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Trappola per topi

Trappola per topi

- una storia semiseria, ma drammaticamente vera -  di Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Eh, eh. Stavolta sei mio. Avverto la tua grigia presenza. Ma hai perso smalto…eh sì. Non puoi più ferirmi, non puoi più attentare alla mia autostima. In questa umida mattina di fine marzo sono qui, in aperta campagna, a celebrare il trionfo dell’uomo. Sul topo.

Già, si fa presto a dire topo. Mica sono tutti uguali. C’è il topino di campagna, un batuffolo grigio dalle grandi orecchie, tenero e inoffensivo, e il ratto di canale (o topo di fogna, o pantegana che dir si voglia), grosso e aggressivo, con la coda che pare un lombrico e il grido di battaglia (un soffio terrificante, niente tiri salvezza). Ne avrei da raccontare sui ratti di canale, e in particolare su uno che si fece le scale del palazzo dove abitava mio padre sino al quinto piano, cercando di fuggire da me che fuggivo da lui. Ma questa è una storia fatta di cose piccole e belle. Di buoni sentimenti. Di vite che si incontrano, si scontrano e si lasciano con un pizzico di nostalgia. Le cose andarono grosso modo così.

Me ne stavo bel bello semisdraiato sul divano, assorto nell’estenuante zapping notturno, quando vidi un ombra scura saettare fino al centro della stanza, fermarsi basita e poi guizzare nuovamente nel suo pertugio. Prima ancora di rendermene conto, sapevo perfettamente di cosa si trattava: i peli dritti sulle braccia, e il sangue ghiacciato nelle vene erano messaggi inequivocabili per il cervello. C’era un topo nel mio salotto. Non esiste un motivo plausibile per cui i simpatici topetti di campagna debbano farmi paura. Mi piacciono, in realtà. Per questo non volevo ricorrere al veleno, o alla carta topicida, ma semplicemente rimpatriare il clandestino in campagna, lontano dal mio salotto. Ecco, allora, la diabolica idea. Una trappola per topi. Che ci vorrà mai?
Dopo una breve fase di progettazione, mi misi al lavoro, sfruttando una ricetta semplice e ingredienti genuini: una scatola per scarpe, un lungo chiodo di ferro, un elastico, un floppy disk per computer e, naturalmente, un profumato pezzetto di grana.
Non mi ci volle molto per confezionare questo prodigio di ingegneria casalinga, che vedete schematicamente rappresentato qui sotto.


Il topo, attratto dall’odore irresistibile del formaggio, sarebbe entrato nella scatola e, ignaro delle trame tessute ben al di sopra della sua roditrice intelligenza, avrebbe ingenuamente rosicchiato il grana, attivando così una concatenazione letale di eventi, destinata in meno di un decimo di secondo a renderlo prigioniero: quello che infatti al topo sarebbe apparso come un bizzarro filamento gommoso annodato al grana, era in realtà un elastico, collegato al dischetto-cancello, pronto a scattare come una ghigliottina, sigillando il topo nella sua nuova, cartacea dimora.
Andai a dormire sfregandomi le mani, complimentandomi con la mia superiore intelligenza e ansioso di fare colazione con del topo in scatola.

La mattina successiva ero davanti alla scatola, con gli occhi cisposi e un ghigno di soddisfazione dipinto sul volto: il dischetto sigillava l’ingresso della scatola…ergo, il prevedibile sorcio aveva pagato un caro tributo alla sua ingordigia. Tuttavia. Silenzio. Mossi la scatola. Nada. Uscii in giardino e aprii il coperchio: non c’era un fottutissimo nulla! Anzi si. Il topo aveva lasciato una tangibile firma: oltre al grana mezzo mangiato, in segno di scherno mi aveva anche defecato dentro la scatola. In pratica, quel maledetto, perfido figlio d’un criceto, una volta fatto scattare l’elastico, era riuscito a sgattaiolare fuori dalla scatola prima che la porta si chiudesse. Indiana Jones.

Punto nell’orgoglio, organizzai per il topo una festa che non si sarebbe dimenticato. Rovistando tra gli scaffali polverosi del mio intelletto, trovai una soluzione che mi sembrava alquanto astuta. Anzi, oserei dire geniale. In pratica, occorreva semplicemente rallentare la fuga del topo in uscita, in modo che il dischetto avesse il tempo di cadere a terra una volta rotto l’elastico. Così, armato di scotch e cartone, costruii una serie di barriere per il topo, a mo’ di labirinto. Il topo entra, si infila nel labirinto di cartone guidato dall’odore del grana, arriva al grana…dopodiché, una volta rosicchiato l’elastico, la sua fuga sarà ostacolata dal labirinto di cartone! Bellissimo. Calò la notte su quello spicchio di palude. L’ultima notte del sorcio nel mio salotto.


Mattina. Ero di nuovo di fronte alla scatola. Il dischetto era sull’ingresso, l’elastico spezzato. Tutto come previsto. Silenzio. Sensazione di deja-vu. Uscii in giardino, scoperchiai la prigione di cartone, e vi trovai ancora una volta la rude firma del topo. Solo quella. Come cacchio ha fatto, stavolta?! Mi cadde l’occhio sulla porticina d’ingresso: era stata allargata a morsi! Il diabolico ratto era rimasto, sì, intrappolato, ma era riuscito a rosicchiarsi un varco! Dannazione. Lo sentivo ridere di me, la sua pancia piena del mio grana e il suo orgoglio di topo nutrito dalle mie sconfitte. Stavolta la mia determinazione vacillò. Per giorni e giorni feci finta che il topo non fosse mai esistito, mettendo piede con circospezione in salotto, e facendo bene attenzione a fare abbastanza rumore da farlo battere in ritirata prima di finire accidentalmente sulla traiettoria del mio sguardo. Le cose funzionavano, e io ero di nuovo una persona felice. Fino a quella notte. Quella terribile notte.
Ero tornato a casa tardi da un’uscita con gli amici. Andai in bagno a lavarmi i denti. A un certo punto, a momenti ingoiavo lo spazzolino: lui era lì. Passeggiava nei pressi della lavatrice, quando si era accorto di me. A quel punto si era alzato sulle zampe posteriori, fiutando l’aria indeciso sul da farsi. Cosa deve essergli passato per la testa prima di quell’insano gesto non lo so. Posso solo immaginarlo. Uh, oh. Cazzo, mi sa che mi ha visto. Mi sta fissando immobile con uno scopettone in bocca. E adesso che faccio?! Forse, se gli sfilo davanti ostentando indifferenza, forse non farà caso a me. Forse si… Si, è decisamente un ottimo piano…
E così, il sorcio riatterrò sulle zampe anteriori e puntò dritto verso di me, che gli ostruivo la strada verso la porta. Santi numi! Coi capelli dritti fuggii fuori dal bagno e chiusi la porta (a chiave, che non si sa mai!). Restai qualche secondo in trepidante attesa nel corridoio, temendo di vedere il topo abbattere la porta a spallate…ma quello cui dovetti assistere era un episodio ben più agghiacciante, che mi sarebbe rimasto impresso per tutta la vita. In pratica, il topo riuscì ad appiattirsi e a passare sotto la porta, materializzandosi nel corridoio. Una performance cui non assistevo dai tempi di Aquaman dei Superamici. Poi, anziché ripiegare verso il suo pertugio in salotto, lo snodato roditore puntò verso la direzione opposta, ossia verso l’altro bagno, dove ero io. Con gli occhi sbarrati per l’orrore, vidi il topo sgusciarmi impavido tra i piedi ed entrare nel bagno. Immediatamente fuggii, chiudendo la porta e infilandoci sotto un tappeto, per evitare di ammirarlo nuovamente fuoriuscire dalla fessura. Poi mi chiusi in camera, avendo l’accortezza di sigillare la porta con carta di giornale. Mi addormentai in preda a sogni agitati. Purtoppo la realtà superava l’incubo: nel cuore della notte, infatti, fui svegliato da un orribile rumore di mandibole e di legno che andava in pezzi. Non è possibile, sta divorando la porta del bagno! E’ un vero mostro. Non potevo assistere immobile alla distruzione della mia casa. Così presi il coraggio a due mani, uscii e, rapidissimamente, aprii la porta del bagno e tornai a sigillarmi nella mia.

La mattina successiva indicai a mia madre, con espressione grave, la porta del bagno: “hai visto cos’ha fatto? La stava distruggendo!”.
Mia madre diede un’occhiata, poi mi disse con una scrollata di spalle che non si vedeva un bel niente. Al che mi avvicinai stupefatto: ero convinto che ci fosse una voragine, invece la porta era perfettamente intatta, fatta eccezione per un paio di segnetti di dentini aguzzi. E pensare che il rumore mi aveva svegliato nel cuore della notte!

Comunque, la misura era colma. Il sorcio si stava pian piano appropriando dei miei spazi vitali, e sapevo che, se non avessi fatto qualcosa, prima o poi me lo sarei ritrovato disteso sul cuscino. Tirai di nuovo fuori la vecchia scatola di scarpe, e mi apprestai a rinforzarla come si deve. Il progetto era ancora valido, gli serviva solo qualche sistematina qua e là. Anzitutto, infilai la scatola dentro un’altra scatola. Tra le due scatole, poi, infilai uno strato di mattonelle. Rinforzai pure l’entrata con del nastro adesivo. E rinnovai l’invito al topo con un massiccio pezzo di grana.
E così, all’alba di un nuovo giorno, mio padre irruppe in camera, asserendo di aver udito dei rumori provenienti da una strana scatola piazzata vicino al divano. Scattai a molla verso il salotto. Scrunch, scrunch, scrunch. Eh, eh! Il topo era dentro che cercava di affilarsi i dentoni sulle mattonelle. In trappola!

E insomma, eccomi qui, videocamera alla mano, di fronte a una distesa di grano reso brillante dalla rugiada del mattino. Inquadro la scatola, prima di dare a mio padre un comando perentorio: apri!
E fu così che il topo di campagna, dopo una lunga dieta di grana e mille avventure nel mondo degli umani, venne restituito al suo habitat naturale. Chissà quante ne avrà da raccontare.
Di lui non mi resta che un paio di scatole “autografate”, e un filmino amatoriale, dove si vede soltanto la sua minuscola coda saettare fuori dalla scatola. Verso il grano e la libertà.
Mattina. Ero di nuovo di fronte alla scatola. Il dischetto era sull’ingresso, l’elastico spezzato. Tutto come previsto. Silenzio. Sensazione di deja-vu. Uscii in giardino, scoperchiai la prigione di cartone, e vi trovai ancora una volta la rude firma del topo. Solo quella. Come cacchio ha fatto, stavolta?! Mi cadde l’occhio sulla porticina d’ingresso: era stata allargata a morsi! Il diabolico ratto era rimasto, sì, intrappolato, ma era riuscito a rosicchiarsi un varco! Dannazione. Lo sentivo ridere di me, la sua pancia piena del mio grana e il suo orgoglio di topo nutrito dalle mie sconfitte. Stavolta la mia determinazione vacillò. Per giorni e giorni feci finta che il topo non fosse mai esistito, mettendo piede con circospezione in salotto, e facendo bene attenzione a fare abbastanza rumore da farlo battere in ritirata prima di finire accidentalmente sulla traiettoria del mio sguardo. Le cose funzionavano, e io ero di nuovo una persona felice. Fino a quella notte. Quella terribile notte.
Ero tornato a casa tardi da un’uscita con gli amici. Andai in bagno a lavarmi i denti. A un certo punto, a momenti ingoiavo lo spazzolino: lui era lì. Passeggiava nei pressi della lavatrice, quando si era accorto di me. A quel punto si era alzato sulle zampe posteriori, fiutando l’aria indeciso sul da farsi. Cosa deve essergli passato per la testa prima di quell’insano gesto non lo so. Posso solo immaginarlo. Uh, oh. Cazzo, mi sa che mi ha visto. Mi sta fissando immobile con uno scopettone in bocca. E adesso che faccio?! Forse, se gli sfilo davanti ostentando indifferenza, forse non farà caso a me. Forse si… Si, è decisamente un ottimo piano…
E così, il sorcio riatterrò sulle zampe anteriori e puntò dritto verso di me, che gli ostruivo la strada verso la porta. Santi numi! Coi capelli dritti fuggii fuori dal bagno e chiusi la porta (a chiave, che non si sa mai!). Restai qualche secondo in trepidante attesa nel corridoio, temendo di vedere il topo abbattere la porta a spallate…ma quello cui dovetti assistere era un episodio ben più agghiacciante, che mi sarebbe rimasto impresso per tutta la vita. In pratica, il topo riuscì ad appiattirsi e a passare sotto la porta, materializzandosi nel corridoio. Una performance cui non assistevo dai tempi di Aquaman dei Superamici. Poi, anziché ripiegare verso il suo pertugio in salotto, lo snodato roditore puntò verso la direzione opposta, ossia verso l’altro bagno, dove ero io. Con gli occhi sbarrati per l’orrore, vidi il topo sgusciarmi impavido tra i piedi ed entrare nel bagno. Immediatamente fuggii, chiudendo la porta e infilandoci sotto un tappeto, per evitare di ammirarlo nuovamente fuoriuscire dalla fessura. Poi mi chiusi in camera, avendo l’accortezza di sigillare la porta con carta di giornale. Mi addormentai in preda a sogni agitati. Purtoppo la realtà superava l’incubo: nel cuore della notte, infatti, fui svegliato da un orribile rumore di mandibole e di legno che andava in pezzi. Non è possibile, sta divorando la porta del bagno! E’ un vero mostro. Non potevo assistere immobile alla distruzione della mia casa. Così presi il coraggio a due mani, uscii e, rapidissimamente, aprii la porta del bagno e tornai a sigillarmi nella mia.

La mattina successiva indicai a mia madre, con espressione grave, la porta del bagno: “hai visto cos’ha fatto? La stava distruggendo!”.
Mia madre diede un’occhiata, poi mi disse con una scrollata di spalle che non si vedeva un bel niente. Al che mi avvicinai stupefatto: ero convinto che ci fosse una voragine, invece la porta era perfettamente intatta, fatta eccezione per un paio di segnetti di dentini aguzzi. E pensare che il rumore mi aveva svegliato nel cuore della notte!

Comunque, la misura era colma. Il sorcio si stava pian piano appropriando dei miei spazi vitali, e sapevo che, se non avessi fatto qualcosa, prima o poi me lo sarei ritrovato disteso sul cuscino. Tirai di nuovo fuori la vecchia scatola di scarpe, e mi apprestai a rinforzarla come si deve. Il progetto era ancora valido, gli serviva solo qualche sistematina qua e là. Anzitutto, infilai la scatola dentro un’altra scatola. Tra le due scatole, poi, infilai uno strato di mattonelle. Rinforzai pure l’entrata con del nastro adesivo. E rinnovai l’invito al topo con un massiccio pezzo di grana.
E così, all’alba di un nuovo giorno, mio padre irruppe in camera, asserendo di aver udito dei rumori provenienti da una strana scatola piazzata vicino al divano. Scattai a molla verso il salotto. Scrunch, scrunch, scrunch. Eh, eh! Il topo era dentro che cercava di affilarsi i dentoni sulle mattonelle. In trappola!

E insomma, eccomi qui, videocamera alla mano, di fronte a una distesa di grano reso brillante dalla rugiada del mattino. Inquadro la scatola, prima di dare a mio padre un comando perentorio: apri!
E fu così che il topo di campagna, dopo una lunga dieta di grana e mille avventure nel mondo degli umani, venne restituito al suo habitat naturale. Chissà quante ne avrà da raccontare.
Di lui non mi resta che un paio di scatole “autografate”, e un filmino amatoriale, dove si vede soltanto la sua minuscola coda saettare fuori dalla scatola. Verso il grano e la libertà.
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