Solcris la ballata degli impiccati
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Solcris la ballata degli impiccati
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Il cono di luce riverberante dai fari della macchina restituiva un aspetto misterioso dei luoghi. Per le derive del selciato era tutto un brulicare d’ombre. Spesse volte di rami carichi di foglie penzolavano gravosi dai sottostanti muri correnti i cigli della strada, ed allorché eran rivestiti da obliqui, straordinari raggi lunari, ostentavano il loro orpello alle tacite, amiche stelle. Nella semioscurità della via il veicolo scuoteva e innalzava la polvere di sotto i battistrada sfollando gli animali che gli stavano sul percorso; e questi, infastiditi e torcendo i loro colli all’indietro, luccicavano dispettosamente un bel paio d’occhi rosso cremisi. Intanto una strana figura bislunga, dalle sembianze pressoché umane, emergeva improvvisamente dal bordo strada, ripetendo copiosamente il suo manifestarsi. Appariva dapprima come un punto indistinto catturato con lo sguardo in lontananza, e poi, man mano che la macchina gli si avvicinava, si vedeva prendere forma nella sua interezza. E il cerchio ritornava qualche tratto più in là. Il suo incedere era dinoccolato e indossava un cappellaccio scuro a tese larghe e a cupola alta, che svettava sinistro nel pallore della notte. Quando l’auto affiancò nuovamente il tizio dal largo cappello, Solcris fu pervaso da una piretica curiosità. Gli lanciò stavolta uno sguardo furtivo, per rendersi conto che aspetto avesse. Ma quello che ravvisò non gli piacque per nulla. Di sotto il cappello e tra il bavero rialzato del mantello, gli intravide un viso solcato, smunto, improntato da uno sguardo ostile, di palese avversione: un guardare di striscio tipico di certi animali che, a muso duro e denti vibranti, accennano a un ringhio. Notò anche, con molto stupore, che aveva le mani vizze a zampe d’uccello, dai dorsi rugosi, simile ad alite, mentre gli arti inferiori, terminanti con zoccoli fessi, puntavano dritti al suolo, ma non lo calpestavano. Trotterellava librandosi a un palmo da terra, ed uguale ne risuonava uno scalpiccio cadenzato. Il mantello, laccato nero, gli scivolava ampio e gelatinoso lungo il corpo ed era affibbiato al collo da un laccio di cuoio che serrava i riporti rossi di stoffa diversa del bavero. Questo a sua volta si racchiudeva ostentando due orli verticali e obliqui che sparavano in alto e a punta e in direzioni opposte. Ma tutto il suo aspetto era lugubre; e nonostante presentasse un corpo fatto di materia, non emetteva, in quel chiaror di luna, benché minima ombra sul terreno.
Sprofondato nel sedile posteriore dell’auto, Solcris percepiva ora strane vibrazioni del pianale e sentiva le ruote scentrate sobbalzare sulle sconnessure dell’asfalto che gli rispondeva arrogantemente sotto le suole.
Il filare dei paracarri lungo il margine della via scorreva lentamente i suoi occhi, e lo staccare intervallato che ne derivava gli polarizzava la mente in una sorta di conta sistematica innescata inconsciamente, nell’auspicato tentativo di estraniarsi da quegli strani avvenimenti. Ma pur impegnato in questo computo laborioso, con aria di efficienza o di preciso proposito, egli non riuscì tuttavia a scacciarsi di dosso la paura. Ciò che con angoscia invece costatò, sporgendosi dal finestrino per cogliere una striscia di cielo stellato, era che l’aria si stava annerendo. Tutt’attorno, adesso, in quel nitore satellitare, erano macchie scure, amorfe, dai contorni diafani e tremolanti, che si vedevano salire in lente spire e soffermarsi a mezz’aria, indi stendersi a ventaglio: a guisa di un’ondeggiante armata aerea calamitata al veicolo.
Egli, a quel vedere, si sentì raggelare il sangue, e per un attimo gli mancò il respiro; la fronte, fredda e madida, sgorgava rivoli di sudore. Quella specie di sorda paura in cui s’era conchiusa ora la sua anima, trovò con il pensiero di Dio una tana e un orizzonte. Sentì dentro di sé il desiderio di pregare e lo fece ripetendo incessantemente le poche preghiere che conosceva. Ma non riuscì a concentrarsi. Gli venne allora in mente una filastrocca che gli ripeteva spesso sua madre quando era bambino, per rassicurarlo dalla paura del buio. La recitò a labbra schiuse:
“La notte.
Nel grande silenzio.
Del vento e le foglie,
che spira, che fremono.
Del bimbo e la madre,
che piange, che culla.
E gatto sul tetto,
che siede, che fissa.
La luna.
La notte.
Nel grande silenzio.”.
Intanto sul percorso si affiancavano le prime costruzioni. Via da tanta campagna, ora attraverso il paese. E giù per lastricati lucidi, e strade deserte, e filari di case, e di lampade aeree. Giunta allo svolto di un incrocio, l’auto imboccò una stretta straducola che, subito a dritta, menava per uno slargo ritirato della carreggiata. Ivi si arrestò, infilandosi fra lo spazio di due vetture là disposte a fari accesi. Quasi contemporaneamente, si spensero le luci da tutti e tre i veicoli. Lo stridio di porte aperte e lo sbattere secco successivo rimasero un po’ nella deserta via. Qualcuno tirò dal cofano un grosso sacco; lo slegò e gli aprì l’orlo, sostenendolo a braccia aperte: spuntò all’interno una rosa di cozzi di bastoni stipati verticalmente nell’involucro. Ciascuno degli astanti, con un gesto deciso e arcuato del braccio, n’estrasse fuori uno e, saggiandone la solidità con movimento dondolante della mano, lo brandiva come un’arma.
Solcris, scendendo per ultimo dall’autovettura, lanciò uno sguardo lungo la via. Scorse che questa correva silente e angusta: un acciottolato baluginante srotolava ai lati di costruzioni settecentesche che affondavano a muso duro per la strada, e giacché guarniti dal cerchiarsi di giallo delle lampade a muro, accentuavano l’effetto mobile e drammatico dei loro rilievi. La sistemazione e connessione degli elementi compositivi delle facciate, infatti, si riassumeva in ordini di cornici marcapiano, con mensole di sostegno a balconi in pietra lavica riccamente intagliata, ben visibili dalla strada sottostante. Ma quello che colpì maggiormente Solcris furono le grandi paraste angolari che serravano gli spigoli degli edifici in una lavorata e chiaroscurata cerniera, che conferivano ai medesimi una sorta di bardatura cavalleresca. E tutto questo fantastico complesso architettonico, però svaniva al contrastare di orripilanti corde pendenti dai balconi delle facciate, alle cui estremità erano incappucciati sacchi di immondizia. Questi ciondolavano a pelo terra a guisa di un’inquietante, tetra ballata d’impiccati. Era un marchingegno ideato dagli abitanti del luogo per la raccolta dei rifiuti. Gli spazzini, allo spuntar del giorno, avrebbero passato in rassegna tutta la via, caricando nei loro rumorosi e fumosi camion i citati sacchi. A Solcris, però, la cosa lo indispettì alquanto. Accolse l’espediente come una manifestazione di mera volgarità, espressione di controcultura, mossa dagli abitanti di quel luogo alla gentile costruzione aristocratica.
Quando tutti furono finalmente armati di bastoni, echeggiò nella strada deserta un ordine perentorio, a questo seguì un calpestio affrettato, un’accorrere frusciante e il reperirsi in un punto: la strana comitiva si riunì. Non erano più di una dozzina, e chi comandava ora si muoveva in testa al gruppo.
Camminavano lenti lungo la via, in fila indiana, mentre il disco lunare si ergeva alto e rosso tra le costruzioni, bucando la volta celeste. Durante il tragitto si udiva il serrare di porte e finestre, lo scorrere veloce di persiane abbassate, lo sbattere d’imposte; le luci, che a tratti punteggiavano le due facciate, si spensero di un colpo; un pipistrello muovendo in picchiata rasentò le teste dei presenti, mulinando poi attorno a una lampada a muro. Alitava ora nell’aria una palese e greve sensazione d’attesa, come quando, accesa una miccia di una bomba se n’attende poi l’effetto esplodente. A un certo punto del percorso accostarono su una breve scalinata che sporgente dal bordo strada s’inerpicava lateralmente all’edificio, e impegnandola silenziosamente, si soffermarono sul largo pianerottolo, davanti alla porta d’ingresso a due battenti chiusa.
Il Generalissimo volse attorno a sé uno sguardo lungo e pensieroso, lo posò sulla mole gigantesca di quei palazzoni che si disegnavano con contorni ricamati e spingevano ad imbuto per la via. Poi fissò in alto, annusò l’aria e con voce breve, infine disse: “Presto Solcris, accendi i profumi, perché stanno per attaccarci!”. Senza rispondere, quest’ultimo prese una piccola calotta di rame e la riempì per metà di piccolissime pietre di incenso; poi con un coltello tagliò alcuni strati di mirra foderata con carta stagnola, e li mise nel contenitore. Quando fece per accendere con dei fiammiferi, questi si spegnevano sistematicamente, nonostante non ci fosse in giro alito di vento. Frattanto il Generalissimo scelse quattro soldati, vigorosi, e stendendo le braccia davanti a sé, a pugni chiusi, disse loro: “Avanti, aggrappatevi a me con tutta la vostra forza e non risparmiatevi, poiché questo servirà a trasmettervi potenza allo Spirito.”
Il generalissimo era una persona tarda d’età, anzi si poteva senz’altro affermare che era un vecchio sui settant’anni circa. Di modesta statura e corporatura esile, aveva il capo incanutito e un viso rugoso, dalla pelle spessa e arroventata dal sole, simile all’abbronzatura di uomo di mare. Sull’esile viso, aveva sempre improntato un accenno di sorriso gentile che s’illuminava aprendosi su due occhi azzurri tenui e un nasino ellenico, che gli si arricciava al curvarsi in su degli angoli della bocca. La fronte, spaziosa e prominente, gli conferiva un’aria da dotto.
I quattro, ubbidendo all’ordine, s’aggrapparono a due mani, ma non troppo forte, alle braccia del vecchio, stimando in cuor loro che avrebbero potuto fargli male se avessero effettivamente stretto con tutta la forza. Ma il Generalissimo, accortosi delle loro indecisioni, aggiunse: “Avanti! Serrate forte le vostre mani, e non preoccupatevi di farmi male: è in me la potenza dello Spirito.” A questo punto, i quattro, con un cenno di reciproca intesa, premettero stavolta con decisione, mettendoci veramente la vigoria dei loro vent’anni. Il vecchio a sua volta, con gran meraviglia di tutti, rivelando una forza fisica straordinaria, reagì alzando in alto le braccia, e con un movimento crescendo in su, spostò nettamente di peso i quattro, ben più robusti di lui, i quali furono sbilanciati e sbattuti violentemente contro la ringhiera delimitante il pianerottolo “Ora lasciatemi.” riprese quello, e si parò davanti alla porta chiusa. Ne esaminò la robustezza, auscultò con l’orecchio, infine tastò la serratura infilando la chiave e girando più volte nella toppa. Dall’interno, una forza misteriosa agiva per aprire la porta, e quelli che si trovavano nel ripiano, compreso Solcris, aiutarono il vecchio a trattenerla a sé, aggrappandosi con le dita alle sporgenze e incavature della medesima. Poi tale resistenza sembrò cessare; e il Generalissimo a quel punto, allentando la presa con cautela, disse: “Sentite che odore di malefico! Devono esserci mille diavoli d’alto loco, sicuramente con i gradi di Generale e Generalissimo, e chissà!” Annusando vicino alla porta, Solcris e gli altri sentirono una puzza nauseabonda, indescrivibile, un lezzo di carne putrefatta e di uova marce; un fetore infernale. Ad un tratto, il crepitio e l’odore dell’incenso, bruciato nella calotta di rame, investirono le narici della strana comitiva. A Solcris, che finalmente era riuscito ad accendere i profumi, gli sembrava ora che qualche cosa dell’anima sua prendesse vigore col fumo di quei fuochi corroboranti. A un preciso segnale del Generalissimo, si avvicinò alla porta chiusa, e reggendo a mano la calotta, sostò timoroso. Improvvisamente, come investita da una squassante folata di vento, la porta si spalancò violentemente sbattendo le imposte e aprendosi su una stanza semibuia. Soltanto un tenue raggio lunare, filtrando per la finestra posta in fondo al corridoio, rifletteva sul pavimento. Un gatto, dal pelo maculato nero, spuntò improvvisamente dal buio della stanza e si collocò in corrispondenza della fascia illuminata. Qui l’animale girò su se stesso ascrivendo come un cerchio ideale sul pavimento. In questo cerchio immaginario avvampò una lingua di fuoco, che s’innalzò dal suolo al tetto; poi la fiamma svanì, come un colpo di sole che asciuga la strada, ed ivi si materializzò una colonna rotolante di caligine cinerea. E man mano che questa diradava le sue particelle, restituiva agli astanti la sinistra figura bislunga che Solcris ebbe a incrociare più volte lungo il tragitto. Stavolta egli non aveva più il cappello largo a cupola alta, e sparava in testa due corna nodose, a U; il corpo era interamente nudo e mostrava ruvida e cisposa pelle verdastra, tipica dei coccodrilli, con la coda che ondeggiava lentamente a destra e a manca, a guisa di un grosso lucertolone che a zanne schiuse, si crogiola al sole. Questo essere infernale ruotò quindi la testa a trecentosessanta gradi e, fumante dal naso, si librò a mezza altezza nella stanza. Gettò quindi uno sguardo fisso e lampeggiante di fuoco a Solcris, il quale, impassibile nel pianerottolo e reggendo ancora i profumi davanti a sé, fu attanagliato da una fitta dietro la nuca e, a seguire, da un forte tremore alla testa. Poi sentì lo scandire di una voce interna che gli diceva: “Butta per terra ciò che hai in mano, soldato, e ti conferirò gradi da generale. Ti darò grossi poteri e potrai trasformarti e viaggiare spirituale a tuo piacimento.” Ad un tratto intervenne il Generalissimo, che con un balzo felino si parò davanti all’essere infernale, mettendosi subito nel punto della stanza in cui cadeva lo sguardo di quest’ultimo, come si fa con certi ritratti. Puntandogli quindi gli occhi addosso e sostenendo lo sguardo magnetico dell’infernale demone, il vecchio mormorò a bassa voce misteriose parole di una lingua sconosciuta, e improvvisamente la porta sbatté forte chiudendosi nuovamente dietro alla belva immonda, che intanto bestemmiava contro tutta la Cristianità. A questo punto il Generalissimo afferrò una spada di ferro e tenendola a pugno chiuso sull’elsa, con la lama rivolta per terra, picchiettò ripetutamente con la punta sul pavimento. Inarcando quindi il corpo, imbastì una sorta di danza cui il battere dell’arma scandiva armonicamente un tempo ritmato. Infine diede un forte calcio sulla porta che, scardinate le cerniere, si aprì di botto sulla stanza mostrando una schiera di demoni dagli occhi di brace e dalle nere ali tarpate sulla schiena. Qualcuno di loro aveva appuntato al petto delle scintillanti medaglie e brandiva una spada con tacche sulla lama; altri tenevano piegata sul braccio della rete nera, e al posto delle mani avevano degli uncini che scintillavano sinistramente in quella semioscurità. Alle spalle di questi demoni, in un canto della stanza, stava il diavolo che per prima si era manifestato, che adesso indossava una spessa armatura argentata e trasmetteva ordini. Il Generalissimo varcò la soglia e affrontò tre demoni con le nere ali tarpate; con alcuni colpi di spada ad incrociare dilaniò le carni ad uno di loro che cadde tramortito, disteso lungo per terra, mentre gli altri due indietreggiarono, disorientati di tale furore. Nel frattempo un malefico, roteando con l’uncino in aria l’ampia rete nera, la scagliò repentinamente contro Solcris che rimase intrappolato; ed allorché la rete venne serrata a cappio all’estremità inferiore, da un laccio che l’essere infernale tirava a sé con l’uncino, Solcris perdette l’equilibrio e rovinò per terra rotolando più volte sul pavimento avvoltolato nella rete. Il demone lo trascinò quindi lungo il corridoio, mentre un altro essere infernale gli sferrò un colpo di spada mirando alla testa, che Solcris evitò per un pelo spostandosi istintivamente di un lato. Questi, poi, piegando più che poteva le ginocchia verso il petto, caricando con i muscoli delle gambe, scoccò a piedi uniti un tremendo calcione allo stomaco a quello, che s’acquattò su se stesso ginocchioni, serrandosi a braccia intrecciate il ventre. Solcris caricò ancora con le gambe, e con un altro violento calcio a piedi uniti colpì stavolta in pieno viso l’avversario, il quale roteò su se stesso sollevato da un palmo da terra. Indi si accasciò esamine sul freddo pavimento, emettendo un sordo rantolio. Solcris riuscì infine a liberarsi dalla rete e, mentre si alzava, prese al volo il bastone che il Generalissimo gli lanciò in reciproca intesa. Caricò pertanto a due mani un secco fendente, ascrivendo una parabola arcuata con l’arma assestata da dietro la schiena, che prese in piena testa il diavolo, nel frammezzo delle corna. Quando estrasse a sé l’arma, Solcris si accorse che questa si era tramutata in metallo e aveva la punta impregnata di sangue. Ora nella stanza non rimaneva che il demone con l’armatura argentata, mentre i corpi dilaniati degli altri malefici giacevano esamini sul pavimento. Chiazze e rivoli di sangue stagnavano sul pavimento, e un fetore di putrefazione già aggrediva le narici dei presenti.
Fu Solcris questa volta a sostenere lo sguardo di quell’essere immondo, che con una voce ultraterrena, gli disse: “Bene, soldatino di carta, finalmente sei entrato in gioco pure tu. Ti accorgerai che saranno più le sconfitte che dovrai subire che le vittorie ad assaporare. Io ti sono nemico dall’inizio dei tempi,da quando fosti creato dal tuo Signore. Da allora il mio unico scopo è quello di annientarti, o di farti passare tra le mie file. Ma tu sei un dannato idealista, e so che preferiresti morire allorché saltare il fosso. Sappi che questa battaglia è stata intrapresa per ordine del tuo Dio, ed era necessario che ci scontrassimo qua, in questo mare di odio infinito. Preparati dunque ad accogliere la tua prima sconfitta, affinché la tua stupida mente si renda conto della forza immane che ti si sovrasta davanti.“
Appena il demone ebbe finito di dire queste parole, Solcris venne colpito violentemente alla testa, da tergo, e barcollante rovinò sul pavimento. Mentre era esamine, vide l’uomo che lo aveva colpito e che in quel momento lo stava guardando ghignante, con una espressione che Solcris non riconosceva a quel viso a lui noto. Era stato il Generalissimo a colpirlo a tradimento, ed ora si faceva beffe di lui. Di colpo tutto gli fu chiaro. Il suo Generale non era altro che un ministro del male mandato sulla terra da Satana per confondere l’esercito del bene. Egli, dimostrandosi il primo tra i lottatori più tenaci contro il male, avrebbe acquistato la stima dai suoi avversari, che gli si sarebbero accostati con fiducia. A questo punto un tremendo sospetto colse improvvisamente Solcris, che prese a dire ai due demoni infernali: “I miei compagni dove sono?… Che ne è stato di loro?” E allorché quelli non rispondevano: “Che siate mille volte maledetti!” Nel dire questo, notò un’aria di tronfia soddisfazione nel volto dei due malefici; poi si alzò lentamente e ancora vacillante uscì fuori nel pianerottolo. Quello che vide fu tremendo! I suoi compagni d’armi stavano appesi al collo a quelle corde pendenti lungo le facciate dei palazzi; i loro corpi erano dilaniati e sgorgavano sangue dappertutto. Le teste erano rovesciate sulle spalle. Qualcuno aveva la lingua ingrossata ed espulsa dalla nera bocca, mentre altri avevano un’espressione stravolta del viso, improntato da una smorfia di dolore spaventosa, di un’immane esplosione di liquido ematico, avvenuto dopo un consistente rigonfiamento delle carni. I corpi dei suoi poveri compagni penzolavano ora nel buio della notte, al posto dei sacchi di spazzatura, mentre lungo la via s’intonava un canto lugubre seguito da uno scampanio assordante, come di una miriade di campanelle tintinnanti. Per tutta la via, questa tetra ballata degli impiccati era un inno echeggiante alle forze del male.
A Solcris venne allora sulle labbra la filastrocca che gli recitava sempre sua madre, per rassicurarlo nel buio della notte.
“La notte.
Nel grande silenzio.
Del vento e le foglie,
che spira, che fremono.
Del bimbo e la madre,
che piange, che culla.
E gatto sul tetto,
che siede, che fissa.
La luna.
La notte.
Nel grande silenzio.”.
Sprofondato nel sedile posteriore dell’auto, Solcris percepiva ora strane vibrazioni del pianale e sentiva le ruote scentrate sobbalzare sulle sconnessure dell’asfalto che gli rispondeva arrogantemente sotto le suole.
Il filare dei paracarri lungo il margine della via scorreva lentamente i suoi occhi, e lo staccare intervallato che ne derivava gli polarizzava la mente in una sorta di conta sistematica innescata inconsciamente, nell’auspicato tentativo di estraniarsi da quegli strani avvenimenti. Ma pur impegnato in questo computo laborioso, con aria di efficienza o di preciso proposito, egli non riuscì tuttavia a scacciarsi di dosso la paura. Ciò che con angoscia invece costatò, sporgendosi dal finestrino per cogliere una striscia di cielo stellato, era che l’aria si stava annerendo. Tutt’attorno, adesso, in quel nitore satellitare, erano macchie scure, amorfe, dai contorni diafani e tremolanti, che si vedevano salire in lente spire e soffermarsi a mezz’aria, indi stendersi a ventaglio: a guisa di un’ondeggiante armata aerea calamitata al veicolo.
Egli, a quel vedere, si sentì raggelare il sangue, e per un attimo gli mancò il respiro; la fronte, fredda e madida, sgorgava rivoli di sudore. Quella specie di sorda paura in cui s’era conchiusa ora la sua anima, trovò con il pensiero di Dio una tana e un orizzonte. Sentì dentro di sé il desiderio di pregare e lo fece ripetendo incessantemente le poche preghiere che conosceva. Ma non riuscì a concentrarsi. Gli venne allora in mente una filastrocca che gli ripeteva spesso sua madre quando era bambino, per rassicurarlo dalla paura del buio. La recitò a labbra schiuse:
“La notte.
Nel grande silenzio.
Del vento e le foglie,
che spira, che fremono.
Del bimbo e la madre,
che piange, che culla.
E gatto sul tetto,
che siede, che fissa.
La luna.
La notte.
Nel grande silenzio.”.
Intanto sul percorso si affiancavano le prime costruzioni. Via da tanta campagna, ora attraverso il paese. E giù per lastricati lucidi, e strade deserte, e filari di case, e di lampade aeree. Giunta allo svolto di un incrocio, l’auto imboccò una stretta straducola che, subito a dritta, menava per uno slargo ritirato della carreggiata. Ivi si arrestò, infilandosi fra lo spazio di due vetture là disposte a fari accesi. Quasi contemporaneamente, si spensero le luci da tutti e tre i veicoli. Lo stridio di porte aperte e lo sbattere secco successivo rimasero un po’ nella deserta via. Qualcuno tirò dal cofano un grosso sacco; lo slegò e gli aprì l’orlo, sostenendolo a braccia aperte: spuntò all’interno una rosa di cozzi di bastoni stipati verticalmente nell’involucro. Ciascuno degli astanti, con un gesto deciso e arcuato del braccio, n’estrasse fuori uno e, saggiandone la solidità con movimento dondolante della mano, lo brandiva come un’arma.
Solcris, scendendo per ultimo dall’autovettura, lanciò uno sguardo lungo la via. Scorse che questa correva silente e angusta: un acciottolato baluginante srotolava ai lati di costruzioni settecentesche che affondavano a muso duro per la strada, e giacché guarniti dal cerchiarsi di giallo delle lampade a muro, accentuavano l’effetto mobile e drammatico dei loro rilievi. La sistemazione e connessione degli elementi compositivi delle facciate, infatti, si riassumeva in ordini di cornici marcapiano, con mensole di sostegno a balconi in pietra lavica riccamente intagliata, ben visibili dalla strada sottostante. Ma quello che colpì maggiormente Solcris furono le grandi paraste angolari che serravano gli spigoli degli edifici in una lavorata e chiaroscurata cerniera, che conferivano ai medesimi una sorta di bardatura cavalleresca. E tutto questo fantastico complesso architettonico, però svaniva al contrastare di orripilanti corde pendenti dai balconi delle facciate, alle cui estremità erano incappucciati sacchi di immondizia. Questi ciondolavano a pelo terra a guisa di un’inquietante, tetra ballata d’impiccati. Era un marchingegno ideato dagli abitanti del luogo per la raccolta dei rifiuti. Gli spazzini, allo spuntar del giorno, avrebbero passato in rassegna tutta la via, caricando nei loro rumorosi e fumosi camion i citati sacchi. A Solcris, però, la cosa lo indispettì alquanto. Accolse l’espediente come una manifestazione di mera volgarità, espressione di controcultura, mossa dagli abitanti di quel luogo alla gentile costruzione aristocratica.
Quando tutti furono finalmente armati di bastoni, echeggiò nella strada deserta un ordine perentorio, a questo seguì un calpestio affrettato, un’accorrere frusciante e il reperirsi in un punto: la strana comitiva si riunì. Non erano più di una dozzina, e chi comandava ora si muoveva in testa al gruppo.
Camminavano lenti lungo la via, in fila indiana, mentre il disco lunare si ergeva alto e rosso tra le costruzioni, bucando la volta celeste. Durante il tragitto si udiva il serrare di porte e finestre, lo scorrere veloce di persiane abbassate, lo sbattere d’imposte; le luci, che a tratti punteggiavano le due facciate, si spensero di un colpo; un pipistrello muovendo in picchiata rasentò le teste dei presenti, mulinando poi attorno a una lampada a muro. Alitava ora nell’aria una palese e greve sensazione d’attesa, come quando, accesa una miccia di una bomba se n’attende poi l’effetto esplodente. A un certo punto del percorso accostarono su una breve scalinata che sporgente dal bordo strada s’inerpicava lateralmente all’edificio, e impegnandola silenziosamente, si soffermarono sul largo pianerottolo, davanti alla porta d’ingresso a due battenti chiusa.
Il Generalissimo volse attorno a sé uno sguardo lungo e pensieroso, lo posò sulla mole gigantesca di quei palazzoni che si disegnavano con contorni ricamati e spingevano ad imbuto per la via. Poi fissò in alto, annusò l’aria e con voce breve, infine disse: “Presto Solcris, accendi i profumi, perché stanno per attaccarci!”. Senza rispondere, quest’ultimo prese una piccola calotta di rame e la riempì per metà di piccolissime pietre di incenso; poi con un coltello tagliò alcuni strati di mirra foderata con carta stagnola, e li mise nel contenitore. Quando fece per accendere con dei fiammiferi, questi si spegnevano sistematicamente, nonostante non ci fosse in giro alito di vento. Frattanto il Generalissimo scelse quattro soldati, vigorosi, e stendendo le braccia davanti a sé, a pugni chiusi, disse loro: “Avanti, aggrappatevi a me con tutta la vostra forza e non risparmiatevi, poiché questo servirà a trasmettervi potenza allo Spirito.”
Il generalissimo era una persona tarda d’età, anzi si poteva senz’altro affermare che era un vecchio sui settant’anni circa. Di modesta statura e corporatura esile, aveva il capo incanutito e un viso rugoso, dalla pelle spessa e arroventata dal sole, simile all’abbronzatura di uomo di mare. Sull’esile viso, aveva sempre improntato un accenno di sorriso gentile che s’illuminava aprendosi su due occhi azzurri tenui e un nasino ellenico, che gli si arricciava al curvarsi in su degli angoli della bocca. La fronte, spaziosa e prominente, gli conferiva un’aria da dotto.
I quattro, ubbidendo all’ordine, s’aggrapparono a due mani, ma non troppo forte, alle braccia del vecchio, stimando in cuor loro che avrebbero potuto fargli male se avessero effettivamente stretto con tutta la forza. Ma il Generalissimo, accortosi delle loro indecisioni, aggiunse: “Avanti! Serrate forte le vostre mani, e non preoccupatevi di farmi male: è in me la potenza dello Spirito.” A questo punto, i quattro, con un cenno di reciproca intesa, premettero stavolta con decisione, mettendoci veramente la vigoria dei loro vent’anni. Il vecchio a sua volta, con gran meraviglia di tutti, rivelando una forza fisica straordinaria, reagì alzando in alto le braccia, e con un movimento crescendo in su, spostò nettamente di peso i quattro, ben più robusti di lui, i quali furono sbilanciati e sbattuti violentemente contro la ringhiera delimitante il pianerottolo “Ora lasciatemi.” riprese quello, e si parò davanti alla porta chiusa. Ne esaminò la robustezza, auscultò con l’orecchio, infine tastò la serratura infilando la chiave e girando più volte nella toppa. Dall’interno, una forza misteriosa agiva per aprire la porta, e quelli che si trovavano nel ripiano, compreso Solcris, aiutarono il vecchio a trattenerla a sé, aggrappandosi con le dita alle sporgenze e incavature della medesima. Poi tale resistenza sembrò cessare; e il Generalissimo a quel punto, allentando la presa con cautela, disse: “Sentite che odore di malefico! Devono esserci mille diavoli d’alto loco, sicuramente con i gradi di Generale e Generalissimo, e chissà!” Annusando vicino alla porta, Solcris e gli altri sentirono una puzza nauseabonda, indescrivibile, un lezzo di carne putrefatta e di uova marce; un fetore infernale. Ad un tratto, il crepitio e l’odore dell’incenso, bruciato nella calotta di rame, investirono le narici della strana comitiva. A Solcris, che finalmente era riuscito ad accendere i profumi, gli sembrava ora che qualche cosa dell’anima sua prendesse vigore col fumo di quei fuochi corroboranti. A un preciso segnale del Generalissimo, si avvicinò alla porta chiusa, e reggendo a mano la calotta, sostò timoroso. Improvvisamente, come investita da una squassante folata di vento, la porta si spalancò violentemente sbattendo le imposte e aprendosi su una stanza semibuia. Soltanto un tenue raggio lunare, filtrando per la finestra posta in fondo al corridoio, rifletteva sul pavimento. Un gatto, dal pelo maculato nero, spuntò improvvisamente dal buio della stanza e si collocò in corrispondenza della fascia illuminata. Qui l’animale girò su se stesso ascrivendo come un cerchio ideale sul pavimento. In questo cerchio immaginario avvampò una lingua di fuoco, che s’innalzò dal suolo al tetto; poi la fiamma svanì, come un colpo di sole che asciuga la strada, ed ivi si materializzò una colonna rotolante di caligine cinerea. E man mano che questa diradava le sue particelle, restituiva agli astanti la sinistra figura bislunga che Solcris ebbe a incrociare più volte lungo il tragitto. Stavolta egli non aveva più il cappello largo a cupola alta, e sparava in testa due corna nodose, a U; il corpo era interamente nudo e mostrava ruvida e cisposa pelle verdastra, tipica dei coccodrilli, con la coda che ondeggiava lentamente a destra e a manca, a guisa di un grosso lucertolone che a zanne schiuse, si crogiola al sole. Questo essere infernale ruotò quindi la testa a trecentosessanta gradi e, fumante dal naso, si librò a mezza altezza nella stanza. Gettò quindi uno sguardo fisso e lampeggiante di fuoco a Solcris, il quale, impassibile nel pianerottolo e reggendo ancora i profumi davanti a sé, fu attanagliato da una fitta dietro la nuca e, a seguire, da un forte tremore alla testa. Poi sentì lo scandire di una voce interna che gli diceva: “Butta per terra ciò che hai in mano, soldato, e ti conferirò gradi da generale. Ti darò grossi poteri e potrai trasformarti e viaggiare spirituale a tuo piacimento.” Ad un tratto intervenne il Generalissimo, che con un balzo felino si parò davanti all’essere infernale, mettendosi subito nel punto della stanza in cui cadeva lo sguardo di quest’ultimo, come si fa con certi ritratti. Puntandogli quindi gli occhi addosso e sostenendo lo sguardo magnetico dell’infernale demone, il vecchio mormorò a bassa voce misteriose parole di una lingua sconosciuta, e improvvisamente la porta sbatté forte chiudendosi nuovamente dietro alla belva immonda, che intanto bestemmiava contro tutta la Cristianità. A questo punto il Generalissimo afferrò una spada di ferro e tenendola a pugno chiuso sull’elsa, con la lama rivolta per terra, picchiettò ripetutamente con la punta sul pavimento. Inarcando quindi il corpo, imbastì una sorta di danza cui il battere dell’arma scandiva armonicamente un tempo ritmato. Infine diede un forte calcio sulla porta che, scardinate le cerniere, si aprì di botto sulla stanza mostrando una schiera di demoni dagli occhi di brace e dalle nere ali tarpate sulla schiena. Qualcuno di loro aveva appuntato al petto delle scintillanti medaglie e brandiva una spada con tacche sulla lama; altri tenevano piegata sul braccio della rete nera, e al posto delle mani avevano degli uncini che scintillavano sinistramente in quella semioscurità. Alle spalle di questi demoni, in un canto della stanza, stava il diavolo che per prima si era manifestato, che adesso indossava una spessa armatura argentata e trasmetteva ordini. Il Generalissimo varcò la soglia e affrontò tre demoni con le nere ali tarpate; con alcuni colpi di spada ad incrociare dilaniò le carni ad uno di loro che cadde tramortito, disteso lungo per terra, mentre gli altri due indietreggiarono, disorientati di tale furore. Nel frattempo un malefico, roteando con l’uncino in aria l’ampia rete nera, la scagliò repentinamente contro Solcris che rimase intrappolato; ed allorché la rete venne serrata a cappio all’estremità inferiore, da un laccio che l’essere infernale tirava a sé con l’uncino, Solcris perdette l’equilibrio e rovinò per terra rotolando più volte sul pavimento avvoltolato nella rete. Il demone lo trascinò quindi lungo il corridoio, mentre un altro essere infernale gli sferrò un colpo di spada mirando alla testa, che Solcris evitò per un pelo spostandosi istintivamente di un lato. Questi, poi, piegando più che poteva le ginocchia verso il petto, caricando con i muscoli delle gambe, scoccò a piedi uniti un tremendo calcione allo stomaco a quello, che s’acquattò su se stesso ginocchioni, serrandosi a braccia intrecciate il ventre. Solcris caricò ancora con le gambe, e con un altro violento calcio a piedi uniti colpì stavolta in pieno viso l’avversario, il quale roteò su se stesso sollevato da un palmo da terra. Indi si accasciò esamine sul freddo pavimento, emettendo un sordo rantolio. Solcris riuscì infine a liberarsi dalla rete e, mentre si alzava, prese al volo il bastone che il Generalissimo gli lanciò in reciproca intesa. Caricò pertanto a due mani un secco fendente, ascrivendo una parabola arcuata con l’arma assestata da dietro la schiena, che prese in piena testa il diavolo, nel frammezzo delle corna. Quando estrasse a sé l’arma, Solcris si accorse che questa si era tramutata in metallo e aveva la punta impregnata di sangue. Ora nella stanza non rimaneva che il demone con l’armatura argentata, mentre i corpi dilaniati degli altri malefici giacevano esamini sul pavimento. Chiazze e rivoli di sangue stagnavano sul pavimento, e un fetore di putrefazione già aggrediva le narici dei presenti.
Fu Solcris questa volta a sostenere lo sguardo di quell’essere immondo, che con una voce ultraterrena, gli disse: “Bene, soldatino di carta, finalmente sei entrato in gioco pure tu. Ti accorgerai che saranno più le sconfitte che dovrai subire che le vittorie ad assaporare. Io ti sono nemico dall’inizio dei tempi,da quando fosti creato dal tuo Signore. Da allora il mio unico scopo è quello di annientarti, o di farti passare tra le mie file. Ma tu sei un dannato idealista, e so che preferiresti morire allorché saltare il fosso. Sappi che questa battaglia è stata intrapresa per ordine del tuo Dio, ed era necessario che ci scontrassimo qua, in questo mare di odio infinito. Preparati dunque ad accogliere la tua prima sconfitta, affinché la tua stupida mente si renda conto della forza immane che ti si sovrasta davanti.“
Appena il demone ebbe finito di dire queste parole, Solcris venne colpito violentemente alla testa, da tergo, e barcollante rovinò sul pavimento. Mentre era esamine, vide l’uomo che lo aveva colpito e che in quel momento lo stava guardando ghignante, con una espressione che Solcris non riconosceva a quel viso a lui noto. Era stato il Generalissimo a colpirlo a tradimento, ed ora si faceva beffe di lui. Di colpo tutto gli fu chiaro. Il suo Generale non era altro che un ministro del male mandato sulla terra da Satana per confondere l’esercito del bene. Egli, dimostrandosi il primo tra i lottatori più tenaci contro il male, avrebbe acquistato la stima dai suoi avversari, che gli si sarebbero accostati con fiducia. A questo punto un tremendo sospetto colse improvvisamente Solcris, che prese a dire ai due demoni infernali: “I miei compagni dove sono?… Che ne è stato di loro?” E allorché quelli non rispondevano: “Che siate mille volte maledetti!” Nel dire questo, notò un’aria di tronfia soddisfazione nel volto dei due malefici; poi si alzò lentamente e ancora vacillante uscì fuori nel pianerottolo. Quello che vide fu tremendo! I suoi compagni d’armi stavano appesi al collo a quelle corde pendenti lungo le facciate dei palazzi; i loro corpi erano dilaniati e sgorgavano sangue dappertutto. Le teste erano rovesciate sulle spalle. Qualcuno aveva la lingua ingrossata ed espulsa dalla nera bocca, mentre altri avevano un’espressione stravolta del viso, improntato da una smorfia di dolore spaventosa, di un’immane esplosione di liquido ematico, avvenuto dopo un consistente rigonfiamento delle carni. I corpi dei suoi poveri compagni penzolavano ora nel buio della notte, al posto dei sacchi di spazzatura, mentre lungo la via s’intonava un canto lugubre seguito da uno scampanio assordante, come di una miriade di campanelle tintinnanti. Per tutta la via, questa tetra ballata degli impiccati era un inno echeggiante alle forze del male.
A Solcris venne allora sulle labbra la filastrocca che gli recitava sempre sua madre, per rassicurarlo nel buio della notte.
“La notte.
Nel grande silenzio.
Del vento e le foglie,
che spira, che fremono.
Del bimbo e la madre,
che piange, che culla.
E gatto sul tetto,
che siede, che fissa.
La luna.
La notte.
Nel grande silenzio.”.
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