Il caffè impossibile
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Il caffè impossibile
Racconto di Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. ">Andrea Gennaro
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“Quando digo che voglio ca fè, vuol dire che voglio ca fè!”
E noi giù a ridere, con quella gaiezza stolta dell’infanzia.
La nostra famiglia era composta di otto elementi: io, i miei genitori e i miei cinque fratelli. Tutti maschi, per un fortuito volere del destino, ché di femmine non sapevamo cosa farcene. Alla nostra famiglia servivano “braccia buone per la terra”, come diceva mio padre. Mica “altre bocche da sfamare” e basta...
Era il 1953, un’estate fra le più calde mai registrate qui nella zona del delta del Po, e mio padre partiva alle cinque del mattino col suo bravo codazzo di figli assonnati al seguito per andare a lavorare la terra bassa di queste parti depresse.
Vivevamo di giornate assolate e fatica, senza sosta a rincalzar di vanga le piante di granoturco: le infiorescenze mature andavano ad appiccicarsi sulle nostre schiene chine cosicché era un continuo dibattersi per il prurito provocato, movimenti inconsulti che permettevano alle foglie taglienti di assaggiare i nostri scarni avambracci di bambino.
Avevo sette anni, allora; il mio compito consisteva nell’estirpare le erbacce che crescevano fra le piante di formentone e che “succhiavano l’acqua al loro posto” come diceva mio padre. Passavo così metà della mia giornata a procedere carponi fra i filari di mais, lottando strenuamente contro ogni gramigna infestante, chiacchierando coi lombrichi di passaggio e con le pietre calcinate dal sole sfacciato.
La campagna assolata stordiva le membra, l’aria canicolare le abbatteva assorbendone ogni energia. Eppure, di tanto in tanto, si alzava una brezza fresca, succosa e buona, che rinfrancava quel mio alacre peregrinare. Era al levarsi di quel refolo benevolo che scorgevo in lontananza il rizzarsi delle schiene sudate dei miei fratelli maggiori. Mio padre si spingeva sulla nuca il cappello di paglia e si tergeva la fronte con un avambraccio carnoso e possente. Il suo petto si espandeva ad abbracciare quel soffio del paradiso, quindi si immobilizzava per qualche secondo ed infine ricadeva, grato e soddisfatto.
Lo vedevo come una statua nel grano, un monumento vivente all’operosità.
Avrebbe continuato a lavorare per tutta la vita, mi avrebbe permesso di proseguire gli studi, unico fra i suoi sei figli a perseguire un diploma di licenza superiore, unico fra i suoi sei figli ad abbandonare il lavoro nei campi e ad abbandonare il formentone.
Bisognava stare “sempre sotto”, diceva, “che la vita non te la regala nessuno!”
“Sempre in prima fila se c’è da lavorare”, mi ripeteva.
Ed io sempre sotto stavo, che cavar erbacce non lo si poteva mica fare in piedi!
E sempre in prima fila, volente o nolente, che ad essere il figlio minore ero quello tartassato, quello che si faceva i lavori che gli altri non volevano fare.
Si rientrava a casa col buio, quale che fosse la stagione. Per questo motivo odiavo l’estate. Odiavo quelle giornate interminabili passate in ginocchio, a scorticare la terra.
Mia madre era a casa. Attendeva, bianca come un cadavere che ci disponessimo a tavola, sporchi, unti e bisunti secondo il suo dire. Sul mio piatto veniva a cadere invariabilmente un’unica fetta di polenta bianca così sottile “che ci potevi vedere San Pancrazio attraverso”, come provava ad obiettare Renzo, il più grande.
“Non bestemmiare”, diceva mia madre rivolgendo lo sguardo alla finestra ed alla chiesa, sul crinale.
“Mangia e taci”, era invece il monito severo del babbo, ma si vedeva che la pensava allo stesso modo. A volte si alzava ed elargiva una mezza aringa sotto sale disposta su un foglio di giornale a centro tavola perché ne facessimo un Natale, ma le occasioni in cui avveniva erano veramente rare, come quella brezza pomeridiana nel mais.
Il piatto era subito vuoto, una cena ristoratrice solo per autoconvincimento. Renzo sbuffava e si accasciava sullo schienale, Angelo e Luciano si davano alla morra cinese, Sergio chiudeva gli occhi e annusava la forchetta, Antonio correva dietro a mia madre, già intenta a sparecchiare. Io restavo a tavola, sognando che fosse domenica per poter ricevere anche una pesca.
Più di uno stomaco brontolava ancora, ma tutti assaporavamo più di ogni altra cosa la possibilità offertaci di poter riposare, ché la notte sarebbe passata veloce e il gallo avrebbe cantato come sempre alle cinque: maledetta estate!
Quasi non mi pareva vero di poter distendere le gambe sotto il tavolo, in tutta la loro pur modesta lunghezza. Dopo averle assassinate per un’intera giornata, tornavano anche loro a reclamare un attimo di tregua, producendo secchi schiocchi artritici degni di un ottuagenario.
Mio padre proprio allora si rabbuiava, non voleva vederci in ozio nemmeno per un istante: la vita era lavoro e senza lavoro non c’era vita! Era in quel momento che solitamente pronunciava quella frase. Che a tradurla in italiano non avrebbe fatto lo stesso effetto.
Oggi credo che mio padre la dicesse apposta per farci ridere, perché ci divertissimo a prenderlo in giro, eppure a quei tempi il tono mi appariva quasi minaccioso ed io non mi sarei mai unito alle risa dei miei fratelli se anche mia madre non avesse fatto parte del coro: mio padre pretendeva rispetto con quell’ordine, non voleva certo essere canzonato!
Quando dico che voglio che vi diate da fare, dovete darvi da fare!
“Quando digo che voglio ca fè, vuol dire che voglio ca fè!”
E il pugno calava sul tavolo, a rimbombare e a sottolineare quelle parole.
A questo punto cominciava il teatrino. Anziché tremare per quella perentorietà, il clima si faceva leggero, tutti sembravano solleticati da una vena ilare che li portava ad alzare la voce in toni da commediante da palcoscenico, e proprio come attori si esibivano nei loro sberleffi all’indirizzo del genitore.
“Mamma, tira fuori il caffè, che papà lo vuole!”, gridava allora Renzo, e lanciava un’occhiata divertita a me e ad Antonio. Altre volte ci strizzava l’occhio, sempre con quell’aria da furetto, come diceva mia madre.
“Mannaggia, mi sa che l’abbiamo finito, il caffè!”, rincalzava Angelo con tono allegro.
“Il caffè, il caffè, il caffè!”, riusciva a dire Sergio.
“Vuole il caffè, il signore!”, diceva mia mamma, ed elargiva il suo sorriso più dolce, quello che più del fuoco riusciva a scaldarci nelle notti d’inverno; quindi faceva una piccola giravolta su se stessa e tornava ad occuparsi delle stoviglie.
E noi giù a ridere, con quella gaiezza stolta dell’infanzia che non sa distinguere la miseria in una fetta di polenta bianca così sottile che ci puoi vedere San Pancrazio attraverso.
E noi giù a ridere, con quella gaiezza stolta dell’infanzia.
La nostra famiglia era composta di otto elementi: io, i miei genitori e i miei cinque fratelli. Tutti maschi, per un fortuito volere del destino, ché di femmine non sapevamo cosa farcene. Alla nostra famiglia servivano “braccia buone per la terra”, come diceva mio padre. Mica “altre bocche da sfamare” e basta...
Era il 1953, un’estate fra le più calde mai registrate qui nella zona del delta del Po, e mio padre partiva alle cinque del mattino col suo bravo codazzo di figli assonnati al seguito per andare a lavorare la terra bassa di queste parti depresse.
Vivevamo di giornate assolate e fatica, senza sosta a rincalzar di vanga le piante di granoturco: le infiorescenze mature andavano ad appiccicarsi sulle nostre schiene chine cosicché era un continuo dibattersi per il prurito provocato, movimenti inconsulti che permettevano alle foglie taglienti di assaggiare i nostri scarni avambracci di bambino.
Avevo sette anni, allora; il mio compito consisteva nell’estirpare le erbacce che crescevano fra le piante di formentone e che “succhiavano l’acqua al loro posto” come diceva mio padre. Passavo così metà della mia giornata a procedere carponi fra i filari di mais, lottando strenuamente contro ogni gramigna infestante, chiacchierando coi lombrichi di passaggio e con le pietre calcinate dal sole sfacciato.
La campagna assolata stordiva le membra, l’aria canicolare le abbatteva assorbendone ogni energia. Eppure, di tanto in tanto, si alzava una brezza fresca, succosa e buona, che rinfrancava quel mio alacre peregrinare. Era al levarsi di quel refolo benevolo che scorgevo in lontananza il rizzarsi delle schiene sudate dei miei fratelli maggiori. Mio padre si spingeva sulla nuca il cappello di paglia e si tergeva la fronte con un avambraccio carnoso e possente. Il suo petto si espandeva ad abbracciare quel soffio del paradiso, quindi si immobilizzava per qualche secondo ed infine ricadeva, grato e soddisfatto.
Lo vedevo come una statua nel grano, un monumento vivente all’operosità.
Avrebbe continuato a lavorare per tutta la vita, mi avrebbe permesso di proseguire gli studi, unico fra i suoi sei figli a perseguire un diploma di licenza superiore, unico fra i suoi sei figli ad abbandonare il lavoro nei campi e ad abbandonare il formentone.
Bisognava stare “sempre sotto”, diceva, “che la vita non te la regala nessuno!”
“Sempre in prima fila se c’è da lavorare”, mi ripeteva.
Ed io sempre sotto stavo, che cavar erbacce non lo si poteva mica fare in piedi!
E sempre in prima fila, volente o nolente, che ad essere il figlio minore ero quello tartassato, quello che si faceva i lavori che gli altri non volevano fare.
Si rientrava a casa col buio, quale che fosse la stagione. Per questo motivo odiavo l’estate. Odiavo quelle giornate interminabili passate in ginocchio, a scorticare la terra.
Mia madre era a casa. Attendeva, bianca come un cadavere che ci disponessimo a tavola, sporchi, unti e bisunti secondo il suo dire. Sul mio piatto veniva a cadere invariabilmente un’unica fetta di polenta bianca così sottile “che ci potevi vedere San Pancrazio attraverso”, come provava ad obiettare Renzo, il più grande.
“Non bestemmiare”, diceva mia madre rivolgendo lo sguardo alla finestra ed alla chiesa, sul crinale.
“Mangia e taci”, era invece il monito severo del babbo, ma si vedeva che la pensava allo stesso modo. A volte si alzava ed elargiva una mezza aringa sotto sale disposta su un foglio di giornale a centro tavola perché ne facessimo un Natale, ma le occasioni in cui avveniva erano veramente rare, come quella brezza pomeridiana nel mais.
Il piatto era subito vuoto, una cena ristoratrice solo per autoconvincimento. Renzo sbuffava e si accasciava sullo schienale, Angelo e Luciano si davano alla morra cinese, Sergio chiudeva gli occhi e annusava la forchetta, Antonio correva dietro a mia madre, già intenta a sparecchiare. Io restavo a tavola, sognando che fosse domenica per poter ricevere anche una pesca.
Più di uno stomaco brontolava ancora, ma tutti assaporavamo più di ogni altra cosa la possibilità offertaci di poter riposare, ché la notte sarebbe passata veloce e il gallo avrebbe cantato come sempre alle cinque: maledetta estate!
Quasi non mi pareva vero di poter distendere le gambe sotto il tavolo, in tutta la loro pur modesta lunghezza. Dopo averle assassinate per un’intera giornata, tornavano anche loro a reclamare un attimo di tregua, producendo secchi schiocchi artritici degni di un ottuagenario.
Mio padre proprio allora si rabbuiava, non voleva vederci in ozio nemmeno per un istante: la vita era lavoro e senza lavoro non c’era vita! Era in quel momento che solitamente pronunciava quella frase. Che a tradurla in italiano non avrebbe fatto lo stesso effetto.
Oggi credo che mio padre la dicesse apposta per farci ridere, perché ci divertissimo a prenderlo in giro, eppure a quei tempi il tono mi appariva quasi minaccioso ed io non mi sarei mai unito alle risa dei miei fratelli se anche mia madre non avesse fatto parte del coro: mio padre pretendeva rispetto con quell’ordine, non voleva certo essere canzonato!
Quando dico che voglio che vi diate da fare, dovete darvi da fare!
“Quando digo che voglio ca fè, vuol dire che voglio ca fè!”
E il pugno calava sul tavolo, a rimbombare e a sottolineare quelle parole.
A questo punto cominciava il teatrino. Anziché tremare per quella perentorietà, il clima si faceva leggero, tutti sembravano solleticati da una vena ilare che li portava ad alzare la voce in toni da commediante da palcoscenico, e proprio come attori si esibivano nei loro sberleffi all’indirizzo del genitore.
“Mamma, tira fuori il caffè, che papà lo vuole!”, gridava allora Renzo, e lanciava un’occhiata divertita a me e ad Antonio. Altre volte ci strizzava l’occhio, sempre con quell’aria da furetto, come diceva mia madre.
“Mannaggia, mi sa che l’abbiamo finito, il caffè!”, rincalzava Angelo con tono allegro.
“Il caffè, il caffè, il caffè!”, riusciva a dire Sergio.
“Vuole il caffè, il signore!”, diceva mia mamma, ed elargiva il suo sorriso più dolce, quello che più del fuoco riusciva a scaldarci nelle notti d’inverno; quindi faceva una piccola giravolta su se stessa e tornava ad occuparsi delle stoviglie.
E noi giù a ridere, con quella gaiezza stolta dell’infanzia che non sa distinguere la miseria in una fetta di polenta bianca così sottile che ci puoi vedere San Pancrazio attraverso.
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