel momento così sottile, così magico.
Si erano fatte le tre di notte, e le chiese se poteva accompagnarla a casa; lei lo guardò con uno sguardo interrogativo, e gli rispose che sarebbe bastato andare verso la fermata dei taxi.
Mentre saliva sulla macchina, la ragazza sembrava delusa della conclusione della serata; Giulio si maledì in cuor suo, ma sentiva che una avventura di una notte non c’entrava con i motivi per cui si trovava a Liverpool, non aveva nulla a che vedere con la persona che sentiva di essere in quel momento..
Rientrò in camera, lentamente; Donato era ancora via, ostaggio delle irlandesi; non sentì nemmeno quando tornò.
Aprendo gli occhi, il mattino dopo, incrociò subito lo sguardo di Donato, che gli disse, brusco:
“Buongiorno, niente domande, per favore.”
“Va bene, bello italiano.”
“Falla finita!”
“Restiamo qui?”
“Non dirlo due volte, mi sento più giovane di vent’anni.”
“Io mi sento un rudere, mi sento da buttare.”
Dopo colazione, ripresero l’auto e andarono per l’ultima volta agli Albert Docks: pioveva ancora, e le case dall’altra sponda del Mersey si vedevano appena oltre la foschia: a Giulio parve un paesaggio meraviglioso, un saluto stupendo da parte della città. Ma anche un invito a non tornare mai più, a conservare il tesoro della memoria per cercare di vivere meglio la vita di tutti i giorni.
John Lennon aveva scritto, in una sua canzone, una frase che calzava a perfezione con il suo sentire di quel momento:
“La vita è quello che ti succede mentre sei occupato a fare piani per il futuro.”
Guardò Donato, ancora assonnato e confuso: “Metti in moto, torniamo a casa.”
Vicenza, Ottobre 1998 - Gennaio 1999
Uomini e donne indaffarati e affannati si aggiravano per l’aeroporto, trascinando con se' bambini, bagagli e stress: tutti a godersi le vacanze, pensò Giulio, sentendosi in qualche modo estraneo e anche un po' superiore a quel movimento che lo circondava.
Lui, finalmente, ce l’aveva fatta: stava partendo per Liverpool, stava andando a vedere dove tutto era cominciato.
La calda giornata di fine agosto era là fuori, a scaldare le macchine nei parcheggi e ad arrostire la città: il cielo sembrava negare ai pochi rimasti a casa il suo autentico colore, mostrandosi incertamente grigio.
La sveglia mattutina era stata precoce ed agitata, piena di controlli al gas, alle finestre ed ai bagagli; sempre quella solita paura di dimenticare qualcosa.
Donato aveva telefonato per sapere l’orario di arrivo a Bruxelles del volo, dove una pioggia consueta attendeva Giulio.
La chiamata per l’imbarco fece muovere una piccola processione sospettosa, ognuno attento a non perdere il proprio diritto a partire ma desideroso allo stesso tempo di mostrarsi viaggiatore sciolto ed abituale.
L’aereo non era pieno, così Giulio si trovò da solo in una fila da tre poltrone: accettò di buon grado un quotidiano dalla hostess e, con un ultimo sguardo all’orologio, le sette e venti, si mise a leggere.
Solito segnale occulto, ormai sapeva individuarli: una signora inglese residente in Australia sosteneva di essere la sorella segreta di John Lennon. Incredibile, pensò, quante persone non riescono ad accettare lo stato esistenziale dell’anonimato e si coprono di ridicolo inventando legami con personaggi famosi: chissà, magari avendo esse stesse dei talenti, dei numeri sprecati scioccamente.
Il suono aspro del fiammingo, che, dopo il francese e l’inglese pareva ancora più estraneo, preparò i passeggeri al decollo; Giulio si costrinse a guardare in basso, tanto per avere conferma dall’alto della incoerenza della forma urbana di Milano, ed il cambio di visuale prospettica non modificò il suo giudizio, appena distorto dalla deformazione professionale del suo mestiere di urbanista.
Tutto a posto, disse il comandante, anticipando ai suoi passeggeri un volo tranquillo e rilassante.
Giulio non riusciva, però, a togliersi di dosso un certo nervosismo, si sentiva avvolto da quel solito immotivato senso di colpa che lo assaliva ogni volta che si allontanava da casa. Eppure sua moglie Vera lo aveva salutato con dolcezza, apparentemente felice del fatto che lui andasse a coronare quel sogno adolescenziale; sua figlia Anita, dall’alto dei suoi sei anni, gli aveva solo chiesto un regalo, “qualcosa per la musica”.
Deglutì un paio di volte per compensare l’effetto dell’altitudine e accolse con piacere l’avvicinarsi del carrello delle bevande dal fondo del corridoio.
Prese un succo d’arancia, sentendosi già molto inglese nelle abitudini e sorrise alla hostess, bionda ed educata, assumendo quell’aria melensa che tanto odiava nel prossimo, ma che normalmente non riusciva ad evitare davanti ad una donna.
Il succo era troppo freddo, ed anche il clima interno dell’aereo si era fatto più fresco: si mise la giacca, palpando come sempre la tasca interna per sentire il confortante gonfiore del portafoglio, una abitudine che contrastava con il suo modo piuttosto libero di usare il denaro: piccola rassicurante mania.
Non era stato facile, un paio di settimane prima, tovare una camera a Liverpool: la “Beatle Week” aveva riempito tutti gli alberghi fino all’inverosimile.
Giulio aveva comunque prenotato l’essenziale: da dormire e il “Magical Mystery Tour”, un favoloso giro per la città a bordo di un bus identico a quello del film.
“Roll up...” canticchiò, mentre l’aereo iniziava la discesa su Bruxelles: il tempo era proprio brutto, come si aspettava; una volta atterrati, Giulio tirò fuori il suo ombrellino tascabile dal bagaglio a mano, sentendo già inadeguato il suo abbigliamento, abito estivo con camicia a maniche corte.
Donato era, come sempre, in ritardo: la sala degli arrivi era piena di gente, appartenente alle più svariate etnie, che incontrava amici e parenti con larghi sorrisi e generosi abbracci.
Giulio si sentì un po’ solo e uscì all’aperto, fumando una sigaretta sul marciapiede, camminando avanti e indietro per scaldarsi, guardando la pioggia cadere.
Vide la Volvo dell’amico avvicinarsi a tutta velocità: bellissimo rivederlo dopo quasi due anni, un po’ più calvo ed appesantito nella figura, ma tutto sommato sempre elegante.
“E allora, ce la facciamo stavolta?”
“Tu cosa dici?”
“Dico di si, accidenti! Fatti vedere: bel vestito, è quello del matrimonio?”
“Ah,ah, spiritoso...”
“Dai, hai fame? Ho delle meravigliose pizze surgelate a casa, a proposito, la casa, vedrai!”
Giulio era felicissimo per Donato e Maria che finalmente erano riusciti a comprare una villetta alla periferia di Bruxelles.
Dopo dieci anni in Belgio si erano decisi, loro, inguaribilmente romani, a radicarsi, più che altro per le opportunità future che ciò avrebbe dato al loro unico figlio, Marco.
“Si sta bene quando la famiglia è in ferie, eh?” chiese Giulio.
“Non mi lamento: almeno riesco a suonare un po’...”
“Come va col piano, fai progressi?”
“Si, qualcosa, ma è il tempo il vero problema.”
Donato lavorava per la Comunità Europea, funzionario ben pagato ed insoddisfatto come tutti gli altri; spesso si lamentava del freddo, ma, tutto sommato, aveva trovato una buona dimensione di vita, discretamente adatta al suo carattere, almeno a parere di Giulio.
La serata divenne presto notte, fra una birra e l’altra: la casa era ancora incompleta nei dettagli ma accogliente e la soffitta dedicata alla musica coinvolse presto i due amici in caldi duetti chitarra-piano, ovviamente a tema unico, i Beatles.
Tutto era cominciato a Roma, dove Giulio e Donato avevano vissuto gli anni giovanili, compagni di classe in un Liceo Ginnasio degli anni ‘70, vissuto fra scioperi, sassaiole e pallone.
La chitarra li aveva uniti, allora, e i Fab Four erano stati il loro pane quotidiano per tanti lunghi pomeriggi a casa di Donato, dove si incontravano con l’ovvia scusa di studiare, coccolati con discrezione e calzoni al forno dalla mamma.
Era musica grezza, poco studiata ma molto appassionata; si sentivano degli eroi quando imbracciavano i legnacci che chiamavano strumenti, le corde sfilacciate e ottuse grattate con furore più agonistico che artistico.
Non si dormì molto quella notte: troppa l’eccitazione per il giorno dopo...
L’auto scivolava come una talpa nel grigio mattino belga: “le plat pays” la circondava minacciosamente, facendo sembrare nullo il suo pur veloce movimento verso Nord.
La conversazione fra Donato e Giulio parve risentire del paesaggio circostante.
“Sai, alle volte mi chiedo se non ho sbagliato tutto...” disse Giulio.
“A cosa pensi?”
“Alla mia professione, ai soldi, a quello che faccio quando mi alzo al mattino, boh...”
“Ma hai la musica, no?”
Si, la musica, eterna compagna di giochi e di lotta, pensò Giulio.
Donato proseguì: “In fondo, per noi non è mai stata solo un hobby, credi? Io la considero una ragione di vita!”
“Invece del Prozac, vero?”
“Perchè no? Ma ci pensi, avere oggi il tempo di suonare che avevamo vent’anni fa?”
“Senti, caro, stiamo facendo un viaggio nostalgico, non scivoliamo sul patetico!”
L’accelerazione improvvisa che Donato impresse all’auto fu una risposta interlocutoria e definitiva allo stesso tempo.
Il traghetto si intuiva appena nella nebbia di Ostenda: il fronte delle case con i tetti a punta pareva quasi un set cinematografico, una rappresentazione a due sole dimensioni, come se dietro non ci fossero case e persone, odori e rumori.
Mangiarono una baguette fredda con una birra calda, la ragazza al bancone aveva un faccia seria ed annoiata.
Intorno era pieno di inglesi calati a comprare alcolici a buon prezzo al duty-free: a Giulio erano simpatici solo per il fatto di parlare la loro lingua, l’idioma delle canzoni dei Quattro.
Le scogliere di Dover erano davvero bianche e sovrastate da stormi di gabbiani: Donato era eccitatissimo per la sua prima volta oltre la Manica
L’autostrada verso Londra migliorò radicalmente l’atmosfera dei due: il nastro asfaltato era fiancheggiato da morbide colline e da una incredibile gamma di tonalità di verde.
“Che meraviglia, non me l’aspettavo così!”
“Te l’avevo detto, no?”, disse Giulio con falsa indifferenza ma anch’egli colpito dall’ambiente e, più ancora, meravigliato per la facilità con la quale Donato si era adattato alla guida a sinistra.
“Let me take you down, ‘cause I’m going to...”
“Strawberry Fields...”
“Nothing is real...”
“C’è qualcosa di vero?”
“Mah, ho sempre meno certezze. Che canzone, però!”
Si accesero una sigaretta, l’ennesima, per fermare la fame che cominciava a farsi sentire.
“Ascolta, fra 20 miglia c’è Oxford; facciamo tappa?”
“Va bene, è anche una meta culturale, chissà che ti faccia bene!”
“Falla finita...”
Il bed and breakfast non era granchè, ma i letti sembravano soffici e loro erano stanchissimi.
Mangiarono un piccantissimo chili con carne in un pub lì vicino; Giulio dormì male, come al solito, dando la colpa al cibo.
La mattina seguente era fresca e assolata; Donato divorò il suo Full English Breakfast con foga e buon umore.
Ripresero la strada verso Liverpool, faticando un poco ad uscire dal centro di Oxford, inspiegabilmente trafficato.
Fabbriche e centrali elettriche cominciarono a fare mostra di sè verso Birmingham; forse era solo suggestione, ma Giulio si sentì d’improvviso sotto un cielo domestico, con quelle belle nuvole appese.
Le case a schiera della periferia di Liverpool facevano ala all’ingresso in città: l’Hotel Britannia Adelphi troneggiava alla base di una collina, sovrastato dalla strana statua del “Liverpool Resurgent”.
Il vento del mare che si incanalava nelle strade perpendicolari ai docks sapeva di America, onda atlantica rovesciata sul porto morente di una città incredibilmente viva.
L’albergo era un bolgia. Decine di persone affollavano la hall, tutte in fila con la prenotazione in mano.
Donato e Giulio storsero un po’ la bocca davanti alla brutta camera che fu loro assegnata, ma ne fecero subito motivo di scherzo, essendosi ripromessi di prendere le cose come venivano.
Dopo mezz’ora scarsa erano in piscina: l’Adelphi era un vecchio superstite dei tempi d’oro del primo Novecento, ingombro di decorazioni ridondanti ma piacevoli.
Giulio incassò con dispetto le insistenti occhiate di un anziano gay, fra le risate soffocate di Donato: il gioco della finta omosessualità, peraltro, era sempre stato una costante del loro rapporto, una sorta di esorcizzazione di quella loro parte latente.
La birra in ciabatte e coi capelli bagnati sapeva di libertà e di tempo da perdere: Giulio si sentiva sereno e, lo ammise con calma, privo di ansia per la lontananza da casa.
Mentre Donato salì in camera a riposare, Giulio andò a comperare i biglietti per gli “eventi” dei giorni successivi, che prevedevano una serie di concerti di gruppi più o meno cloni dei Beatles, di celebrazioni e di feste in discoteca e all’aperto: una pacchia.
Il mattino dopo, dopo la solita abbuffata di breakfast, girarono per mezz’ora intorno al gigantesco edificio di mattoni rossi degli Albert Docks, trovando finalmente grazie a “You like me too much”, emessa da un altoparlante stranamente non gracchiante, l’ingresso alla “Beatles Story”, il museo ufficiale dei Fab Four.
Di museo, poi, non si poteva parlare: piuttosto di una raccolta di feticci e memorabilia che a un non amante del soggetto poteva sembrare di gusto dubbio se non macabro: ma per Giulio e Donato era come ripassare le pagine di un libro già tante volte letto, alla ricerca della frase perduta o del doppio senso non colto.
Forse la cosa più emozionante era proprio l’incrociarsi dei loro sguardi, una specie di continuo trasmettersi “Allora era tutto vero, è tutto successo!”
Accompagnati dalla musica, si aggiravano fra le anguste sale del sottoscala dei Docks in cui si trovava il museo, viaggiando idealmente nel tempo fra le icone della memoria.
Giulio si sentì vagamente a disagio, all’improvviso.
Mangiarono un hamburger e una coca, anch’essi travolti dall’americanizzazione dei costumi inglesi che appariva sempre più evidente: non aveva un cattivo sapore, la situazione lo faceva diventare per incanto un cibo dell’anima.
Alle due del pomeriggio era fissata la partenza del Magical Mystery Tour.
Il torpedone multicolore arrivò in perfetto orario: ne scese per prima la guida, una splendida vecchia ragazza dagli occhi intelligenti, Edwina, così si presentò, le cui descrizioni dei luoghi sacri, accompagnate da aneddoti e citazioni, crearono subito nel bus una atmosfera complice e divertita.
Davanti ai due amici c’erano due donne, una anziana ed una giovane con una bambina di pochi anni addormentata in grembo; la loro faccia disinteressata ed annoiata faceva a pugni con l’eccitazione di Donato, che era sull’orlo della commozione.
L’incrocio sbilenco di strade suburbane che è Penny Lane apparve a Giulio e Donato in tutto il suo periferico splendore; che scherzi può fare la memoria! Chissà come si era trasfigurato quel luogo urbano, apparentemente insignificante, nella testa di Paul McCartney.
Edwina continuava a snocciolare, con il suo inglese colto che a tratti scivolava sull’accento del Merseyside, aneddoti sulla sua gioventù durante la Beatlemania.
Dopo la sosta di rito davanti al cancello di Strawberry Field, il giro toccò le case dei quattro, poverissima quella di Ringo, modesta quella di George, dignitosa quella di Paul, borghese quella di John; che strano, pensò Giulio, i loro caratteri, in fondo, rispecchiavano le rispettive origini: l’orgoglio di essere un “Working class hero” da parte di John Lennon era quindi solo una negazione un po’ isterica del proprio ceto sociale di appartenenza.
Sul bus era salita a Penny Lane una troupe della BBC, che, guarda caso, individuò in Giulio e in una giapponese i soggetti da intervistare.
Giulio balbettò al giornalista un confuso paragone fra il loro viaggio ed un pellegrinaggio religioso: Donato, in disparte, sogghignava.
Alle quattro e mezza il bus li fece scendere in Mathew Street, proprio davanti al Cavern Club; una copia del glorioso tempio dei Fab Four, ma funzionava, così come il gruppo che suonava, dei bravissimi moldavi dalle facce tristi e i vestiti fuori moda.
Dopo qualche pinta di birra, si incamminarono verso l’albergo, perdendosi subito nonostante la mappa della città che Donato aveva sempre con sé; cominciò a piovigginare.
Mentre attraversavano la strada, Giulio vide una ragazza in piedi sul lato opposto, una bellissima ragazza con delle splendide gambe ben esposte, che sembrava aspettare qualcuno, non aveva l’aria di una prostituta: incoraggiato dalla birra le si avvicinò chiedendole:
“Are you waiting for me? Aspetti me?”
La ragazza, senza degnarlo di uno sguardo, sibilò qualcosa di incomprensibile che lo convinse a passare oltre senza altri approcci.
Donato, invece di ridere come al solito, cominciò a canticchiare qualcosa che aveva a che fare con la sfortunata richiesta di Giulio: non era male, ci sarebbero tornati sopra.
Il bus ritornò al Britannia nel tardo pomeriggio: giusto il tempo di una doccia, una birra e via, ad ascoltare il primo di una lunga serie di concerti, una tre giorni di musica beatlesiana destinata a concludersi con la grande maratona dell’esecuzione dal vivo di tutti, dico tutti, gli album dei Beatles.
Certo gli Hare Georgeson, gli Instant Karma, i Band on the Run, i Lenny Pane non erano male, ma dopo qualche concerto subentrò negli amici una certa noia.
La giornata più suggestiva fu la penultima del soggiorno liverpudliano (vocabolo che Giulio spendeva con orgoglio); l’organizzazione del Festival aveva convocato un concerto-party a Strawberry Field, giardino privato di una orfanotrofio nel quale il giovane Lennon andava a rifugiarsi e a isolarsi.
Certo, quella moltitudine colorata che si radunò non era molto rispettosa di quel ricordo solitario, ma tant’è; i due amici non riuscivano a porre critiche a quei giorni e a quelle fragole con panna che mangiarono con sacro rispetto sotto il tiepido sole inglese.
Quella sera scesero per la prima volta giù in discoteca, dove i convegnisti della Beatle Week si incontravano dopo le undici per ballare ed ubriacarsi al ritmo dei Quattro.
Donato e Giulio investirono un capitale in birra e whisky, vagando fra i tavoli con l’aspetto di due cacciatori attenti alla preda.
Un’irlandese brilla si allacciò come una piovra a Donato al grido di “Bello italiano, facciamo amore!” Era francamente un sacrificio troppo grande per chiunque e per lui in particolare, che lasciò cadere la cosa negando di essere italiano, il tutto mentre Giulio rideva fino alle lacrime.
“E vacci tu, che ridi tanto!”
“Io? E mica sono scemo...poi lei ama te! She loves you, yeah, yeah, yeah...”
”Falla finita!”
Mentre Giulio si girava per tornare al bar a fare rifornimento, urtò una ragazza, con la quale si scusò, per poi restare a bocca aperta: era lei, quella della fermata, vestita allo stesso modo, “Are you waiting for me?”, no, stavolta non poteva sfuggire.
Esibendo il meglio del suo inglese la invitò a bere qualcosa; con la coda dell’occhio vide Donato che lo guardava disperato, trascinato su un divano dalla rossa irlandese, giunta ormai all’assalto fisico.
“My name is Giulio, I’m forty-two and I’m italian...”
La ragazza si chiamava June e gli disse subito, ma sorridendo, che non amava troppo gli italiani, specie quelli che importunavano le ragazze alle fermate del bus.
Giulio incassò con eleganza, spacciando la cosa come uno scherzo innocente, un comportamento distante dal suo carattere timido: lei rise, chiaramente non gli credeva.
Chiacchierarono per un po’ del più o del meno; la ragazza, poi, propose di andare a mangiare qualcosa.
Uscirono dall’albergo e si infilarono in una friggitoria abbastanza squallida; a Giulio il fish and chips sembrò comunque delizioso.
June aveva venticinque anni, faceva la segretaria per un avvocato e viveva con altre due amiche in un quartiere periferico: non amava particolarmente i Beatles, forse perchè suo padre glieli aveva propinati in tutte le salse da bambina; Giulio si sentì d’improvviso vecchissimo.
“Vedi, è una questione di amore, non puoi dimenticare il primo amore e ti piace ricordartene per soffrire un poco.”
“I understand...”
In quel momento entrarono nel locale Donato, affiancato come da due gendarmi dalla rossa irlandese e da una sua amica; l’alcool sembrava aver vinto le sue resistenze e alzò le spalle, arreso, allo sguardo incredulo dell’amico.
Giulio e June uscirono a fare due passi; cominciava a cadere una pioggia sottile e la ragazza accettò sorridendo la giacca di lui per ripararsi.
Giulio era combattuto fra il desiderio di completare la conquista invitandola in camera e la paura di rovinare quel momento così sottile, così magico.
Si erano fatte le tre di notte, e le chiese se poteva accompagnarla a casa; lei lo guardò con uno sguardo interrogativo, e gli rispose che sarebbe bastato andare verso la fermata dei taxi.
Mentre saliva sulla macchina, la ragazza sembrava delusa della conclusione della serata; Giulio si maledì in cuor suo, ma sentiva che una avventura di una notte non c’entrava con i motivi per cui si trovava a Liverpool, non aveva nulla a che vedere con la persona che sentiva di essere in quel momento..
Rientrò in camera, lentamente; Donato era ancora via, ostaggio delle irlandesi; non sentì nemmeno quando tornò.
Aprendo gli occhi, il mattino dopo, incrociò subito lo sguardo di Donato, che gli disse, brusco:
“Buongiorno, niente domande, per favore.”
“Va bene, bello italiano.”
“Falla finita!”
“Restiamo qui?”
“Non dirlo due volte, mi sento più giovane di vent’anni.”
“Io mi sento un rudere, mi sento da buttare.”
Dopo colazione, ripresero l’auto e andarono per l’ultima volta agli Albert Docks: pioveva ancora, e le case dall’altra sponda del Mersey si vedevano appena oltre la foschia: a Giulio parve un paesaggio meraviglioso, un saluto stupendo da parte della città. Ma anche un invito a non tornare mai più, a conservare il tesoro della memoria per cercare di vivere meglio la vita di tutti i giorni.
John Lennon aveva scritto, in una sua canzone, una frase che calzava a perfezione con il suo sentire di quel momento:
“La vita è quello che ti succede mentre sei occupato a fare piani per il futuro.”
Guardò Donato, ancora assonnato e confuso: “Metti in moto, torniamo a casa.”
Vicenza, Ottobre 1998 - Gennaio 1999
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