The game
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The game
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PROLOGO
“For good or ill,let the wheel turn.
The wheel has been still,and no good.
For ill or good,let the wheel turn.
For who knows the end of good or evil?
Until the grinders cease
and the door shall be shut in the street,
and all the daughters of music shall be brought low”.
T.S. Elliot
(“murder in the cathedral”).
La testa gli doleva come se gli avessero conficcato degli aghi roventi nei punti nevralgici delle suture ossee.
Si alzò a sedere e l’operazione in sé semplice parve costargli una fatica immensa.
Non rammentava di essersi mai sentito tanto stanco in tutta la sua vita;non rammentava, a dire il vero, di aver mai provato una sensazione di tale disagio; non poter contare sulla piena efficienza fisica era un’esperienza che avrebbe gradito non sperimentare.
Poggiò i piedi sul pavimento e fu costretto a reggersi al bordo ligneo del comodino per impedirsi di rovinare sul pavimento.
Si voltò verso il lato opposto del grande letto matrimoniale sfatto, Martha giaceva immobile, a pancia sotto, con i capelli arruffati che ricoprivano per intero il cuscino sul quale era adagiata.
Buffe creature le donne, pensò, si accontentano di credere a tante sciocchezze pur di aggrapparsi all’idea stessa dell’amore.
Tra poco sarebbe sorto il sole, doveva svegliarla e mandarla via con una scusa; alle dieci e mezzo cominciavano le riprese, aveva ancora molte cose da preparare, una sbornia da smaltire, un aspetto gradevole da riconquistare.
Si trascinò in bagno e quando accese la luce la violenza del neon gli fece lacrimare gli occhi.
“Cristo” imprecò.
Aprì il rubinetto della doccia e si infilò sotto il getto d’acqua fredda senza insaponarsi, rimase immobile finché i lunghi capelli neri non si appesantirono impedendogli di muoversi con facilità, Jason,il suo fac totum, insisteva che fosse proprio giunta l’ora di tagliarli, che era in fine arrivato il momento giusto per un cambio radicale d’immagine.
Forse aveva ragione.
Forse era davvero il caso di dare un taglio radicale a molte cose.
Uscì dalla doccia gocciolante, prese un asciugamano dal bastone d’ottone vicino al lavandino e se lo attorcigliò in vita.
“Buon giorno” sussurrò alla sua immagine riflessa nello specchio illuminato .
Gli scavi neri sotto le palpebre inferiori erano testimonianza della notte brava appena trascorsa,un po’ di correttore e qualche riflettore puntato nel verso giusto avrebbero posto riparo all’inconveniente.
Tornò in camera da letto, Martha non aveva neppure cambiato posizione, anche lei portava sulla pelle i segni della notte.
Sorrise.
S’incamminò verso la cucina e vide una pozza traslucida che lambiva appena lo stipite della porta, doveva aver versato qualcosa la notte precedente, forse del JD. Avvicinandosi notò che la macchia era di dimensioni ragguardevoli e di consistenza appiccicosa.
Si chinò dolorante ed intorpidito e sfiorò la superficie con la punta delle dita .
Rosso.
Gelatinoso.
Animato da un pungente odore di ferro.
Sangue.
Accese la luce della cucina e si trovò dinnanzi ad uno spettacolo che difficilmente sarebbe stato in grado di dimenticare: schizzi di plasma ricoprivano quasi interamente le pareti bianche, impronte di piedi scalzi avevano tracciato sul pavimento lunghi solchi; qualcuno era stato trascinato,qualcuno era stato ferito, qualcuno doveva essere morto là dentro.
Quando?
Sul tavolo era abbandonato un grosso coltello per affettare il pane, non potè fare a meno di avvicinarsi e prenderlo in mano, sulla lama erano rimasti piccoli brandelli rosa, grumi rossi, alcuni capelli biondi.
Restò immobile con l’arma stretta nella mano, gli occhi sbarrati ed un singolare senso d’euforia.
Avanzò verso il lavabo, rammentava di aver usato il tritarifiuti poco prima di andare a letto...
Guardò nel bacinetto di acciaio e quello che vi trovò non lo sorprese più di tanto: un dito ammiccava lascivo dal foro dello scarico, un dito la cui falange terminava con un’unghia laccata di rosso e fresca di manicure.
Il coltello gli cadde di mano.
Cosa era successo?
Possibile che...
Era confuso, stanco,f orse era meglio lasciare tutto così com’era ed andare sul set. Quando fosse rincasato l’indomani avrebbe sicuramente trovato una spiegazione logica a ciò che stava vedendo.
Certo, una spiegazione, una spiegazione esiste sempre, si ripeteva.
E se non gliene fosse venuta in mente nessuna allora avrebbe chiamato Jason, lui avrebbe saputo senz’altro cosa fare.
Martha.
Dovette sedersi sul divano del soggiorno.
Come avrebbe fatto ad occultare tutto in modo che non si accorgesse di nulla?
Bel problema.
Non era necessario che la facesse entrare in cucina, si sarebbe messa ad urlare ed era l’ultima cosa di cui aveva bisogno, attirare l’attenzione di quei bacchettoni dei vicini che non avevano mai accettato la sua presenza in quel rispettabile condominio .
L’avrebbe elegantemente messa alla porta,senza troppe spiegazioni e senza ulteriori coinvolgimenti, poi avrebbe ripulito sommariamente la cucina ed avrebbe lasciato le chiavi dell’appartamento a Miss Wingle che da brava colf professionista avrebbe riassettato il resto senza fare troppe domande, anche perché non avrebbe proprio saputo cosa risponderle.
Entrò in camera da letto con passo pesante:
“Martha” chiamò con voce sostenuta,i capelli ancora bagnati stavano gocciolando sul lenzuolo sotto di lui.
“Svegliati, devi andare, su...”.
Con un rapido gesto scostò il copriletto ed urlò.
Tutto ciò che restava della comparsa di nome Martha Right era una graziosa testolina riccia reclinata su un cuscino ed una lunga gamba abbronzata con le dita dei piedi laccate di arancione.
(Che pessimo gusto) pensò mentre l’urlo si spazzava in una fragorosa risata.
Si sedette pesantemente sulla sponda del letto, il volto sprofondato fra le mani, uno stordimento che si avvicinava quasi ad un’estasi mistica e la profonda consapevolezza che il mondo aveva smesso di girare nella solita direzione.
Lo squillo del telefono gli strappò un grido che trattenne a stento contro il dorso della mano, si voltò istintivamente nella direzione della donna, o meglio di ciò che ne restava. Per un assurdo interminabile attimo credette che quel rumore l’avrebbe fatta sussultare, ma osservando i resti mortali della ragazza non poté fare a meno di sorridere di quel timore...Strano, non riusciva a far altro dall’inizio di quella psichedelica avventura.
Rispose.
“Pronto?”la voce era calma, incrinata da un’appena percettibile vena di isteria.
“David Johansen?”.
“Sì”.
“Come va bastardo?”.
La voce dall’altro capo del filo era maschile e del tutto aliena ad ogni suo ricordo,ma non fu difficile intuire che il proprietario di quella voce anonima conoscesse, Dio solo sapeva come, quello che era appena accaduto. All’improvviso David si sentì sollevato, finalmente lo avrebbe saputo anche lui.
“Ho visto giorni migliori,e suppongo che lo sappia anche tu”.
Dall’altro capo del filo risuonò una risata sottile ed acuta,quasi femminea.
“Giusto, bastardo. Lo so benissimo”.
Silenzio.
“Scommetto che nessuna aveva mai perso la testa così per te...”. Altre risa.
David inarcò le sopracciglia ed imprecò fra i denti.
“Come sei entrato in casa mia?”.
“E chi ti dice che lo abbia fatto?”.
“C’è un festino a base di sangue nella mia cucina, una testa mozzata nel mio letto...”.
“E un dito nel tuo tritarifiuti”.
“Già, l’ho notato.” Calmo, si ripeteva mentalmente, stai calmo, non farlo innervosire, tenta di venire a capo di tutta questa faccenda, potrebbe non esserci un secondo ciack per questa scena.
“Cosa vuoi da me?”.
“Credevo che fosse palese, bastardo,voglio cancellarti dalla faccia della terra”.
(Cristo).
“Perché?”.
“Perché sei un miserevole guitto, un attore da quattro soldi che interpreta eroi neri solo perché ha la stazza per farlo. Sei finto come un biglietto da tre dollari e prima o poi se ne accorgeranno anche quei pazzi che vanno a vedere i tuoi film al cinema. Il mostro, il serial killer perfetto...fammi vedere come sei bravo a salvarti il culo adesso”.
Era scioccato.
Per diversi minuti non riuscì a far altro che guardarsi intorno alla disperata ricerca di un appiglio, di una risposta sagace ed intelligente che avrebbe messo lo psicotico dall’altro capo del filo in scacco costringendolo a raccontargli come erano andati i fatti, ma tutto ciò che fu capace di emettere fu un misero singulto che fortunatamente risultò muto..
“Sei ancora lì?”.
“Dico a te, bamboccio, sei ancora lì?”.
L’urlo perentorio dello sconosciuto lo fece ripiombare a terra con la violenza di un sacco di sabbia.
“Sì, ci sono. Hai tutta la mia attenzione”.
“Bravo”.
“Perché l’hai uccisa?.” pausa “L’hai uccisa tu, vero’”.
“Certo che l’ho fatto io, tu non saresti in grado neppure di firmare gli autografi se non avessi sempre qualcuno pronto a sorreggerti”.
“Si può sapere cosa cazzo vuoi da me?”.
La comunicazione venne interrotta improvvisamente e si ritrovò a fissare attonito il ricevitore divenuto sinistramente silenzioso.
Il panico finalmente fece il suo dovere e lo ridusse in sua schiavitù. Si immaginò piccolo e bianco come una di quelle cavie da laboratorio che corrono all’infinito dentro un cerchio di plexiglas, mentre qualche scienziato occhialuto osserva la scena con un cronometro in mano calcolando quanto impiega il cuore di quell’esserino peloso ad esplodere se sottoposto ad eccessivo sforzo. Il suo quanto avrebbe impiegato a giungere al traguardo? Improvvisamente fu assalito da un’incontrollabile voglia di bere. Frugò fra le bottiglie che teneva sparse all’interno dell’elegante mobile bar che gli aveva regalato il suo agente quattro anni prima, ne estrasse una a caso e tirò giù una possente e bruciante sorsata di vodka.
Non servì a far sparire il dito dal tritarifiuti né tanto meno a cancellare le tracce di sangue che avevano ridipinto metà della casa.
Il telefono trillò di nuovo.
Corse.
Inciampò sul bordo di legno del letto, il dolore lo trafisse improvviso e crudele, strappandogli un paio di lacrime dagli occhi arrossati ed un brandello di pelle dallo stinco destro.
“Pronto?” trafelato.
“Spero tu sia maggiormente propenso al dialogo ora”.
“Sì, lo sono”
“Ci avrei scommesso. Ho tre cose da dirti bamboccio, apri bene le orecchie perché non ho alcuna intenzione di ripetermi”.
“Ti ascolto”.
“Primo, le domande le faccio solo io, e se mi va fornisco anche le relative risposte, non voglio essere interrotto dalle tue insensate suppliche o da qualunque fetida esalazione effluvi dalle tue labbra”.
Si astenne dal replicare.
“Secondo: il resto della ragazza non è affatto andato distrutto, è in casa tua,nascosto e a dire il vero neanche troppo bene, sai ieri sera avevo una certa di premura di...abbandonare il luogo del delitto” altre risate, David cominciava a temere che avrebbe udito l’eco di quei versi ogni attimo della sua vita, sempre ammesso che ne avesse ancora una da vivere.
“Terzo: hai esattamente due ore di tempo a partire da ora per rimettere insieme il puzzle e disfarti del cadavere che sarai riuscito a ricomporre. Allo scadere del centoventesimo minuto ti avvertirò con uno squillo, sarà il segnale che ho chiamato la polizia per avvertirla di rumori che provengono dall’abitazione del famoso attore di cult horror movie David Johansen, con tutti i precedenti per rissa ed ubriachezza molesta che hai sulle spalle non tarderanno a precipitarsi da te e se non sarai riuscito a sbarazzarti della salma....bhe...temo che la tua carriera di divo subirà un tragico arresto. Ti saluto buffone”.
“Aspetta” quasi gridò.
Silenzio, solo il ronzio della linea, temette che l’uomo avesse nuovamente interrotto la conversazione.
“Ti ascolto ma fa in fretta”.
“Dimmi solo cosa esattamente devo trovare, ti prego, questo me lo devi, non potrei mai riuscirci altrimenti”.
Pausa,stava riflettendo sul da farsi.
“Va bene, questo posso accordartelo...dunque...in tutto ci sono cinque tronconi che devono essere ritrovati più , ovviamente, le interiora;la ragazza aveva un intestino quanto mai in disordine, alimentazione sregolata, sarebbe diventata obesa in pochi anni se avesse continuato a mangiare così, meglio aver evitato che accadesse. Hai due ore, bamboccio, buona caccia, il gioco comincia ora”.
Il sibilo metallico della linea interrotta si unì con il crepitio elettrico del corto circuito dei suoi neuroni.
Riagganciò.
Si voltò un’ultima volta in direzione della testa mozzata e non trovò consolazione nell’espressione assonnata dipinta su quel volto,per la prima voltò notò che anche i capelli biondi sparsi in ricci scomposti sul cuscino erano venati in più punti da screziati toni di arancio che si dipartivano in fili sottili come seta di ragno dal collo reciso, la pelle aveva subito diverse lacerazioni ed i brandelli di tumefatti e quasi anneriti dal sangue che si era rappreso nei capillari cutanei, protrudevano dall’attaccatura come sottili tentacoli.
Si sorprese dell’innumerevole mole di particolari per lo più inutili che la mente è in grado di captare quando è sollecitata e fortemente sovraeccitata.
Dubitava che alcuno dei pensieri che lo stavano distraendo in quel frangente gli sarebbe risultati di una qualunque utilità, il tempo correva via inesorabile...tic...toc...tic...toc...
Balzò in piedi e si precipitò in cucina,certamente la mattanza doveva aver avuto luogo lì, rimaneva solo da accertare come l’estraneo si fosse introdotto in casa e sua e per quale gioco del destino lui non si fosse accorto assolutamente di nulla. Probabilmente l’uomo lo aveva drogato, ma perché?
Ora non aveva alcuna importanza, ci sarebbe stato modo e luogo di appurare la meccanica dell’accaduto, adesso doveva solo riuscire ad uscire integro ed innocente da quella paranoica versione de “Ai confini della realtà”.
Sorrise, una parte di lui non aveva nessuna remora nell’ammettere che non si divertiva così da anni.
Cinque parti anatomiche.
Una gamba.
Due braccia,di cui una priva della rispettiva mano.
Il tronco....
Ne mancava uno.
Ma...
Era meglio iniziare la caccia.
Cominciò a canticchiare un vecchio pezzo dei Rolling Stones, non li amava particolarmente ma quel ritornello gli affiorò alle labbra arse in maniera autonoma,scevro da ogni controllo.
“...if you start me up...”.
Ispezionò la cucina millimetro per millimetro ripetendo a bassa voce sempre il medesimo ritornello.
Nulla, a parte i cinque litri di plasma versati in ogni dove.
Il frigo.
Era immacolato.
Lo spalancò e...bingo...prego passi a ritirare il premio alla cassa. Preferisce un ‘orso di pezza o un papero di gomma?
“Mi accontento anche di questo, grandissimo figlio di..”.
Trasse il braccio mutilato della rispettiva mano senza batter ciglio, era stato gettato in fretta sopra un paio di contenitori termici per gli avanzi che a quanto rammentava dovevano essere colmi di lasagne precotte.
Osservò la sottile traccia traslucida di brina che si era formata lungo la pelle abbronzata ,l’intero avambraccio era costellato di piccole ecchimosi a forma di stella, sicuramente traumi inflitti alla parte dopo che era stata asportata.
Tornò in camera da letto e lo gettò accanto alla testa che rotolò sinistramente in direzione della parte di sè che era stata così irrispettosamente lanciata.
“Non temere, tesoro”mormorò “fra poco ti porterò anche il resto”.
Entrò in salotto.
Sembrava tutto perfettamente in ordine, la tv era in stand by, lo stereo spento, il tavolino ingombro delle solite cartacce ....
Si avvicinò al piccolo tavolo a bacheca, si accucciò fino a sfiorare la superficie liscia e fredda del cristallo con la guancia ispida della barba di due giorni.
C’era qualcosa che attirava la sua attenzione, o meglio i suoi sensi acuiti dalla tensione avevano captato qualcosa che i suoi occhi faticavano a scorgere.
Restò così per un tempo che parve infinito...tic...toc.
“Andiamo....concentrati”.
Riflesso sul poco spazio sgombro del tavolo d’appoggio riusciva ad intravedere una forma arcana,quasi un archetipo che somigliava a...
Si alzò e salì sulla spalliera del divano rischiando di rovinare precipitosamente sul pavimento di marmo nero.
Adagiata sul lampadario con lasciva voluttà faceva bella mostra di sé l’altra gamba di Martha,con il medesimo smalto arancione ad imbrattarle le dita del piede.
Non fu facile disincastrare l’arto irrigidito dal rigor mortis dal braccio d’ottone del lampadario che oppose una ferrea resistenza costringendolo ad afferrarlo con entrambe le mani strattonandolo ripetutamente fino a quando non ebbe la meglio piombando sul suo fondoschiena che produsse uno rumore spiacevolmente simile a quello di cocci infranti quando urtò con violenza il tavolino mandandolo in frantumi.
Si tirò su infarcendo lo sforzo fisico di una certa dose di inutili ed artificiosi improperi. Fece ritorno in camera da letto e buttò la gamba nelle immediate vicinanze degli altri resti.
“Se tutto procede bene, tesoro, fra poco ti porto a fare un giro in macchina, vedrai ci divertiremo”.
Scoprì che parlare con Martha era rilassante.
O.k., due pezzi anatomici erano stati ritrovati...ed ora?
Il tronco. Era senza ombra di dubbio la parte più difficile da occultare; le dimensioni non avrebbero consentito a “lui”, il pazzo era diventato semplicemente “lui” nella sua testa, credeva che spersonalizzandolo sarebbe stato più semplice non farsi prendere dal panico e continuare solamente a giocare,di lasciarlo in giro con altrettanta semplicità.
Ripercorse interamente passo dopo passo l’area dell’appartamento: il bagno, la camera da letto, il salotto, la cucina, la sala del telefono (come amabilmente aveva ribattezzato il disimpegno che si trovava fra le prime due stanze del corridoio, appellato così per la banale ragione che generalmente era tramite quel telefono che interloquiva con il suo agente. Scaramanzie da divo).
La stanza degli ospiti era ancora chiusa a chiave e quando vi entrò fu colto dall’odore pungente del lucido per i mobili che la sua domestica tutto fare non lesinava affatto nella vana speranza che prima o poi quella stanza venisse occupata, David negli ultimi tempi era diventato l’equivalente di un eremita misogino e misantropo sulla cui scala personale da uno a dieci il suo interesse per il genere umano si arrestava attorno alla posizione uno,di qualche amico aveva pur bisogno.
Tornò al punto di partenza, seduto accanto al corpo in via di ricomposizione che giaceva come una bambola di pezza scucita sul letto matrimoniale che recava impresse le tracce di differenti liquidi corporei che risultava difficile distinguere.
Non aveva giardino e questo, almeno, restringeva le ipotesi.
Non aveva solario, l’appartamento era sito al terzo piano di un’elegante palazzina abitata per lo più da anziani liberi professionisti in meritata pensione che avevano visto l’arrivo della star degli horror di serie b nel loro delizioso e tranquillo condominio come una manciata di sabbia negli occhi.
Ma aveva una cantina. O meglio, un box di media grandezza dove aveva trasferito metà dei suoi effetti personali e scenici.
Corse verso il corridoio dove un enorme porta di legno scuro si spalancava su un lungo andito alle cui pareti erano saldamente infissi due lunghi bastoni d’ottone dai quali pendevano vestiti e soprabiti e cappotti, un guardaroba degno di un gentleman inglese, attrezzato per ogni esigenza e ricorrenza, l’ultimo custodia in fondo a destra celava un costosissimo completo di raso nero, sotto alla giacca avvitata era ben riposta e perfettamente stirata una camicia di seta bianca con ampi polsini di pizzo, l’abito con il quale sarebbe stato sepolto.
Cercò nella cassettiera che era posta a destra dell’entrata e nell’ultimo cassetto trovò un mazzo di chiavi tenute insieme da un laccio di cuoio. Erano all’incirca una quindicina ed appartenevano alle serrature di tutte le porte d’ingresso delle case che aveva cambiato negli ultimi sedici anni, bella media di fughe precipitose, riflette divertito.
Pescò quella più lucida e pulita che recava impresso il numero 6 in rosso scarlatto, uscì dall’appartamento stando ben attento a non suscitare l’interesse dei vicini e sgattaiolò fino al semi interrato. Infilò la chiave nella toppa con il cuore che aveva preso all’improvviso a battergli con rinnovato vigore ed inaspettato tumulto, sentiva il pulsare ritmico del sangue gonfiargli ad intermittenza la vena sulla tempia destra ed uno sciame di farfalle impazzite sembrava danzare una macumba africana alla sommità del suo esofago. Era eccitato, come non gli capitava da tempo.
L’odore di muffa vecchia e di nuova polvere lo fece starnutire, trovò a tentoni l’interruttore della luce sulla sinistra della parete e qualcosa di leggero ed agile gli sfiorò le dita della mano facendogliele ritrarre alla svelta. Non era la prima volta che scendeva in quello scantinato e non era la prima volta che la vista dei suoi costumi di scena e delle parrucche gli provocava un’impercettibile ma persistente senso d’irritazione alla base del collo. Passò accanto ad un paio di bauli accatastati ingombri di vecchie sceneggiature accettate e rifiutate, urtò un manichino sul quale erano ammonticchiati almeno tre diversi mantelli da vampiro ed in fine scorse ciò che cercava.
Stavolta “lui” era stato non solo sadicamente macabro, ma drammaticamente divertente: il tronco della povera Martha con indosso un delicato completo intimo rosa, era comodamente assiso su una vecchia poltrona di pelle, cimelio del primo film che Johansen aveva girato all’incirca vent’anni prima, uno splatter che aveva per protagonista uno psicanalista cannibale, una versione analoga, ma meglio interpretata, aveva valso ad uno scialbo inglese di nome Anthony Hopkins la statuetta d’oro.
L’enorme foro irregolare che coincideva al tavolato degli addominali, faceva vedere con chiarezza i muscoli della fascia renale e gli ultimi corpi vertebrali del tratto dorsale. L’assassino doveva aver avuto veramente un mucchio di tempo per poter compiere un’eviscerazione degna di un cuoco cinese.
L’assenza del capo e degli arti rendevano la visione sensualmente oscena.
Bene.
Ora era necessario portarla di sopra.
Diede una fugace occhiata all’orologio: quasi le undici del mattino. Fra poco più di un’ora la sua caccia al tesoro si sarebbe forzatamente conclusa ed anche la sua vita, probabilmente.
Prese una cesta di vimini vuota che giaceva abbandonata in un angolo, vi spinse dentro il tronco della ragazza e coprì il tutto con uno dei mantelli che aveva urtato poco prima.
Uscì dal box chiudendosi la porta alle spalle. Si voltò con la cesta stretta fra le braccia ed una voce lo fece sobbalzare:
“Facciamo pulizie mr. Johansen?”.
Era la megera del piano di sopra,consorte di un vecchio medico in pensione che per tutta la sua miserrima vita si era occupato di scaldare ed inserire clisteri, forse per questo aveva finito con lo sposare una donna il cui fondoschiena era difficilmente distinguibile dalla faccia.
“Già” replicò vago.
“Senta, forse non dovrei metterla i guardia, ma credo che alla prossima riunione i condomini vogliano chiederle di abbandonare lo stabile, sa...questo è un complesso residenziale in maggioranza abitato da gente...comune...ecco e quel continuo va e vieni di donne ...bhe...”.
(Se sapessi come le donne perdona la testa per me vecchia bastarda esiteresti dal pronunciarti oltre).
David prese a risalire agilmente le scale senza neppure replicare e la signora Moore, così si appellava, continuò a sbraitare le sue proteste con il tono di voce che diveniva man a mano più stridulo e starnazzante.
Solo nell’appartamento vuoto si rese conto del tanfo che stava pervadendo l’ambiente: la donna era morta, probabilmente, lottando ed il quantitativo di adrenalina liberata mista alle catecolamine endogene aveva esacerbato l’odore della sua carne che ora iniziava a virare verso quel caratteristico e pungente sentore acido e dolciastro che chiunque abbia soggiornato anche per un breve periodo in una sala settoria riesce difficilmente a rimuovere dalla memoria delle sue terminazioni olfattive.
Vuotò il contenuto della cesta sul letto: l’immagine che si sarebbe parata dinnanzi agli occhi di un qualunque mal capitato sarebbe apparsa troppo irragionevole e distorta per sembrare solo vagamente reale, ma il tanfo e lo strano colore verde arancio che impregnava gli slip della ragazza dove plasma e bile avevano creato uno cocktail inconsueto e difficilmente ripetibile, conferivano alla visione un che di soprannaturale.
I visceri.
Se “lui” fosse stato di origine egizia avrebbe iniziato a fracassare tutti i vasi dell’appartamento,ma dubitava che la fortuna,dio o chi per loro lo avrebbe assistito in un tale frangente.
Visceri.
Frattaglie.
Interiora.
Tic...toc...
Meno sessanta minuti all’ora x.
Mancavano all’appello 12 metri di intestino ed un braccio,poi restava da rassettare la cucina e far sparire le tracce di sangue che praticamente si annidavano in ogni angolo della casa.
Interiora.
Una volta durante le riprese di un noir di dubbio gusto, ma di grosso ritorno economico, aveva dovuto soggiornare per circa una settimana in uno squallido alberghetto sperso e dimenticato nella campagna inglese, non rammentava neppure il nome del punto nero sulla carta geografica che avrebbe in teoria dovuto essere una città e che al loro arrivo aveva svelato tutto l’antico fascino di un cimitero abbandonato anche dagli spettri.
Nella prima sera di permanenza in quel tugurio la proprietaria, nonché unica cuoca dello stabile, aveva preparato una sorta di spezzatino immerso in una salsa piccante e speziata, la cosa peggiore che avesse mai avuto la disgrazia di ingurgitare, quando aveva chiesto cosa fosse, si era sentito replicare che si trattava di un’antica ricetta locale a base, essenzialmente,di frattaglie di pecora. Imparò una lezione fondamentale quella sera:non domandare mai troppo, si può sempre correre il rischio di trovare la soluzione ai propri quesiti, l’ignoranza, a volte, è un gran rifugio.
Ma cosa diavolo aveva a che fare quello stupido albergo con...
Accidenti.
Gesùdivino, Mazinga Z, Daitan 3 e tutti i signori dell’universo...
Si precipitò in cucina notando che la pozza di sangue che rivestiva più o meno uniformemente il linoleum un tempo verde, aveva perso la fluidità assumendo una consistenza gelatinosa ed appiccicaticcia.
Aprì il forno ed esultando trasse da esso una pirofila trasparente che non rammentava neppure di possedere dove erano state pazientemente arrotolati gli intestini di Martha, per ovviare all’odore di fluidi e solidi organici che senza ombra di dubbio si annidavano al suo interno “lui” aveva innaffiato la pietanza con abbondante aceto tanto che ora non si sarebbe potuto discernere esattamente da un esame approssimativo se si trattasse o meno di residui di natura umana.
Accese il forno,tolse la griglia forata di protezione e rovesciò il contenuto della pentola sulle fiamme blu aranciate originate dalla combustione del gas metano, chiuse prima che un refolo d’aria potesse fiaccare lo sfavillio del fuoco.
Il braccio.
Meno quaranta minuti all’ora x.
Improvvisamente si rese conto che non ce l’avrebbe mai fatta, avvertiva una spiacevole sensazione di tensione al centro della testa ed un rumore sordo, come una vibrazione lontana gli solleticava entrambi i timpani; probabilmente stava per restare stroncato da un ictus.
Pazienza.
Sempre meglio della galera.
Il completo per la sepoltura era pronto e ben riposto nel guardaroba, al resto avrebbe pensato Jason...
Il guardaroba.
Entrò, gettò tutti gli abiti sul pavimento, vuotò le scatole che contenevano scarpe e stivali, scaraventò giù dal soppalco i bauli e le valige, nulla. Possibile che... Prese il telo che copriva il suo ricercatissimo completo funebre, quello che migliaia di fotografi avrebbero immortalato quando sarebbe stato esposto, giovane e bellissimo suicida, in uno splendido sarcofago di cristallo.
Il rumore della cerniera lampo lo assordò, ma eccolo lì,far capolino come un singolare serpente marino dal collo slacciato della camicia di candida seta ora macchiata di sangue rappreso.
La mano ammiccava con un esplicito gesto di sfida che “lui” aveva ricavato incastrando il primo e le ultime due falangi contro il ferro della stampella e poggiando il medio ritto contro il gancio della medesima.
“Figlio di puttana”imprecò David.
Venti minuti.
Tic..Toc..
Il puzzle era stato ricomposto, ogni tessera del mosaico aveva trovato al fine giusta collocazione, restava un unico piccolo irrisorio problema: come sbarazzarsi del corpo e cancellare le tracce che lo avrebbero reso apertamente reo dinnanzi ai piccoli uomini in divisa blu che fra poco avrebbero fatto irruzione nell’appartamento?
“Pensa, maledizione”si obbligò.
E come un rosa che sboccia fra la neve così un’idea balzana germogliò fra i suoi pensieri sconnessi.
Vendetta.
Prese un sacco di tela dal lavabo sotto la cucina, ne aveva una scorta imbarazzante, la sua colf li usava per portar fuori l’immondizia e scherzando sovente aveva fatto allusione che erano talmente capienti che avrebbero potuto ospitare un cadavere, non aveva il più vago sentore di quanto avesse avuto dannatamente ragione.
Infilò i pezzi anatomici di Martha nel sacco, lo annodò saldamente con un pezzo di corda e si mise il tutto in spalla.
Scese rapidamente le scale, il tempo a sua disposizione era praticamente quasi scaduto, non poteva permettersi il lusso di guardarsi furtivamente alle spalle. Giunse trafelato, gli anni cominciavano a farsi sentire, al parcheggio interno dello stabile, aprì non senza difficoltà il cofano della sua auto e vi scaraventò il pacco natalizio dentro.
Chiuse, si guardò finalmente intorno per accertarsi di non essere stato visto da nessuno e quando ne fu quasi matematicamente certo fece precipitosamente ritorno in casa.
Entrò nel bagno e prese un flacone di alcool etilico che teneva nella cassetta del pronto soccorso e lo versò interamente sulla coperta intrisa del sangue di Martha.
Si recò nel salotto vuoto e silenzioso ora inondato di sole caldo e denso di odori estivi, prese dal mobile bar la bottiglia di vodka ed alcuni altri liquori e cominciò a schizzare in giro per le stanze il loro contenuto,riservando il quantitativo maggiore per la cucina,ovviamente.
Pescò l’accendino dalla tasca posteriore dei pantaloni (quando se li era infilati?Non lo rammentava,doveva averlo fatto in un momento imprecisato di quella folle corsa), lo accese ed avvicinò la fiammella alla scia di liquido alcolico che faceva capolino dalla soglia della cucina, come nel trailer del “Corvo” il fuoco si propagò seguendo la scia che egli stesso aveva tracciato, solo che invece delle ali di un uccello lui vide apparire il miraggio della fine di un incubo.
Compì il giro completo dell’appartamento e quando fu certo che ogni stanza avesse preso a bruciare,afferrò il cellulare e corse sul pianerottolo.
Compose il numero della polizia.
Una voce stanca e professionale dalla sessualità indefinita gli rispose:
“Qui distretto di polizia, posso esserle d’aiuto?”.
“Mi trovo al 110 di Prospect Place, la mia casa sta andando a fuoco”disse gridando” credo sia doloso, vi prego mandate qualcuno immediatamente”.
“Esca subito ed attenda fuori, i pompieri giungeranno in breve”.
“Vi prego sbrigatevi!”.
“Non si preoccupi, faremo il prima possibile, ma lei mantenga la calma e non si avvicini alle fiamme”.
Chiuse la comunicazione e fischiettando scese le tre rampe di scale che lo separavano dalla strada sottostante. Una volta giunto di fronte al portone d’entrata si appoggiò con le spalle ad un furgone addetto al trasporto di mobili, si accese una sigaretta,inalò profondamente e ricominciò a canticchiare quella vecchia e noiosa canzone degli Stones.
I pompieri giunsero in modo realmente tempestivo, neppure il tempo di fumarsi in pace una meritata sigaretta,pensò.
L’incendio si dimostrò più ostico del previsto, l’appartamento era interamento arredato in legno e l’abbondante tappezzeria aveva alimentato generosamente le fiamme rendendo l’intervento della squadra più complicato di quanto si potesse in origine prevedere, gli enunciò il capo dei vigili del fuoco, quasi a giustificare il fatto che l’intera dimora fosse andata irrimediabilmente distrutta nel rogo. Il rossore che gli animava le guance quando gli chiese l’autografo lo fece rabbrividire.
Due ore dopo era tutto finito.
Gli uomini in tuta arancione se ne erano andati, i poliziotti dopo aver fatto i rilevamenti del caso non erano stati in grado di affermare con certezza che l’incendio fosse di origine dolosa, ma certamente era un’ipotesi che non poteva essere scartata in prima istanza, sarebbe stata una pista da battere, sa - gli aveva sussurrato l’agente Scanner - lei è una persona famosa-aveva enfatizzato quella parola come se si fosse trattato di una formula magica - è naturale che possa diventare il bersaglio di qualche esaltato a cui piacciono troppo i suoi film.
Rimasto solo montò in macchina ed appoggiò la testa contro le mani intrecciate sul volante, attento a non far suonare il clacson.
Improvvisamente la portiera dal lato del passeggero si aprì e Jason Collins, manager, amico e fac totum del grande attore David Johansen, fece il suo ingresso sorridendo.
“Non male David, questa volta hai trovato veramente un’ottima soluzione”.
David lo guardò peplesso, poi scoppiò in una fragorosa risata.
Gli mollò una sonora pacca sulla spalla e disse:
“Con cosa diavolo mi hai narcotizzato? Ho la testa sul punto di esplodere”.
“Cloruro di etilene, una variante del comune cloroformio”.
“E lei?”.
“Ho reso innocua anche la ragazza, con una dose più massiccia. L’ho strangolata e poi ho proceduto con la dissezione”.
“E’ meno divertente quando sono già morte”.
“Lo so, cosa credi. Ma abitavi in un condominio, non potevo permetterle di fare troppo baccano o la polizia l’avrebbero chiamata sul serio i tuoi vicini. Quando abitavi in quella sperduta villa nei pressi della brughiera non avevamo problemi del genere, quelle galline potevano urlare fino a perdere la voce”.
“E non solo quella”aggiunse David, risero entrambi.
“Credo che la prossima casa sarà in un luogo più isolato” continuò “altrimenti dovremo smetterla di giocare”.
“Non te ne devi preoccupare domani stesso prenderò contatto con la solita agenzia immobiliare e vedrò di accontentarti”.
“D’accordo”.
“Cosa vuoi farne ora di lei?” aggiunse Jason additando con il pollice il retro dell’auto.
“stanotte la porteremo a casa di Friedriksen”.
“Il regista?”.
“Proprio lui.Tu nasconderai i pezzi di ...”.
“Martha”.
“Sì,di Martha, nel suo giardino ed io lo avvertirò che ha due ore di tempo per trovarli ricomporli e disfarsene,prima che la polizia sia avvertita degli strani rumori che provengono dalla sua villa”.
“Vuoi portare anche lui nel gioco?”.
“No, voglio solo che l’arrestino”.
“Perché?”.
“E’ un pessimo regista,tutti i film che mi ha fatto interpretare erano dei colossali fiaschi, è ora che la smetta di nuocere al cinema”.
Lusilla aveva un segreto.
Era innamorata ed era proprio la forza del suo amore il motivo di quel gioioso atteggiarsi di fronte al mondo. Quando le notti erano terse e limpide aspettava che tutti si addormentassero nell’unica grande stanza della sua casupola, si avvolgeva in grezze coperte e sgattaiolava fuori nelle tenebre, portando con sé solo una lanterna schermata. Dietro il povero villaggio sorgeva la curiosa altura rocciosa che da una certa prospettiva ricordava la figura di un enorme cane accovacciato, per questo conosciuta da tutti col nome di Rocciacane. Un ripido sentiero conduceva all’incirca a metà collina, dove c’era una sorta di scabra radura da cui si poteva vedere gran parte della Piana e il villaggio addormentato. Poggiata a terra la lanterna, Lusilla si sedeva sulle rocce, infagottandosi come meglio poteva nelle pesanti coperte, nell’attesa di abituarsi al freddo pungente delle notti invernali. Per quegli incontri era disposta a sopportare di tutto, ghiaccio, gelo e neve. Non le importava nulla delle intemperie o dei pericoli che potevano celarsi nelle tenebre. L’amore che provava la riscaldava nel profondo e le infondeva coraggio. Così la giovane attendeva nel buio, raccolta in se stessa, attendeva l’attimo magico, il momento di sollevare lo sguardo in alto e accogliere l’amante a sé…
Il Mistero del cielo stellato era il suo amante.
Le stelle, i siderei gioielli gettati disordinatamente da un’onnipotente mano cosmica sul nero velluto, gemme pulsanti nelle tenebre silenziose, limpide, tremule, vive. E il Mistero che si celava oltre. Un grande, terribile Mistero che la riguardava. Lusilla non era istruita, non conosceva le teorie cosmogoniche né i fuorvianti errori della cultura religiosa, non sapeva i nomi delle stelle, pur riconoscendole ad occhio una per una. Eppure, nella sua istintiva percezione delle cose, sapeva molto più lei di qualsiasi altro studioso dei cieli di quel tempo: avvertiva distintamente la lontananza degli astri, il vuoto abisso degli spazi senza fine, l’infinito che la circondava. Un tempo le stelle si vedevano molto meglio di oggi anche ad occhio nudo e Lusilla sapeva che non erano tutte uguali fra di loro. Alcune, poche, brillavano di luce ferma, altre, quasi tutte, ammiccavano tremolanti ed erano di colori diversi. C’erano poi quelle curiose foschie globulari e quella lattea fosforescenza attraverso metà del cielo…
Adorava le zone del cielo invernale dove splendeva maestoso Orione con la rossa Betelgeuse e la vicina Bellatrix, ammirava le tre stelle vicine della Cintura, Alnitak, Alnilam e Mintaka e lo spolverio stellare sottostante, la nebulosa vera e propria. E poi la bianca e luminosissima Sirio, grande e fulgente a Sud, il rubino di fuoco di Aldebaran immerso tra le tenui Iadi, l’azzurro velo leggero delle Pleiadi che avvolgeva Maia e le sue sorelle. Nelle notti estive più calde si perdeva nell’argenteo nastro della Via Lattea, che divideva la volta celeste, mentre vicino rifulgeva la biancazzurra Vega. Ogni volta, dopo ore di muta, stupita e commossa osservazione, le sembrava di udire un suono etereo, indefinibile, quasi un canto di Sfere Celesti. Ormai ben conosceva i movimenti periodici delle stelle rapportati al ciclo delle stagioni e si era accorta che alcune formazioni di gemme ruotando tramontavano e altre no: in particolare gli arabeschi cosmici sembravano girare attorno ad una piccola stellina apparentemente ferma. Era lì che Lusilla spingeva i propri pensieri, in quell’unico punto fermo della gran giostra di stelle. Il Centro del Cielo, là dove si celava il Mistero. Non sospettava minimamente di cosa potesse trattarsi, sapeva solo che c’era e comunicava con la sua anima. Questa consapevolezza la rendeva felice e le permetteva di trascorrere le giornate allietata dal pensiero di trasparenti notte terse per i suoi incontri con l’Infinito.
Lucciole luminose e lontane, silenziose e sagge, percorrevano i loro sentieri siderali sopra il capo dell’assorta ragazza, rapita da sogni troppo grandi per essere capiti e troppo belli per essere raccontati a parole. Era sola, sola e riverente al cospetto di Dubhe e Merak, Sirra e Algol, Mizar e Alcor, Alfecca e Arturo, Denebola e Tarazed e le loro corti: nomi che non conosceva, nomi che ancora non erano stati dati. Ma le stelle tutte erano sue amiche e splendide ancelle del Mistero Assoluto che andava oltre le semplici e grottesche concezioni divine dell’uomo. Le stelle erano là, pulsanti nel buio.
E Lusilla era felice.
Felicità, la sua, che rendeva la vita sopportabile nel villaggio a ridosso del Rocciacane.
Il tempo scorreva e le stagioni si alternavano.
C’era sempre la guerra e la fame era un problema mai risolto. Il lavoro nei campi proseguiva mentre l’estate volgeva a termine. Nel cielo notturno le familiari formazioni di stelle caratteristiche della stagione calda si spostavano ruotando o tramontando e assumendo altre posizioni: globi luminosi come la cerulea Vega e l’arancione Arturo scomparivano oltre i monti, lasciando posto ai gemelli Castore e Polluce e ai brillanti asterismi del maestoso Orione. La serpeggiante Via Lattea sfumava nel buio portando con sé le infuocate glorie del Cigno e dell’Aquila, Altair e Albireo. Lungo l’asse dei cieli si inerpicava l’azzurro ammasso delle Sette Sorelle, seguito dal rubicondo occhio del Toro, Aldebaran, appena soffuso dal chiarore tenue delle Iadi. E poi Orione diventava il re di cieli e monopolizzava la stupefatta attenzione di Lusilla, sempre raggomitolata nel gelo della notte sul silenzioso Rocciacane. Voleva capire ciò che le stelle si sussurravano tra loro rincorrendosi nelle tenebre senza riverbero, le loro storie e i loro segreti ma la lingua che parlavano, ancorché perfettamente udibile, era al di là della sua comprensione. Lusilla attendeva pazientemente che il Mistero si svelasse a lei nella sua pienezza, rendendola in grado di comprendere i discorsi delle sue remote amiche. Solo allora si sarebbe sentita davvero appagata.
Ma il tempo passava e gli eterni girotondi di astri si specchiavano negli occhi della fanciulla, saggi nella loro indifferenza, irraggiungibili, finché la ragazza non si decideva a tornare nel villaggio, assonnata, sotto lo sguardo bianco della Luna appena sorta. Era molto bello vedere le basse nebbie dei campi avvolgere le casupole in un placido abbraccio o a volte attendere il primo riverbero dell’alba oltre il Rocciacane. Con queste splendide visioni come ultimo ricordo delle sue nottate, Lusilla tornava tra i suoi simili, che raramente volgevano lo sguardo in cerca del Mistero, lassù.
Fu in una trasparente e fredda notte dicembrina che Lusilla fece il suo incontro.
Inerpicatasi come sempre faceva lungo il familiare sentiero ghiacciato che portava alla rada a metà collina, si accorse con stupore di non essere sola. C’era qualcuno ad attenderla nel silenzio profondo della notte, sulla cresta rocciosa. Improvvisamente spaventata, la ragazza si acquattò tra i massi, non appena vide l’alta figura ammantata di nero stagliarsi sul lucore tremulo delle stelle. Il cuore prese a batterle forte in petto, poiché ben sapeva quanto potesse essere pericoloso per una fanciulla sola imbattersi in uno sconosciuto, specialmente ora, così lontana dal villaggio e nel pieno della notte. Sentì la paura crescerle dentro e fece un grande sforzo nel dominarla. Doveva andarsene subito da lì, scendere silenziosamente a valle. Forse un manipolo di briganti o di sbandati soldati mercenari era accampato lì vicino, con l’intento di assalire il villaggio e di razziarlo. Quella figura misteriosa sul ciglio del burrone poteva essere un esploratore mandato in avanscoperta per valutare che tipo di resistenza avrebbero potuto aspettarsi gli assalitori. Lusilla pensò che doveva avvisare gli anziani, dare l’allarme. Ma prima di tutto volle esserne certa. Facendosi forza e muovendosi impercettibilmente alzò la testa oltre la roccia per osservare meglio lo sconosciuto: ciò che vide fu solo un’imponente figura di spalle, immobile come una statua, avvolta in un manto di tenebra, intenta a guardare silenziosamente l’orizzonte buio. Non aveva mai visto prima una persona così alta. Non scorse armi, né spade né lance né scudo e non gli parve che indossasse una corazza. La paura lasciò il posto alla curiosità: chi era? Cosa faceva sul Rocciacane? Rimase ad osservare quell’immota apparizione per lunghi minuti. Abbandonò presto l’idea che potesse essere un guerriero o un potenziale nemico per il suo villaggio: tanti ne aveva visti, di bellicosi soldatacci, tutti privi dell’inusuale solennità che mostrava quell’uomo assorto in chissà quali pensieri. Rilassatasi un po’, decise di attendere che la figura oscura se ne andasse, anche se in realtà non sembrava affatto averne l’intenzione. Dopo qualche tempo avvertì l’insistente richiamo delle sue amiche celesti e ammaliata dall’ipnotica fascinazione e dall’innavvertibile canto sidereo delle Sfere non fece più caso alla presenza dell’intruso, tenendolo comunque nel suo campo visivo. I minuti passarono, scanditi da silenziosi corsi di gemme gelate nel buio…
“For good or ill,let the wheel turn.
The wheel has been still,and no good.
For ill or good,let the wheel turn.
For who knows the end of good or evil?
Until the grinders cease
and the door shall be shut in the street,
and all the daughters of music shall be brought low”.
T.S. Elliot
(“murder in the cathedral”).
La testa gli doleva come se gli avessero conficcato degli aghi roventi nei punti nevralgici delle suture ossee.
Si alzò a sedere e l’operazione in sé semplice parve costargli una fatica immensa.
Non rammentava di essersi mai sentito tanto stanco in tutta la sua vita;non rammentava, a dire il vero, di aver mai provato una sensazione di tale disagio; non poter contare sulla piena efficienza fisica era un’esperienza che avrebbe gradito non sperimentare.
Poggiò i piedi sul pavimento e fu costretto a reggersi al bordo ligneo del comodino per impedirsi di rovinare sul pavimento.
Si voltò verso il lato opposto del grande letto matrimoniale sfatto, Martha giaceva immobile, a pancia sotto, con i capelli arruffati che ricoprivano per intero il cuscino sul quale era adagiata.
Buffe creature le donne, pensò, si accontentano di credere a tante sciocchezze pur di aggrapparsi all’idea stessa dell’amore.
Tra poco sarebbe sorto il sole, doveva svegliarla e mandarla via con una scusa; alle dieci e mezzo cominciavano le riprese, aveva ancora molte cose da preparare, una sbornia da smaltire, un aspetto gradevole da riconquistare.
Si trascinò in bagno e quando accese la luce la violenza del neon gli fece lacrimare gli occhi.
“Cristo” imprecò.
Aprì il rubinetto della doccia e si infilò sotto il getto d’acqua fredda senza insaponarsi, rimase immobile finché i lunghi capelli neri non si appesantirono impedendogli di muoversi con facilità, Jason,il suo fac totum, insisteva che fosse proprio giunta l’ora di tagliarli, che era in fine arrivato il momento giusto per un cambio radicale d’immagine.
Forse aveva ragione.
Forse era davvero il caso di dare un taglio radicale a molte cose.
Uscì dalla doccia gocciolante, prese un asciugamano dal bastone d’ottone vicino al lavandino e se lo attorcigliò in vita.
“Buon giorno” sussurrò alla sua immagine riflessa nello specchio illuminato .
Gli scavi neri sotto le palpebre inferiori erano testimonianza della notte brava appena trascorsa,un po’ di correttore e qualche riflettore puntato nel verso giusto avrebbero posto riparo all’inconveniente.
Tornò in camera da letto, Martha non aveva neppure cambiato posizione, anche lei portava sulla pelle i segni della notte.
Sorrise.
S’incamminò verso la cucina e vide una pozza traslucida che lambiva appena lo stipite della porta, doveva aver versato qualcosa la notte precedente, forse del JD. Avvicinandosi notò che la macchia era di dimensioni ragguardevoli e di consistenza appiccicosa.
Si chinò dolorante ed intorpidito e sfiorò la superficie con la punta delle dita .
Rosso.
Gelatinoso.
Animato da un pungente odore di ferro.
Sangue.
Accese la luce della cucina e si trovò dinnanzi ad uno spettacolo che difficilmente sarebbe stato in grado di dimenticare: schizzi di plasma ricoprivano quasi interamente le pareti bianche, impronte di piedi scalzi avevano tracciato sul pavimento lunghi solchi; qualcuno era stato trascinato,qualcuno era stato ferito, qualcuno doveva essere morto là dentro.
Quando?
Sul tavolo era abbandonato un grosso coltello per affettare il pane, non potè fare a meno di avvicinarsi e prenderlo in mano, sulla lama erano rimasti piccoli brandelli rosa, grumi rossi, alcuni capelli biondi.
Restò immobile con l’arma stretta nella mano, gli occhi sbarrati ed un singolare senso d’euforia.
Avanzò verso il lavabo, rammentava di aver usato il tritarifiuti poco prima di andare a letto...
Guardò nel bacinetto di acciaio e quello che vi trovò non lo sorprese più di tanto: un dito ammiccava lascivo dal foro dello scarico, un dito la cui falange terminava con un’unghia laccata di rosso e fresca di manicure.
Il coltello gli cadde di mano.
Cosa era successo?
Possibile che...
Era confuso, stanco,f orse era meglio lasciare tutto così com’era ed andare sul set. Quando fosse rincasato l’indomani avrebbe sicuramente trovato una spiegazione logica a ciò che stava vedendo.
Certo, una spiegazione, una spiegazione esiste sempre, si ripeteva.
E se non gliene fosse venuta in mente nessuna allora avrebbe chiamato Jason, lui avrebbe saputo senz’altro cosa fare.
Martha.
Dovette sedersi sul divano del soggiorno.
Come avrebbe fatto ad occultare tutto in modo che non si accorgesse di nulla?
Bel problema.
Non era necessario che la facesse entrare in cucina, si sarebbe messa ad urlare ed era l’ultima cosa di cui aveva bisogno, attirare l’attenzione di quei bacchettoni dei vicini che non avevano mai accettato la sua presenza in quel rispettabile condominio .
L’avrebbe elegantemente messa alla porta,senza troppe spiegazioni e senza ulteriori coinvolgimenti, poi avrebbe ripulito sommariamente la cucina ed avrebbe lasciato le chiavi dell’appartamento a Miss Wingle che da brava colf professionista avrebbe riassettato il resto senza fare troppe domande, anche perché non avrebbe proprio saputo cosa risponderle.
Entrò in camera da letto con passo pesante:
“Martha” chiamò con voce sostenuta,i capelli ancora bagnati stavano gocciolando sul lenzuolo sotto di lui.
“Svegliati, devi andare, su...”.
Con un rapido gesto scostò il copriletto ed urlò.
Tutto ciò che restava della comparsa di nome Martha Right era una graziosa testolina riccia reclinata su un cuscino ed una lunga gamba abbronzata con le dita dei piedi laccate di arancione.
(Che pessimo gusto) pensò mentre l’urlo si spazzava in una fragorosa risata.
Si sedette pesantemente sulla sponda del letto, il volto sprofondato fra le mani, uno stordimento che si avvicinava quasi ad un’estasi mistica e la profonda consapevolezza che il mondo aveva smesso di girare nella solita direzione.
Lo squillo del telefono gli strappò un grido che trattenne a stento contro il dorso della mano, si voltò istintivamente nella direzione della donna, o meglio di ciò che ne restava. Per un assurdo interminabile attimo credette che quel rumore l’avrebbe fatta sussultare, ma osservando i resti mortali della ragazza non poté fare a meno di sorridere di quel timore...Strano, non riusciva a far altro dall’inizio di quella psichedelica avventura.
Rispose.
“Pronto?”la voce era calma, incrinata da un’appena percettibile vena di isteria.
“David Johansen?”.
“Sì”.
“Come va bastardo?”.
La voce dall’altro capo del filo era maschile e del tutto aliena ad ogni suo ricordo,ma non fu difficile intuire che il proprietario di quella voce anonima conoscesse, Dio solo sapeva come, quello che era appena accaduto. All’improvviso David si sentì sollevato, finalmente lo avrebbe saputo anche lui.
“Ho visto giorni migliori,e suppongo che lo sappia anche tu”.
Dall’altro capo del filo risuonò una risata sottile ed acuta,quasi femminea.
“Giusto, bastardo. Lo so benissimo”.
Silenzio.
“Scommetto che nessuna aveva mai perso la testa così per te...”. Altre risa.
David inarcò le sopracciglia ed imprecò fra i denti.
“Come sei entrato in casa mia?”.
“E chi ti dice che lo abbia fatto?”.
“C’è un festino a base di sangue nella mia cucina, una testa mozzata nel mio letto...”.
“E un dito nel tuo tritarifiuti”.
“Già, l’ho notato.” Calmo, si ripeteva mentalmente, stai calmo, non farlo innervosire, tenta di venire a capo di tutta questa faccenda, potrebbe non esserci un secondo ciack per questa scena.
“Cosa vuoi da me?”.
“Credevo che fosse palese, bastardo,voglio cancellarti dalla faccia della terra”.
(Cristo).
“Perché?”.
“Perché sei un miserevole guitto, un attore da quattro soldi che interpreta eroi neri solo perché ha la stazza per farlo. Sei finto come un biglietto da tre dollari e prima o poi se ne accorgeranno anche quei pazzi che vanno a vedere i tuoi film al cinema. Il mostro, il serial killer perfetto...fammi vedere come sei bravo a salvarti il culo adesso”.
Era scioccato.
Per diversi minuti non riuscì a far altro che guardarsi intorno alla disperata ricerca di un appiglio, di una risposta sagace ed intelligente che avrebbe messo lo psicotico dall’altro capo del filo in scacco costringendolo a raccontargli come erano andati i fatti, ma tutto ciò che fu capace di emettere fu un misero singulto che fortunatamente risultò muto..
“Sei ancora lì?”.
“Dico a te, bamboccio, sei ancora lì?”.
L’urlo perentorio dello sconosciuto lo fece ripiombare a terra con la violenza di un sacco di sabbia.
“Sì, ci sono. Hai tutta la mia attenzione”.
“Bravo”.
“Perché l’hai uccisa?.” pausa “L’hai uccisa tu, vero’”.
“Certo che l’ho fatto io, tu non saresti in grado neppure di firmare gli autografi se non avessi sempre qualcuno pronto a sorreggerti”.
“Si può sapere cosa cazzo vuoi da me?”.
La comunicazione venne interrotta improvvisamente e si ritrovò a fissare attonito il ricevitore divenuto sinistramente silenzioso.
Il panico finalmente fece il suo dovere e lo ridusse in sua schiavitù. Si immaginò piccolo e bianco come una di quelle cavie da laboratorio che corrono all’infinito dentro un cerchio di plexiglas, mentre qualche scienziato occhialuto osserva la scena con un cronometro in mano calcolando quanto impiega il cuore di quell’esserino peloso ad esplodere se sottoposto ad eccessivo sforzo. Il suo quanto avrebbe impiegato a giungere al traguardo? Improvvisamente fu assalito da un’incontrollabile voglia di bere. Frugò fra le bottiglie che teneva sparse all’interno dell’elegante mobile bar che gli aveva regalato il suo agente quattro anni prima, ne estrasse una a caso e tirò giù una possente e bruciante sorsata di vodka.
Non servì a far sparire il dito dal tritarifiuti né tanto meno a cancellare le tracce di sangue che avevano ridipinto metà della casa.
Il telefono trillò di nuovo.
Corse.
Inciampò sul bordo di legno del letto, il dolore lo trafisse improvviso e crudele, strappandogli un paio di lacrime dagli occhi arrossati ed un brandello di pelle dallo stinco destro.
“Pronto?” trafelato.
“Spero tu sia maggiormente propenso al dialogo ora”.
“Sì, lo sono”
“Ci avrei scommesso. Ho tre cose da dirti bamboccio, apri bene le orecchie perché non ho alcuna intenzione di ripetermi”.
“Ti ascolto”.
“Primo, le domande le faccio solo io, e se mi va fornisco anche le relative risposte, non voglio essere interrotto dalle tue insensate suppliche o da qualunque fetida esalazione effluvi dalle tue labbra”.
Si astenne dal replicare.
“Secondo: il resto della ragazza non è affatto andato distrutto, è in casa tua,nascosto e a dire il vero neanche troppo bene, sai ieri sera avevo una certa di premura di...abbandonare il luogo del delitto” altre risate, David cominciava a temere che avrebbe udito l’eco di quei versi ogni attimo della sua vita, sempre ammesso che ne avesse ancora una da vivere.
“Terzo: hai esattamente due ore di tempo a partire da ora per rimettere insieme il puzzle e disfarti del cadavere che sarai riuscito a ricomporre. Allo scadere del centoventesimo minuto ti avvertirò con uno squillo, sarà il segnale che ho chiamato la polizia per avvertirla di rumori che provengono dall’abitazione del famoso attore di cult horror movie David Johansen, con tutti i precedenti per rissa ed ubriachezza molesta che hai sulle spalle non tarderanno a precipitarsi da te e se non sarai riuscito a sbarazzarti della salma....bhe...temo che la tua carriera di divo subirà un tragico arresto. Ti saluto buffone”.
“Aspetta” quasi gridò.
Silenzio, solo il ronzio della linea, temette che l’uomo avesse nuovamente interrotto la conversazione.
“Ti ascolto ma fa in fretta”.
“Dimmi solo cosa esattamente devo trovare, ti prego, questo me lo devi, non potrei mai riuscirci altrimenti”.
Pausa,stava riflettendo sul da farsi.
“Va bene, questo posso accordartelo...dunque...in tutto ci sono cinque tronconi che devono essere ritrovati più , ovviamente, le interiora;la ragazza aveva un intestino quanto mai in disordine, alimentazione sregolata, sarebbe diventata obesa in pochi anni se avesse continuato a mangiare così, meglio aver evitato che accadesse. Hai due ore, bamboccio, buona caccia, il gioco comincia ora”.
Il sibilo metallico della linea interrotta si unì con il crepitio elettrico del corto circuito dei suoi neuroni.
Riagganciò.
Si voltò un’ultima volta in direzione della testa mozzata e non trovò consolazione nell’espressione assonnata dipinta su quel volto,per la prima voltò notò che anche i capelli biondi sparsi in ricci scomposti sul cuscino erano venati in più punti da screziati toni di arancio che si dipartivano in fili sottili come seta di ragno dal collo reciso, la pelle aveva subito diverse lacerazioni ed i brandelli di tumefatti e quasi anneriti dal sangue che si era rappreso nei capillari cutanei, protrudevano dall’attaccatura come sottili tentacoli.
Si sorprese dell’innumerevole mole di particolari per lo più inutili che la mente è in grado di captare quando è sollecitata e fortemente sovraeccitata.
Dubitava che alcuno dei pensieri che lo stavano distraendo in quel frangente gli sarebbe risultati di una qualunque utilità, il tempo correva via inesorabile...tic...toc...tic...toc...
Balzò in piedi e si precipitò in cucina,certamente la mattanza doveva aver avuto luogo lì, rimaneva solo da accertare come l’estraneo si fosse introdotto in casa e sua e per quale gioco del destino lui non si fosse accorto assolutamente di nulla. Probabilmente l’uomo lo aveva drogato, ma perché?
Ora non aveva alcuna importanza, ci sarebbe stato modo e luogo di appurare la meccanica dell’accaduto, adesso doveva solo riuscire ad uscire integro ed innocente da quella paranoica versione de “Ai confini della realtà”.
Sorrise, una parte di lui non aveva nessuna remora nell’ammettere che non si divertiva così da anni.
Cinque parti anatomiche.
Una gamba.
Due braccia,di cui una priva della rispettiva mano.
Il tronco....
Ne mancava uno.
Ma...
Era meglio iniziare la caccia.
Cominciò a canticchiare un vecchio pezzo dei Rolling Stones, non li amava particolarmente ma quel ritornello gli affiorò alle labbra arse in maniera autonoma,scevro da ogni controllo.
“...if you start me up...”.
Ispezionò la cucina millimetro per millimetro ripetendo a bassa voce sempre il medesimo ritornello.
Nulla, a parte i cinque litri di plasma versati in ogni dove.
Il frigo.
Era immacolato.
Lo spalancò e...bingo...prego passi a ritirare il premio alla cassa. Preferisce un ‘orso di pezza o un papero di gomma?
“Mi accontento anche di questo, grandissimo figlio di..”.
Trasse il braccio mutilato della rispettiva mano senza batter ciglio, era stato gettato in fretta sopra un paio di contenitori termici per gli avanzi che a quanto rammentava dovevano essere colmi di lasagne precotte.
Osservò la sottile traccia traslucida di brina che si era formata lungo la pelle abbronzata ,l’intero avambraccio era costellato di piccole ecchimosi a forma di stella, sicuramente traumi inflitti alla parte dopo che era stata asportata.
Tornò in camera da letto e lo gettò accanto alla testa che rotolò sinistramente in direzione della parte di sè che era stata così irrispettosamente lanciata.
“Non temere, tesoro”mormorò “fra poco ti porterò anche il resto”.
Entrò in salotto.
Sembrava tutto perfettamente in ordine, la tv era in stand by, lo stereo spento, il tavolino ingombro delle solite cartacce ....
Si avvicinò al piccolo tavolo a bacheca, si accucciò fino a sfiorare la superficie liscia e fredda del cristallo con la guancia ispida della barba di due giorni.
C’era qualcosa che attirava la sua attenzione, o meglio i suoi sensi acuiti dalla tensione avevano captato qualcosa che i suoi occhi faticavano a scorgere.
Restò così per un tempo che parve infinito...tic...toc.
“Andiamo....concentrati”.
Riflesso sul poco spazio sgombro del tavolo d’appoggio riusciva ad intravedere una forma arcana,quasi un archetipo che somigliava a...
Si alzò e salì sulla spalliera del divano rischiando di rovinare precipitosamente sul pavimento di marmo nero.
Adagiata sul lampadario con lasciva voluttà faceva bella mostra di sé l’altra gamba di Martha,con il medesimo smalto arancione ad imbrattarle le dita del piede.
Non fu facile disincastrare l’arto irrigidito dal rigor mortis dal braccio d’ottone del lampadario che oppose una ferrea resistenza costringendolo ad afferrarlo con entrambe le mani strattonandolo ripetutamente fino a quando non ebbe la meglio piombando sul suo fondoschiena che produsse uno rumore spiacevolmente simile a quello di cocci infranti quando urtò con violenza il tavolino mandandolo in frantumi.
Si tirò su infarcendo lo sforzo fisico di una certa dose di inutili ed artificiosi improperi. Fece ritorno in camera da letto e buttò la gamba nelle immediate vicinanze degli altri resti.
“Se tutto procede bene, tesoro, fra poco ti porto a fare un giro in macchina, vedrai ci divertiremo”.
Scoprì che parlare con Martha era rilassante.
O.k., due pezzi anatomici erano stati ritrovati...ed ora?
Il tronco. Era senza ombra di dubbio la parte più difficile da occultare; le dimensioni non avrebbero consentito a “lui”, il pazzo era diventato semplicemente “lui” nella sua testa, credeva che spersonalizzandolo sarebbe stato più semplice non farsi prendere dal panico e continuare solamente a giocare,di lasciarlo in giro con altrettanta semplicità.
Ripercorse interamente passo dopo passo l’area dell’appartamento: il bagno, la camera da letto, il salotto, la cucina, la sala del telefono (come amabilmente aveva ribattezzato il disimpegno che si trovava fra le prime due stanze del corridoio, appellato così per la banale ragione che generalmente era tramite quel telefono che interloquiva con il suo agente. Scaramanzie da divo).
La stanza degli ospiti era ancora chiusa a chiave e quando vi entrò fu colto dall’odore pungente del lucido per i mobili che la sua domestica tutto fare non lesinava affatto nella vana speranza che prima o poi quella stanza venisse occupata, David negli ultimi tempi era diventato l’equivalente di un eremita misogino e misantropo sulla cui scala personale da uno a dieci il suo interesse per il genere umano si arrestava attorno alla posizione uno,di qualche amico aveva pur bisogno.
Tornò al punto di partenza, seduto accanto al corpo in via di ricomposizione che giaceva come una bambola di pezza scucita sul letto matrimoniale che recava impresse le tracce di differenti liquidi corporei che risultava difficile distinguere.
Non aveva giardino e questo, almeno, restringeva le ipotesi.
Non aveva solario, l’appartamento era sito al terzo piano di un’elegante palazzina abitata per lo più da anziani liberi professionisti in meritata pensione che avevano visto l’arrivo della star degli horror di serie b nel loro delizioso e tranquillo condominio come una manciata di sabbia negli occhi.
Ma aveva una cantina. O meglio, un box di media grandezza dove aveva trasferito metà dei suoi effetti personali e scenici.
Corse verso il corridoio dove un enorme porta di legno scuro si spalancava su un lungo andito alle cui pareti erano saldamente infissi due lunghi bastoni d’ottone dai quali pendevano vestiti e soprabiti e cappotti, un guardaroba degno di un gentleman inglese, attrezzato per ogni esigenza e ricorrenza, l’ultimo custodia in fondo a destra celava un costosissimo completo di raso nero, sotto alla giacca avvitata era ben riposta e perfettamente stirata una camicia di seta bianca con ampi polsini di pizzo, l’abito con il quale sarebbe stato sepolto.
Cercò nella cassettiera che era posta a destra dell’entrata e nell’ultimo cassetto trovò un mazzo di chiavi tenute insieme da un laccio di cuoio. Erano all’incirca una quindicina ed appartenevano alle serrature di tutte le porte d’ingresso delle case che aveva cambiato negli ultimi sedici anni, bella media di fughe precipitose, riflette divertito.
Pescò quella più lucida e pulita che recava impresso il numero 6 in rosso scarlatto, uscì dall’appartamento stando ben attento a non suscitare l’interesse dei vicini e sgattaiolò fino al semi interrato. Infilò la chiave nella toppa con il cuore che aveva preso all’improvviso a battergli con rinnovato vigore ed inaspettato tumulto, sentiva il pulsare ritmico del sangue gonfiargli ad intermittenza la vena sulla tempia destra ed uno sciame di farfalle impazzite sembrava danzare una macumba africana alla sommità del suo esofago. Era eccitato, come non gli capitava da tempo.
L’odore di muffa vecchia e di nuova polvere lo fece starnutire, trovò a tentoni l’interruttore della luce sulla sinistra della parete e qualcosa di leggero ed agile gli sfiorò le dita della mano facendogliele ritrarre alla svelta. Non era la prima volta che scendeva in quello scantinato e non era la prima volta che la vista dei suoi costumi di scena e delle parrucche gli provocava un’impercettibile ma persistente senso d’irritazione alla base del collo. Passò accanto ad un paio di bauli accatastati ingombri di vecchie sceneggiature accettate e rifiutate, urtò un manichino sul quale erano ammonticchiati almeno tre diversi mantelli da vampiro ed in fine scorse ciò che cercava.
Stavolta “lui” era stato non solo sadicamente macabro, ma drammaticamente divertente: il tronco della povera Martha con indosso un delicato completo intimo rosa, era comodamente assiso su una vecchia poltrona di pelle, cimelio del primo film che Johansen aveva girato all’incirca vent’anni prima, uno splatter che aveva per protagonista uno psicanalista cannibale, una versione analoga, ma meglio interpretata, aveva valso ad uno scialbo inglese di nome Anthony Hopkins la statuetta d’oro.
L’enorme foro irregolare che coincideva al tavolato degli addominali, faceva vedere con chiarezza i muscoli della fascia renale e gli ultimi corpi vertebrali del tratto dorsale. L’assassino doveva aver avuto veramente un mucchio di tempo per poter compiere un’eviscerazione degna di un cuoco cinese.
L’assenza del capo e degli arti rendevano la visione sensualmente oscena.
Bene.
Ora era necessario portarla di sopra.
Diede una fugace occhiata all’orologio: quasi le undici del mattino. Fra poco più di un’ora la sua caccia al tesoro si sarebbe forzatamente conclusa ed anche la sua vita, probabilmente.
Prese una cesta di vimini vuota che giaceva abbandonata in un angolo, vi spinse dentro il tronco della ragazza e coprì il tutto con uno dei mantelli che aveva urtato poco prima.
Uscì dal box chiudendosi la porta alle spalle. Si voltò con la cesta stretta fra le braccia ed una voce lo fece sobbalzare:
“Facciamo pulizie mr. Johansen?”.
Era la megera del piano di sopra,consorte di un vecchio medico in pensione che per tutta la sua miserrima vita si era occupato di scaldare ed inserire clisteri, forse per questo aveva finito con lo sposare una donna il cui fondoschiena era difficilmente distinguibile dalla faccia.
“Già” replicò vago.
“Senta, forse non dovrei metterla i guardia, ma credo che alla prossima riunione i condomini vogliano chiederle di abbandonare lo stabile, sa...questo è un complesso residenziale in maggioranza abitato da gente...comune...ecco e quel continuo va e vieni di donne ...bhe...”.
(Se sapessi come le donne perdona la testa per me vecchia bastarda esiteresti dal pronunciarti oltre).
David prese a risalire agilmente le scale senza neppure replicare e la signora Moore, così si appellava, continuò a sbraitare le sue proteste con il tono di voce che diveniva man a mano più stridulo e starnazzante.
Solo nell’appartamento vuoto si rese conto del tanfo che stava pervadendo l’ambiente: la donna era morta, probabilmente, lottando ed il quantitativo di adrenalina liberata mista alle catecolamine endogene aveva esacerbato l’odore della sua carne che ora iniziava a virare verso quel caratteristico e pungente sentore acido e dolciastro che chiunque abbia soggiornato anche per un breve periodo in una sala settoria riesce difficilmente a rimuovere dalla memoria delle sue terminazioni olfattive.
Vuotò il contenuto della cesta sul letto: l’immagine che si sarebbe parata dinnanzi agli occhi di un qualunque mal capitato sarebbe apparsa troppo irragionevole e distorta per sembrare solo vagamente reale, ma il tanfo e lo strano colore verde arancio che impregnava gli slip della ragazza dove plasma e bile avevano creato uno cocktail inconsueto e difficilmente ripetibile, conferivano alla visione un che di soprannaturale.
I visceri.
Se “lui” fosse stato di origine egizia avrebbe iniziato a fracassare tutti i vasi dell’appartamento,ma dubitava che la fortuna,dio o chi per loro lo avrebbe assistito in un tale frangente.
Visceri.
Frattaglie.
Interiora.
Tic...toc...
Meno sessanta minuti all’ora x.
Mancavano all’appello 12 metri di intestino ed un braccio,poi restava da rassettare la cucina e far sparire le tracce di sangue che praticamente si annidavano in ogni angolo della casa.
Interiora.
Una volta durante le riprese di un noir di dubbio gusto, ma di grosso ritorno economico, aveva dovuto soggiornare per circa una settimana in uno squallido alberghetto sperso e dimenticato nella campagna inglese, non rammentava neppure il nome del punto nero sulla carta geografica che avrebbe in teoria dovuto essere una città e che al loro arrivo aveva svelato tutto l’antico fascino di un cimitero abbandonato anche dagli spettri.
Nella prima sera di permanenza in quel tugurio la proprietaria, nonché unica cuoca dello stabile, aveva preparato una sorta di spezzatino immerso in una salsa piccante e speziata, la cosa peggiore che avesse mai avuto la disgrazia di ingurgitare, quando aveva chiesto cosa fosse, si era sentito replicare che si trattava di un’antica ricetta locale a base, essenzialmente,di frattaglie di pecora. Imparò una lezione fondamentale quella sera:non domandare mai troppo, si può sempre correre il rischio di trovare la soluzione ai propri quesiti, l’ignoranza, a volte, è un gran rifugio.
Ma cosa diavolo aveva a che fare quello stupido albergo con...
Accidenti.
Gesùdivino, Mazinga Z, Daitan 3 e tutti i signori dell’universo...
Si precipitò in cucina notando che la pozza di sangue che rivestiva più o meno uniformemente il linoleum un tempo verde, aveva perso la fluidità assumendo una consistenza gelatinosa ed appiccicaticcia.
Aprì il forno ed esultando trasse da esso una pirofila trasparente che non rammentava neppure di possedere dove erano state pazientemente arrotolati gli intestini di Martha, per ovviare all’odore di fluidi e solidi organici che senza ombra di dubbio si annidavano al suo interno “lui” aveva innaffiato la pietanza con abbondante aceto tanto che ora non si sarebbe potuto discernere esattamente da un esame approssimativo se si trattasse o meno di residui di natura umana.
Accese il forno,tolse la griglia forata di protezione e rovesciò il contenuto della pentola sulle fiamme blu aranciate originate dalla combustione del gas metano, chiuse prima che un refolo d’aria potesse fiaccare lo sfavillio del fuoco.
Il braccio.
Meno quaranta minuti all’ora x.
Improvvisamente si rese conto che non ce l’avrebbe mai fatta, avvertiva una spiacevole sensazione di tensione al centro della testa ed un rumore sordo, come una vibrazione lontana gli solleticava entrambi i timpani; probabilmente stava per restare stroncato da un ictus.
Pazienza.
Sempre meglio della galera.
Il completo per la sepoltura era pronto e ben riposto nel guardaroba, al resto avrebbe pensato Jason...
Il guardaroba.
Entrò, gettò tutti gli abiti sul pavimento, vuotò le scatole che contenevano scarpe e stivali, scaraventò giù dal soppalco i bauli e le valige, nulla. Possibile che... Prese il telo che copriva il suo ricercatissimo completo funebre, quello che migliaia di fotografi avrebbero immortalato quando sarebbe stato esposto, giovane e bellissimo suicida, in uno splendido sarcofago di cristallo.
Il rumore della cerniera lampo lo assordò, ma eccolo lì,far capolino come un singolare serpente marino dal collo slacciato della camicia di candida seta ora macchiata di sangue rappreso.
La mano ammiccava con un esplicito gesto di sfida che “lui” aveva ricavato incastrando il primo e le ultime due falangi contro il ferro della stampella e poggiando il medio ritto contro il gancio della medesima.
“Figlio di puttana”imprecò David.
Venti minuti.
Tic..Toc..
Il puzzle era stato ricomposto, ogni tessera del mosaico aveva trovato al fine giusta collocazione, restava un unico piccolo irrisorio problema: come sbarazzarsi del corpo e cancellare le tracce che lo avrebbero reso apertamente reo dinnanzi ai piccoli uomini in divisa blu che fra poco avrebbero fatto irruzione nell’appartamento?
“Pensa, maledizione”si obbligò.
E come un rosa che sboccia fra la neve così un’idea balzana germogliò fra i suoi pensieri sconnessi.
Vendetta.
Prese un sacco di tela dal lavabo sotto la cucina, ne aveva una scorta imbarazzante, la sua colf li usava per portar fuori l’immondizia e scherzando sovente aveva fatto allusione che erano talmente capienti che avrebbero potuto ospitare un cadavere, non aveva il più vago sentore di quanto avesse avuto dannatamente ragione.
Infilò i pezzi anatomici di Martha nel sacco, lo annodò saldamente con un pezzo di corda e si mise il tutto in spalla.
Scese rapidamente le scale, il tempo a sua disposizione era praticamente quasi scaduto, non poteva permettersi il lusso di guardarsi furtivamente alle spalle. Giunse trafelato, gli anni cominciavano a farsi sentire, al parcheggio interno dello stabile, aprì non senza difficoltà il cofano della sua auto e vi scaraventò il pacco natalizio dentro.
Chiuse, si guardò finalmente intorno per accertarsi di non essere stato visto da nessuno e quando ne fu quasi matematicamente certo fece precipitosamente ritorno in casa.
Entrò nel bagno e prese un flacone di alcool etilico che teneva nella cassetta del pronto soccorso e lo versò interamente sulla coperta intrisa del sangue di Martha.
Si recò nel salotto vuoto e silenzioso ora inondato di sole caldo e denso di odori estivi, prese dal mobile bar la bottiglia di vodka ed alcuni altri liquori e cominciò a schizzare in giro per le stanze il loro contenuto,riservando il quantitativo maggiore per la cucina,ovviamente.
Pescò l’accendino dalla tasca posteriore dei pantaloni (quando se li era infilati?Non lo rammentava,doveva averlo fatto in un momento imprecisato di quella folle corsa), lo accese ed avvicinò la fiammella alla scia di liquido alcolico che faceva capolino dalla soglia della cucina, come nel trailer del “Corvo” il fuoco si propagò seguendo la scia che egli stesso aveva tracciato, solo che invece delle ali di un uccello lui vide apparire il miraggio della fine di un incubo.
Compì il giro completo dell’appartamento e quando fu certo che ogni stanza avesse preso a bruciare,afferrò il cellulare e corse sul pianerottolo.
Compose il numero della polizia.
Una voce stanca e professionale dalla sessualità indefinita gli rispose:
“Qui distretto di polizia, posso esserle d’aiuto?”.
“Mi trovo al 110 di Prospect Place, la mia casa sta andando a fuoco”disse gridando” credo sia doloso, vi prego mandate qualcuno immediatamente”.
“Esca subito ed attenda fuori, i pompieri giungeranno in breve”.
“Vi prego sbrigatevi!”.
“Non si preoccupi, faremo il prima possibile, ma lei mantenga la calma e non si avvicini alle fiamme”.
Chiuse la comunicazione e fischiettando scese le tre rampe di scale che lo separavano dalla strada sottostante. Una volta giunto di fronte al portone d’entrata si appoggiò con le spalle ad un furgone addetto al trasporto di mobili, si accese una sigaretta,inalò profondamente e ricominciò a canticchiare quella vecchia e noiosa canzone degli Stones.
I pompieri giunsero in modo realmente tempestivo, neppure il tempo di fumarsi in pace una meritata sigaretta,pensò.
L’incendio si dimostrò più ostico del previsto, l’appartamento era interamento arredato in legno e l’abbondante tappezzeria aveva alimentato generosamente le fiamme rendendo l’intervento della squadra più complicato di quanto si potesse in origine prevedere, gli enunciò il capo dei vigili del fuoco, quasi a giustificare il fatto che l’intera dimora fosse andata irrimediabilmente distrutta nel rogo. Il rossore che gli animava le guance quando gli chiese l’autografo lo fece rabbrividire.
Due ore dopo era tutto finito.
Gli uomini in tuta arancione se ne erano andati, i poliziotti dopo aver fatto i rilevamenti del caso non erano stati in grado di affermare con certezza che l’incendio fosse di origine dolosa, ma certamente era un’ipotesi che non poteva essere scartata in prima istanza, sarebbe stata una pista da battere, sa - gli aveva sussurrato l’agente Scanner - lei è una persona famosa-aveva enfatizzato quella parola come se si fosse trattato di una formula magica - è naturale che possa diventare il bersaglio di qualche esaltato a cui piacciono troppo i suoi film.
Rimasto solo montò in macchina ed appoggiò la testa contro le mani intrecciate sul volante, attento a non far suonare il clacson.
Improvvisamente la portiera dal lato del passeggero si aprì e Jason Collins, manager, amico e fac totum del grande attore David Johansen, fece il suo ingresso sorridendo.
“Non male David, questa volta hai trovato veramente un’ottima soluzione”.
David lo guardò peplesso, poi scoppiò in una fragorosa risata.
Gli mollò una sonora pacca sulla spalla e disse:
“Con cosa diavolo mi hai narcotizzato? Ho la testa sul punto di esplodere”.
“Cloruro di etilene, una variante del comune cloroformio”.
“E lei?”.
“Ho reso innocua anche la ragazza, con una dose più massiccia. L’ho strangolata e poi ho proceduto con la dissezione”.
“E’ meno divertente quando sono già morte”.
“Lo so, cosa credi. Ma abitavi in un condominio, non potevo permetterle di fare troppo baccano o la polizia l’avrebbero chiamata sul serio i tuoi vicini. Quando abitavi in quella sperduta villa nei pressi della brughiera non avevamo problemi del genere, quelle galline potevano urlare fino a perdere la voce”.
“E non solo quella”aggiunse David, risero entrambi.
“Credo che la prossima casa sarà in un luogo più isolato” continuò “altrimenti dovremo smetterla di giocare”.
“Non te ne devi preoccupare domani stesso prenderò contatto con la solita agenzia immobiliare e vedrò di accontentarti”.
“D’accordo”.
“Cosa vuoi farne ora di lei?” aggiunse Jason additando con il pollice il retro dell’auto.
“stanotte la porteremo a casa di Friedriksen”.
“Il regista?”.
“Proprio lui.Tu nasconderai i pezzi di ...”.
“Martha”.
“Sì,di Martha, nel suo giardino ed io lo avvertirò che ha due ore di tempo per trovarli ricomporli e disfarsene,prima che la polizia sia avvertita degli strani rumori che provengono dalla sua villa”.
“Vuoi portare anche lui nel gioco?”.
“No, voglio solo che l’arrestino”.
“Perché?”.
“E’ un pessimo regista,tutti i film che mi ha fatto interpretare erano dei colossali fiaschi, è ora che la smetta di nuocere al cinema”.
Lusilla aveva un segreto.
Era innamorata ed era proprio la forza del suo amore il motivo di quel gioioso atteggiarsi di fronte al mondo. Quando le notti erano terse e limpide aspettava che tutti si addormentassero nell’unica grande stanza della sua casupola, si avvolgeva in grezze coperte e sgattaiolava fuori nelle tenebre, portando con sé solo una lanterna schermata. Dietro il povero villaggio sorgeva la curiosa altura rocciosa che da una certa prospettiva ricordava la figura di un enorme cane accovacciato, per questo conosciuta da tutti col nome di Rocciacane. Un ripido sentiero conduceva all’incirca a metà collina, dove c’era una sorta di scabra radura da cui si poteva vedere gran parte della Piana e il villaggio addormentato. Poggiata a terra la lanterna, Lusilla si sedeva sulle rocce, infagottandosi come meglio poteva nelle pesanti coperte, nell’attesa di abituarsi al freddo pungente delle notti invernali. Per quegli incontri era disposta a sopportare di tutto, ghiaccio, gelo e neve. Non le importava nulla delle intemperie o dei pericoli che potevano celarsi nelle tenebre. L’amore che provava la riscaldava nel profondo e le infondeva coraggio. Così la giovane attendeva nel buio, raccolta in se stessa, attendeva l’attimo magico, il momento di sollevare lo sguardo in alto e accogliere l’amante a sé…
Il Mistero del cielo stellato era il suo amante.
Le stelle, i siderei gioielli gettati disordinatamente da un’onnipotente mano cosmica sul nero velluto, gemme pulsanti nelle tenebre silenziose, limpide, tremule, vive. E il Mistero che si celava oltre. Un grande, terribile Mistero che la riguardava. Lusilla non era istruita, non conosceva le teorie cosmogoniche né i fuorvianti errori della cultura religiosa, non sapeva i nomi delle stelle, pur riconoscendole ad occhio una per una. Eppure, nella sua istintiva percezione delle cose, sapeva molto più lei di qualsiasi altro studioso dei cieli di quel tempo: avvertiva distintamente la lontananza degli astri, il vuoto abisso degli spazi senza fine, l’infinito che la circondava. Un tempo le stelle si vedevano molto meglio di oggi anche ad occhio nudo e Lusilla sapeva che non erano tutte uguali fra di loro. Alcune, poche, brillavano di luce ferma, altre, quasi tutte, ammiccavano tremolanti ed erano di colori diversi. C’erano poi quelle curiose foschie globulari e quella lattea fosforescenza attraverso metà del cielo…
Adorava le zone del cielo invernale dove splendeva maestoso Orione con la rossa Betelgeuse e la vicina Bellatrix, ammirava le tre stelle vicine della Cintura, Alnitak, Alnilam e Mintaka e lo spolverio stellare sottostante, la nebulosa vera e propria. E poi la bianca e luminosissima Sirio, grande e fulgente a Sud, il rubino di fuoco di Aldebaran immerso tra le tenui Iadi, l’azzurro velo leggero delle Pleiadi che avvolgeva Maia e le sue sorelle. Nelle notti estive più calde si perdeva nell’argenteo nastro della Via Lattea, che divideva la volta celeste, mentre vicino rifulgeva la biancazzurra Vega. Ogni volta, dopo ore di muta, stupita e commossa osservazione, le sembrava di udire un suono etereo, indefinibile, quasi un canto di Sfere Celesti. Ormai ben conosceva i movimenti periodici delle stelle rapportati al ciclo delle stagioni e si era accorta che alcune formazioni di gemme ruotando tramontavano e altre no: in particolare gli arabeschi cosmici sembravano girare attorno ad una piccola stellina apparentemente ferma. Era lì che Lusilla spingeva i propri pensieri, in quell’unico punto fermo della gran giostra di stelle. Il Centro del Cielo, là dove si celava il Mistero. Non sospettava minimamente di cosa potesse trattarsi, sapeva solo che c’era e comunicava con la sua anima. Questa consapevolezza la rendeva felice e le permetteva di trascorrere le giornate allietata dal pensiero di trasparenti notte terse per i suoi incontri con l’Infinito.
Lucciole luminose e lontane, silenziose e sagge, percorrevano i loro sentieri siderali sopra il capo dell’assorta ragazza, rapita da sogni troppo grandi per essere capiti e troppo belli per essere raccontati a parole. Era sola, sola e riverente al cospetto di Dubhe e Merak, Sirra e Algol, Mizar e Alcor, Alfecca e Arturo, Denebola e Tarazed e le loro corti: nomi che non conosceva, nomi che ancora non erano stati dati. Ma le stelle tutte erano sue amiche e splendide ancelle del Mistero Assoluto che andava oltre le semplici e grottesche concezioni divine dell’uomo. Le stelle erano là, pulsanti nel buio.
E Lusilla era felice.
Felicità, la sua, che rendeva la vita sopportabile nel villaggio a ridosso del Rocciacane.
Il tempo scorreva e le stagioni si alternavano.
C’era sempre la guerra e la fame era un problema mai risolto. Il lavoro nei campi proseguiva mentre l’estate volgeva a termine. Nel cielo notturno le familiari formazioni di stelle caratteristiche della stagione calda si spostavano ruotando o tramontando e assumendo altre posizioni: globi luminosi come la cerulea Vega e l’arancione Arturo scomparivano oltre i monti, lasciando posto ai gemelli Castore e Polluce e ai brillanti asterismi del maestoso Orione. La serpeggiante Via Lattea sfumava nel buio portando con sé le infuocate glorie del Cigno e dell’Aquila, Altair e Albireo. Lungo l’asse dei cieli si inerpicava l’azzurro ammasso delle Sette Sorelle, seguito dal rubicondo occhio del Toro, Aldebaran, appena soffuso dal chiarore tenue delle Iadi. E poi Orione diventava il re di cieli e monopolizzava la stupefatta attenzione di Lusilla, sempre raggomitolata nel gelo della notte sul silenzioso Rocciacane. Voleva capire ciò che le stelle si sussurravano tra loro rincorrendosi nelle tenebre senza riverbero, le loro storie e i loro segreti ma la lingua che parlavano, ancorché perfettamente udibile, era al di là della sua comprensione. Lusilla attendeva pazientemente che il Mistero si svelasse a lei nella sua pienezza, rendendola in grado di comprendere i discorsi delle sue remote amiche. Solo allora si sarebbe sentita davvero appagata.
Ma il tempo passava e gli eterni girotondi di astri si specchiavano negli occhi della fanciulla, saggi nella loro indifferenza, irraggiungibili, finché la ragazza non si decideva a tornare nel villaggio, assonnata, sotto lo sguardo bianco della Luna appena sorta. Era molto bello vedere le basse nebbie dei campi avvolgere le casupole in un placido abbraccio o a volte attendere il primo riverbero dell’alba oltre il Rocciacane. Con queste splendide visioni come ultimo ricordo delle sue nottate, Lusilla tornava tra i suoi simili, che raramente volgevano lo sguardo in cerca del Mistero, lassù.
Fu in una trasparente e fredda notte dicembrina che Lusilla fece il suo incontro.
Inerpicatasi come sempre faceva lungo il familiare sentiero ghiacciato che portava alla rada a metà collina, si accorse con stupore di non essere sola. C’era qualcuno ad attenderla nel silenzio profondo della notte, sulla cresta rocciosa. Improvvisamente spaventata, la ragazza si acquattò tra i massi, non appena vide l’alta figura ammantata di nero stagliarsi sul lucore tremulo delle stelle. Il cuore prese a batterle forte in petto, poiché ben sapeva quanto potesse essere pericoloso per una fanciulla sola imbattersi in uno sconosciuto, specialmente ora, così lontana dal villaggio e nel pieno della notte. Sentì la paura crescerle dentro e fece un grande sforzo nel dominarla. Doveva andarsene subito da lì, scendere silenziosamente a valle. Forse un manipolo di briganti o di sbandati soldati mercenari era accampato lì vicino, con l’intento di assalire il villaggio e di razziarlo. Quella figura misteriosa sul ciglio del burrone poteva essere un esploratore mandato in avanscoperta per valutare che tipo di resistenza avrebbero potuto aspettarsi gli assalitori. Lusilla pensò che doveva avvisare gli anziani, dare l’allarme. Ma prima di tutto volle esserne certa. Facendosi forza e muovendosi impercettibilmente alzò la testa oltre la roccia per osservare meglio lo sconosciuto: ciò che vide fu solo un’imponente figura di spalle, immobile come una statua, avvolta in un manto di tenebra, intenta a guardare silenziosamente l’orizzonte buio. Non aveva mai visto prima una persona così alta. Non scorse armi, né spade né lance né scudo e non gli parve che indossasse una corazza. La paura lasciò il posto alla curiosità: chi era? Cosa faceva sul Rocciacane? Rimase ad osservare quell’immota apparizione per lunghi minuti. Abbandonò presto l’idea che potesse essere un guerriero o un potenziale nemico per il suo villaggio: tanti ne aveva visti, di bellicosi soldatacci, tutti privi dell’inusuale solennità che mostrava quell’uomo assorto in chissà quali pensieri. Rilassatasi un po’, decise di attendere che la figura oscura se ne andasse, anche se in realtà non sembrava affatto averne l’intenzione. Dopo qualche tempo avvertì l’insistente richiamo delle sue amiche celesti e ammaliata dall’ipnotica fascinazione e dall’innavvertibile canto sidereo delle Sfere non fece più caso alla presenza dell’intruso, tenendolo comunque nel suo campo visivo. I minuti passarono, scanditi da silenziosi corsi di gemme gelate nel buio…
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